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Channel: Sviluppo pacifico – Pagina 130 – eurasia-rivista.org
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I rapporti tra Italia e Iran: T. Graziani e D. Scalea all’IRNA

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Il presidente Tiberio Graziani e il segretario Daniele Scalea sono stati interpellati dall’IRNA, agenzia di stampa iraniana, a proposito dell’andamento dei rapporti tra l’Italia e l’Iran. L’articolo in farsi può essere consultato cliccando qui. Di seguito, le risposte che i due rappresentanti dell’IsAG hanno dato all’intervistatore:
È giusto secondo voi che l’Italia segua le politiche guerrafondaie degli Stati Uniti a discapito dei suoi propri interessi nei confronti dell’Iran, in una situazione di stallo se non addirittura di recessione economica, lasciando il posto alle imprese asiatiche e russe dopo tanti sforzi per guadagnarsi un mercato fiorente che dà lavoro anche a migliaia di persone in Italia?

Anche dopo l’inserimento del Patto Atlantico, l’Italia ha cercato a lungo di condurre una politica autonoma nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. Purtroppo, gli artefici di questa linea di politica estera indipendente e “terzomondista” sono quasi tutti finiti male. Mattei e Moro sono stati uccisi, Craxi e Andreotti travolti da scandali giudiziari che ne hanno chiuso la carriera politica anzitempo. E’ così avvenuto che, dall’inizio degli anni ’90, l’Italia si sia allineata docilmente alla linea dettata da Washington. Vale a dire che, proprio nel momento in cui finiva la Guerra Fredda in Europa e cominciava a delinearsi con maggiore chiarezza la divergenza d’interessi tra le due sponde dell’Atlantico, l’Italia ha optato per una rigida disciplina di blocco. Oggi che il nostro paese è preda della speculazione internazionale, d’una grave crisi del debito, e retto da un governo di tecnocrati imposto dall’esterno, è arduo pensare che possa assumere iniziative autonome nella regione. Nei prossimi anni l’Italia sarà ancora più allineata a USA e Israele.

Quanto alle sanzioni, gli imprenditori italiani presenti sul territorio iraniano si preoccupano per il futuro delle loro imprese e affari, perché non possono più firmare alcun contratto con controparte iraniana e vedono sgretolarsi anni di lavoro in quel paese in mano ai Cinesi, Indiani e Russi.
Secondo il ministro Terzi, bisogna accrescere la pressione sull’economia iraniana anche se l’ impatto delle sanzioni sulla nostra economia è un aspetto fondamentale: più le pressioni si accrescono, più la nostra attenzione ed i nostri scrupoli sono evidenti.
Questo mentre l’interscambio commerciale tra i due paesi nel 2010, è arrivato a 7 miliardi di Euro e ora trovare un equilibrio tra politica ed interessi economici non sarà facile; ed è un problema per una diplomazia matura che intende superare la diplomazia del ridere e scherzare.
Lei cosa ne pensa?

Il punto non è conciliare politica ed interessi economici, ma l’interesse nazionale italiano con quello del blocco atlantico, ed in particolare del capoalleanza, gli USA. L’interesse nazionale italiano sarebbe ovviamente quello d’avere buoni rapporti con l’Iran così come con tutti i paesi della regione che va dal Nordafrica al Medio Oriente. L’interesse nazionale italiano è anche che questa regione sia pacifica e stabile, per potervi commerciare e fare affidamento come fonte d’approvvigionamento energetico. Al contrario, gli USA da anni perseguono una linea destabilizzante nell’area. Il problema è che gli USA riescono ad influenzare il governo italiano non solo tramite i contatti bilaterali (e multilaterali nella NATO), ma soprattutto grazie all’azione del loro “soft power”. Washington investe in Italia (come in altri paesi) milioni di euro ogni anno per finanziare istituti di ricerca, fondazioni, gruppi politici, singoli giornalisti o uomini di potere, persino studenti promettenti. Questi milioni di euro spesi sono un investimento, perché garantiscono agli USA un forte favore all’interno della classe dirigente italiana.

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L’Europa e il Mediterraneo: intervista al Prof. Bruno Amoroso

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William Bavone ha intervistato per noi Bruno Amoroso (nato l’11 Dicembre 1936)  docente emerito di Economia Internazionale e dello Sviluppo presso l’università Roskilde in Danimarca

 

Negli ultimi anni la Francia ha visto naufragare il suo ambizioso progetto di Unione del Mediterraneo. Forse, concentrandosi sull’intento di eguagliare la Germania quale riferimento per un’aggregazione di Stati (Unione Europea), la Francia non è stata accorta nella lettura dell’evoluzione politica dell’Area Sud-Mediterranea così portando al naufragio l’interazione socio-economica dell’intera area. Cosa ne pensa lei dell’involuzione di questo progetto?

Il progetto aveva una valenza potenziale positiva, che poteva essere la sua forza.  La valenza positiva era dovuta al fallimento del processo di Barcellona nato azzoppato per la chiara regia europea incapace di vedere al di là dell`accordo di libero scambio e chiaramente improntata a uno sciocco eurocentrismo sul piano culturale. Il progetto poteva riempire questo vuoto colmandolo laddove aveva mostrato i suoi maggiori limiti: ponendo al centro della partecipazione europea i Paesi dell`Europa mediterranea (Francia e Europa del sud), sia per le maggiori affinità culturali sia per un interesse obiettivo a creare una zona mediterranea di co-sviluppo e di pace. Dopo il siluramento della proposta da parte tedesca, non interessata a un rafforzamento economico e politico dei Paesi dell`Europa mediterranea, la Francia è tornata a una gestione coloniale dei rapporti mediterranei rialleandosi con le vecchie potenze europee. Penso che dopo il massacro del popolo libico e dei suoi governanti sia difficile pensare a una cooperazione euro-mediterranea per molti anni a venire. Il fallimento dei partiti “democratici e liberali” ai quali l´Occidente aveva affidato il successo della sua “primavera araba” inaugurate da Obama ne dà conferma e questo è un dato destinato ad inasprirsi almeno fin quando l`Europa non sarà scossa da una vera primavera dei popoli europei.

Il progetto francese poteva benissimo collegarsi alla Sua teoria dei CERCHI DELLA SOLIDARIETA’. Lo vede come la dimostrazione che la teoria è difficile da applicare alla realtà o come un punto di partenza per lo sviluppo della stessa teoria? 

La proposta della creazione degli “anelli della solidarietà” tra i popoli mediterranei, trasformata poi da Romano Prodi in quella dei “cerchi degli amici” dell`Occidente nella elaborazione successive della Commissione per le “politiche di vicinato”, tenta di dare contenuti e metodo agli obiettivi del co-sviluppo delle politiche europee mediterranee mettendo al centro il criterio di partner uguali e di pari dignità, e il ruolo delle comunità e società mediterranee riconosciute nella diversità dei loro sistemi produttivi e delle istituzioni che le politiche dei governi dovrebbero seguire e sostenere. Si tratta cioè di mettere in moto un meccanismo di sostegno alle scelte prese liberamente da ciascun Paese ponendo al centro il dialogo interculturale e interreligioso su basi di rigorosa non ingerenza. Gli “anelli della solidarietà” hanno alla base lo stabilirsi di rapporti tra le persone, le comunità e gli attori della società civile espressi dai vari contesti politici, economici e culturali. Questa era la base prevista dal processo di Barcellona ma poi modificata a proprio uso dai Paesi europei che hanno ritenuto di avere il monopolio dei concetti e delle definizioni da applicare arrogandosi il diritto di legittimare gli attori della società civile in altri Paesi. La proposta francese dell`Unione per il Mediterraneo sembrava contenere alcuni di questi elementi rimettendo al centro del processo i Paesi e le società mediterranee, sia europee sia del nord Africa. All`interno dell`Unione Europea la proposta poteva riequilibrare i rapporti con l`area tedesca bilanciandone l`egemonia e la prepotenza con un`area mediterranea di pari dignità insieme a quella scandinava. Ma il carattere leaderistico della proposta, concepita esclusivamente come un`alleanza tra governi per bloccare e non favorire le forti richieste dei popoli mediterranei per la difesa e il rafforzamento dei propri sistemi produttivi e culturali si è ben presto rivelata il vero obiettivo dell`operazione. Probabilmente è stato il tentativo della Francia, a conoscenza del blocco di potere che gli Stati Uniti stavano costituendo con i Paesi del Golfo (Quatar e co.) per riprendere con strategie di destabilizzazione il controllo della regione,  di rientrare nel gioco, come ha poi dimostrato con la frettolosa e insensata guerra alla Libia.

Le rivolte arabe non sembrano arrestarsi al caso libico: la Siria è in forte agitazione, l’Iran vede crescere su di se l’ombra della mano armata occidentale, l’Iraq e l’Afghanistan vanno attentamente osservati una volta che le truppe della coalizione occidentale torneranno a casa. Secondo lei siamo realmente ad un cambiamento mediorientale o si tratta di una rivoluzione “gattopardiana” – tutto cambia affinché nulla cambi?

Le rivolte arabe, intrecciatesi con le rivolte islamiche, e intensificatesi dagli inizi del Duemila sia nella forma passiva dei processi migratori verso l`Europa sia nella forma attiva della organizzazione dal basso delle proprie comunità, sono destinate a rafforzarsi e a continuare. Il tentativo di deviarle con l`orchestrazione della “primavera araba” di Obama e con le aggressioni militari della Nato e dell`Europa rivolte a rimuovere quei leader e quegli Stati (Libia, Siria, Iran, ecc.) che maggiormente fanno da ostacolo ai progetti Europei e Israeliani di colonizzazione delle risorse rimette in luce il vero volto dell`Europa che dai tempi della rivolta araba contro l`impero ottomano tenta di impossessarsi e mantenere il controllo delle ricchezze della regione soffiando sulle braci delle divisioni interne nel mondo arabo. L`accelerazione delle ripresa del controllo sui Paesi arabi, che fa seguito a quanto già fatto in Iugoslavia e in Iraq, guarda molto più lontano: è cioè sull`ipotesi di un conflitto con la Cina nel futuro per il quale l`Occidente non vuole avere ostacoli intermedi. Ovviamente si tratta di un disegno folle ma che tuttavia resta nel campo delle probabilità.

E in tutto ciò l’Europa vive sempre più sull’orlo di un precipizio. Si opta per riforme di breve periodo senza discutere la riparazione dell’intera struttura importante nel medio/medio lungo periodo. Che prospettive vede per la Comunità Europea stretta tra le crepe interne, i vicini conflitti mediorientali e l’incombere dei capitali cinesi?

Nell’occhio del ciclone della pluriennale crisi che ci coinvolge ci sono i sistemi creditizi…cosa ne pensa della possibilità di analizzare e prendere in considerazione altre forme di credito come quella ideata da Muhammad Yunus?

Il primo deragliamento all`idea di Europa, elaborata nel Manifesto di Ventotene come  una comunità di popoli europei costruita sulla cooperazione economica e la pace, si è verificato con la “guerra fredda” e la divisione dell`Europa che vi ha fatto seguito. Le possibilità di riprendere il percorso europeo di pace e cooperazione dopo il “crollo del muro” del 1989 fu nuovamente frustrato e deviato dalla Globalizzazione che dagli anni Settanta ha imposto ai Paesi europei politiche di competitività e di contrapposizione che hanno riaffermato il primato eurocentrico dell`Europa occidentale  sia rispetto agli altri Paesi europei (nordici e mediterranei) sia rispetto alle altre aree mondiali come l`Oriente e il Mediterraneo.  La finanziarizzazione dell`Economia che ne è seguita, ha importato in Europa una organizzazione dei mercati finanziari e del credito che hanno prodotto “la più grande truffa economica della storia” (J. K. Galbraith)  che ha fornito le basi per la trasformazione del “pensiero unico” liberale in “potere unico” , che sta azzerando le forme e i contenuti delle democrazie europee (dal welfare al warfare, e da Stato del benessere e imprenditore allo Stato predatore). Poiché il nuovo potere predatorio si annida nei meccanismi e nelle istituzioni della finanza (banche nazionali di investimento, borse e mercati finanziari) e di lì che bisogna ripartire denunciando l`illegalità delle loro operazioni e chiudendo le loro istituzioni come le borse e gli strumenti dei mercati finanziari (le leggi esistenti consentono di intervenire contro l`”inside trade” delle società di rating in combutta con le grandi banche di investimento, con la chiusura delle borse per “disturbativa d`asta”, contro i consiglieri tecnici dei governi assunti oggi al ruolo politico istituzionale senza alcuna cura dei conflitti di interessi che portano con se. In Europa, e in Italia, esistono le istituzioni bancarie che possono sostituire il sistema esistente. Il settore della banche di credito popolare, della banche di risparmio cooperativo, della casse di risparmio ecc. va rimesso al centro del sistema di gestione della moneta e del credito con il compito di demonetizzare le funzioni politiche e economiche, di riportare le operazioni bancarie al loro giusto costo reale con una lotta di mercato e legale contro ogni forma di usura delle banche quando i tassi di interesse superino la fascia del 2-3 %. Le banche nazionali oggi esistenti vanno nazionalizzate, riunite in un`unica banca che abbia solo funzioni di servizio per il sistema bancario e non possa operare in modo autonomo sul mercato del credito nazionale e internazione. La Banca d`Italia va abolita perché in contrasto con i principi costituzionali della sovranità popolare e le sue funzioni ricondotte dentro quelle del Ministero del Tesoro che ha la responsabilità politica del settore. Disarmare la finanza significa estendere gli stessi principi del sistema bancario al mercato dei titoli di Stato. L`interesse non può superare quello indicato per il sistema bancario, e richieste maggiori vanno perseguite come forme di usura con il sequestro dei titoli posseduti senza rimborso e misure penali. Resta il problema di come convincere i capitali accumulati a investire in titoli e attività produttive. La risposta è quella della tassazione al 90 % dei capitali immobilizzati in conti bancari o altre forme di risparmio private che superino i limiti del giusto risparmio cautelativo delle famiglie e dei singoli. La moneta ha il ruolo di agevolare la circolazione dei beni e dei servizi, non di divenire strumento di accumulazione privata e di potere. Infine la moneta nazionale deve consentire quelle operazioni necessarie a livello nazionale, mentre le economie regionali e locali possono agire tramite monete locali per gli scambi di beni e servizi  più consoni al funzionamento delle economie cooperative, delle piccole e medie imprese, delle attività associative dove parte delle attività svolte si basano sull`utilizzo di forme diverse di lavoro, compreso il lavoro volontario, su scambi diretti di beni e servizi, sulle “banche del tempo”, ecc. Accordi con i sistemi locali del credito possono fornire la gestione necessaria alla creazione di questo nuovo legame virtuoso tra economie sociali e di solidarietà, le istituzioni locali e i mercati locali. Tutto questo significa muoversi sulla linea delle esperienze del microcredito di Yunius che nelle condizioni del suo Paese sono state di certo appropriate, ma noi dobbiamo muoverci, per gli stessi obiettivi, nel quadro più complesso della moneta e della finanza.

*Bruno Amoroso (nato l’11 Dicembre 1936) è docente emerito di Economia Internazionale e dello Sviluppo presso l’università Roskilde in Danimarca, coordina programmi di ricerca e cooperazione con i Paesi dell’Asia e del Mediterraneo. Presiede il Centro Studi Federico Caffè e tra le sue pubblicazioni si annoverano:Europa e Mediterraneo (2000); Sistemi produttivi e di nuova formazione in 10 paesi della riva del sud del Mediterraneo (2002); Il futuro dell’Unione Europea: tra l’allargamento verso il Nord e il Mediterraneo  (2005);Costruzione europea e regione mediterranea (2007); Per il Bene Comune. Dallo Stato del Benessere alla Società del Benessere (2009).

*William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)


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Siria: un’aggressione che si precisa

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 Fonte: Countercurrents, 13 dicembre 2011 www.info-palestine.net

 

Gli Stati Uniti e i loro alleati si stanno preparando ad attaccare la Siria nel quadro del piano israelo-statunitense per destabilizzare la regione. Il pretesto è come al solito “proteggere i civili” e stabilire una “democrazia” di tipo occidentale. Ma naturalmente non c’è nulla di meno vero. L’obiettivo è quello di rovesciare il governo siriano e sostituirlo con un governo fantoccio al servizio degli interessi USA-Israele sionisti.

 Si noti che, dato il sostegno della Siria alla resistenza libanese e palestinese contro il terrorismo israeliano e i legami della Siria con l’Iran, il governo del presidente Bashar al-Assad è considerato una “minaccia” per gli interessi di Israele e degli Stati Uniti. Pertanto, un governo soggetto alle pretese israelo-statunitensi è vitale per isolare l’Iran e per coprire l’espansione sionista israeliana.

L’interferenza continua straniera negli affari interni della Siria, ci ricorda la recente ingerenza criminale in Libia, iniziata con la costituzione di una “no-fly zone”, un’invasione militare illegale della Libia. I resoconti dei media affermano che gli Stati Uniti e Israele hanno arruolato mercenari sauditi e il Libano per creare problemi in Siria e isolare il governo siriano dal suo popolo, alimentando le divisioni settarie.

La campagna di demonizzazione condotta dagli Stati Uniti e dai loro alleati per delegittimare il governo siriano, è simile alla campagna di demonizzazione condotta contro la Libia. Il 25 novembre 2011, la Lega Araba, un’assemblea di despoti illegittimi controllata dall’Arabia Saudita e da altri feudi petroliferi ha escluso la Siria dalla Lega araba ed ha chiesto sanzioni diplomatiche ed economiche contro di essa. Proprio come in Libia, l’esclusione della Siria dalla Lega araba fornisce agli Stati Uniti e ai loro alleati la copertura per attaccare la Siria e invadere di nuovo una nazione musulmana.

La Lega araba ha una lunga storia di tradimento e non corrisponde più a nulla. Secondo Mahdi Darius Nazemroaya *”Sono Arabia Saudita e il Gulf Cooperation Council (GCC), che hanno preso il potere nella Lega. Il GCC comprende i regni petroliferi del Golfo Arabico: Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Barhein, Qatar, Oman e Arabia Saudita. Nessuno di questi paesi è esemplare, per non parlare della democrazia. I loro leader, insediati dagli Stati Uniti, hanno tradito i palestinesi, hanno aiutato ad attaccare l’Iraq, hanno dato il sostegno ad Israele contro il Libano, hanno distrutto la Libia e ora stanno cospirando contro la Siria e i suoi alleati regionali.” Ha aggiunto: “[La Lega Araba] è stata fagocitata da Washington e serve i suoi interessi e quelli dei loro alleati, invece dei reali interessi arabi“. Come il GCC, la Lega araba è uno strumento dell’imperialismo USA. Il suo intervento vergognoso contro la Siria (una ripetizione del suo intervento vergognoso contro la Libia) è un atto di guerra contro un altro paese arabo.

Il ruolo svolto dai despoti arabi sostenuti dagli Stati Uniti e guidati da Arabia Saudita, Qatar, Giordania ed Emirati Arabi è spregevole. Ed è ironico che questi despoti fingano di essere guidati dalle preoccupazioni per i diritti umani e la democrazia in Siria. Decenni di repressione e sottrazione di beni e risorse da parte dei singoli regimi dispotici, hanno portato ad alti livelli di disuguaglianza e corruzione nei loro paesi. Nonostante la loro ricchezza, sono paesi arretrati che hanno adottato lo stile di vita decadente dell’Occidente e si sono sbarazzati dell’Islam. Hanno radunato una setta estremista (islamista) che ha distrutto la grande religione islamica. Non sono dei leader eletti, ma illegittimi che non tollerano alcuna opposizione al loro potere tirannico.

L’Arabia Saudita è, ovviamente, il regime più repressivo del mondo. È anche il più stretto alleato degli Stati Uniti. Questa è una monarchia assoluta che considera i diritti umani e la libertà come minacce alla corrotta classe dirigente. Le donne saudite sono escluse dal lavoro regolare e la disoccupazione giovanile è al 40%. Le leggi saudite dette “anti-terroriste” criminalizzare il dissenso e autorizzano un lungo periodo di detenzione senza processo. I dissidenti sono trattati con brutalità. Il 21 novembre 2011, le truppe saudite hanno aperto il fuoco su una manifestazione pacifica in una provincia orientale della Arabia Saudita, facendo quattro morti e diversi feriti. I leader sauditi non tollerano il dissenso nei paesi vicini.

Nel marzo del 2011, le forze saudite hanno preso d’assalto il Barhein e schiacciato brutalmente i dimostranti pro-democrazia. L’invasione è stata incoraggiata e sostenuta dal governo statunitense. La relazione della Commissione d’inchiesta indipendente in Barhein (CEIBS) ha cercato di giustificare il comportamento e le leggi della monarchia assoluta. Tuttavia, il rapporto ha osservato le “violazioni sistematiche dei diritti umani” durante gli attacchi del governo contro i manifestanti. Il rapporto di 500 pagine descrive le varie violazioni da parte del regime dispotico del re Hamad bin Isa al-Khalifa. Secondo il rapporto, i detenuti, compreso il personale medico il cui unico crimine era quello di aver curato i manifestanti, sono stati torturati e abusati sessualmente. Il rapporto è stato subito sepolto dai media occidentali.

Passo dopo passo, il modello Libia viene riprodotto in Siria. Il 28 novembre, le Nazioni Unite, il braccio armato dell’imperialismo statunitense, hanno accusato le forze siriane, che difendono la nazione contro le bande armate terroristiche siriane sponsorizzate dall’Occidente, di “crimini contro l’umanità”. Il rapporto del cosiddetto “Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite” è interamente basato su menzogne prodotte da espatriati siriani a Londra, Parigi e Washington. Il rapporto accusa il governo di “atrocità”, ma non parla delle migliaia di siriani, tra soldati e poliziotti, uccisi e torturati da bande armate. Lo scopo principale della relazione è quello di demonizzare il governo siriano e di giustificare l’aggressione militare occidentale. La relazione è stata subito messa in circolazione dagli organi di propaganda occidentale, come la BBC, CNN, Fox News, al-Jazeera e la stampa guidata dall’impero di Murdoch.

Il rapporto è una copia dei rapporti delle Nazioni Unite in Iraq e Libia prima dell’invasione e della distruzione ad opera dei militari USA-NATO. Lo stesso pacchetto di menzogne che sono state usate per giustificare la barbara aggressione degli Stati Uniti contro l’Iraq, è stato riciclato contro la Siria. Il rapporto è il preludio all’aggressione USA-NATO contro la Siria. Dov’era il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite durante il genocidio commesso dagli Stati Uniti in Iraq? E’ chiaro che le Nazioni Unite coprono i crimini di guerra dell’Occidente. La disinformazione gioca un ruolo importante nel manipolare l’opinione pubblica e nel creare un clima di guerra.

Mentre le Nazioni Unite si offrono di manipolare l’opinione pubblica mondiale a favore degli eserciti USA-NATO, il primo ministro britannico David Cameron e il despota del Qatar hanno promesso di sostenere i “gruppi di opposizione” siriani (leggi: fornirgli armi e denaro) per promuovere la “democrazia”. David Cameron e il despota del Qatar hanno ampiamente dimostrato il loro amore per la democrazia, distruggendo brutalmente la Libia. Oggi la Libia è come l’Iraq, saccheggiata, distrutta e abbandonata alla violenza. Decine di migliaia di libici (e africani) sono stati uccisi, migliaia languono nelle carceri dove si tortura e un terzo della popolazione è senza dimora.

Il presidente francese Nicolas Sarkozy, ancora assetato di sangue, ha chiesto la creazione di una “zona umanitaria” di sicurezza per proteggere i civili, simile alla “zona umanitaria” in Libia dove furono uccisi migliaia di civili innocenti da parte degli eserciti USA-NATO. Il pretesto dei “diritti umani” per giustificare l’aggressione è stato utilizzato per l’ascesa della Germania di Adolf Hitler. I nazisti tedeschi giustificarono le loro invasioni e violenza armata con la necessità di “proteggere i civili”. Infatti, dai primi anni ’90, vediamo l’ascesa del fascismo anglo-statunitense che invade e terrorizza nazioni indifese che ha distrutto completamente con il pretesto di “proteggere i civili”.

Secondo il quotidiano turco Milliyet (28 novembre 2011): “La Francia ha inviato istruttori militari in Turchia e in Libano per formare la cosiddetta Freedom Force [siriana], un gruppo di disertori che opera in Siria da Libano e Turchia per preparare la guerra contro la Siria“. Mercenari stranieri sono stati inviati in gran numero in Siria dal Libano. Come ho detto prima, sono armati e finanziati da CIA, MI6 britannico, Mossad israeliano, Arabia Saudita, Turchia, Libano e Giordania.

Va ricordato che la rivolta armata contro il governo siriano -finanziata e armata da Stati Uniti, Arabia Saudita, Qatar, Israele, Libano e Giordania- si limitava a piccole città e villaggi lungo i confini con Giordania, Libano e Turchia. (Per maggiori dettagli si veda il mio articolo Target Syria (http://axisoflogic.com/artman/publish/Article_63710.shtml)). La grande maggioranza dei siriani sostiene il Presidente Bashar al-Assad, soprattutto nelle grandi città come Damasco, Aleppo e Latakia. Le recenti manifestazioni in queste città hanno raccolto milioni di sostenitori di al-Assad.

Turchia, nel frattempo, usa la violenza per promuovere i propri interessi imperialisti e quelli della NATO. La Turchia ha chiesto l’istituzione di una “zona cuscinetto” in Siria per addestrare e armare la cosiddetta “resistenza siriana” al governo siriano. Questa è una palese interferenza negli affari interni della Siria, la Turchia ha inoltre organizzato conferenze per costruire l’opposizione al governo siriano e ha svolto un ruolo importante nella creazione del cosiddetto Consiglio nazionale siriano (CNS), una coalizione di espatriati dell’opposizione e di estremisti armati. I loro leader hanno già promesso di tagliare i legami con l’Iran, la Siria, i palestinesi e i movimenti di resistenza libanese, se saranno al “potere” in Siria.

Secondo Ibrahim al-Amin, direttore del notiziario al-Akhbar, in una recente intervista per il Wall Street Journal, il portavoce del CNS, “Burhan Ghalioun, è stato costretto (ed è l’unica spiegazione) a dire chiaro che l’opposizione siriana ha offerto il suo sostegno a Stati Uniti, Turchia, Europa e al Golfo in cambio del loro supporto“. Grandi quantità di armi sono state contrabbandate in Siria dalla Turchia per fomentare una guerra civile nel paese. La Turchia prevede di invadere la Siria, se Ankara ottiene via libero da Washington. Questo perché i “turchi bianchi” hanno cominciato improvvisamente a preoccuparsi dei diritti umani e della democrazia nel mondo arabo, e la Turchia interferisce negli affari interni della Siria, ma per proprio interesse e per servire gli interessi degli Stati Uniti e dei sionisti israeliani.

La Turchia si presenta come un “mediatore” imparziale nella regione, un “ponte” tra i paesi occidentali e musulmani. Nei fatti, i turchi bianchi sono al servizio dell’imperialismo occidentale e promuovono i suoi interessi nella regione dal regno di Kamal Ataturk. La Turchia si vanta di essere un paese musulmano, ma ha sposato un “calvinismo islamico” occidentale che è in flagrante contraddizione con i principi dell’Islam. I decenni di relazioni tra la Turchia e lo Stato sionista di Israele, e la partecipazione della Turchia alla guerra USA-NATO (Turchia è un membro della NATO) contro i paesi musulmani, sono contrari all’Islam. D’altronde, molti turchi hanno condannato il ruolo della Turchia nella distruzione della Libia da parte dei militari USA-NATO e l’assassinio in massa di civili libici. Inoltre, la decisione turca di consentire a USA-NATO di dispiegare lo “scudo” antimissili nucleari sul proprio territorio, e direttamente puntato verso l’Iran e altri paesi musulmani, è terribilmente ipocrita ed è un tradimento dell’Islam.

La recente posizione della Turchia come un campione della Palestina è solo una facciata retorica destinata al consumo domestico e regionale. Se i turchi bianchi avessero davvero a cuore i diritti dell’uomo, sarebbe finita la loro cooperazione con Israele e avrebbero imposto sanzioni contro lo stato sionista. I turchi bianchi dovrebbero far piazza pulita a casa loro, proprio in materia di diritti umani. Gli arabi possono e devono respingere il nuovo ruolo della Turchia come cane da guardia dell’imperialismo e del sionismo.

L’ingerenza degli Stati Uniti negli affari delle nazioni sovrane, tra cui le nazioni arabe, è ben nota. Gli Stati Uniti sono il più grande nemico della democrazia, dei diritti umani e del diritto internazionale. Per quanto riguarda la democrazia, la classe dirigente degli Stati Uniti preferisce ciò che Hillary Clinton ha definito “il tipo di democrazia che vogliamo“. Il tipo di democrazia che si trova in Arabia Saudita, Barhein, Kuwait, Qatar, Iran al tempo del torturatore Reza Shah Pahlavi, in Egitto sotto la tirannia di Mubarak e il Cile sotto il regime fascista di Augusto Pinochet. In realtà, sarebbe difficile citare un dittatore assassino che non sia stato (portato al potere), finanziato e armato dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Gli Stati Uniti hanno avuto grandi storie d’amore con dei dittatori fascisti e sanguinari.

Inoltre, le agenzie e pensatoi statunitensi come il National Endowment for Democracy (NED), Agenzia USA per lo Sviluppo Internazionale (US Agency for International Development, USAID), L’Istituto per la Società Aperta (Open Society Institute-OSI) di George Soros e il National Democratic Institute (NDI-NDI), sono direttamente coinvolti nel finanziamento di gruppi di opposizione nel mondo arabo e altrove. Il New York Times (14 aprile 2011) ha trovato “una serie di organizzazioni e di individui direttamente coinvolti nelle rivolte e nei movimenti di riforma che agitano [il Medio Oriente], come il Movimento giovanile del 6 aprile in Egitto, il Centro dei Diritti Umani del Barhein e gli attivisti di base come Entsar Qadhi, un giovane leader yemenita; ricevono formazione e sostegno finanziario da gruppi come l’International Republican Institute, il National Democratic Institute e la Casa del libertà, una organizzazione non governativa per i diritti umani di Washington.”

In Siria, la NED è direttamente coinvolta nel finanziamento dell’esercito siriano insurrezionale attraverso i suoi partner del Centro per lo Studio dei Diritti Umani, una organizzazione anti-siriana. Nel caso dell’Egitto, gli Stati Uniti hanno sostenuto il regime di Mubarak fino alla fine. Quando finalmente è stato rovesciato, gli Stati Uniti hanno cambiato bandiera e hanno lavorato per incoraggiare le divisioni e il settarismo. Allo stesso tempo gli Stati Uniti hanno continuato a lavorare con l’esercito egiziano, il loro cliente fedele, per gestire la “rivoluzione” per servire i loro interessi e quelli dei sionisti israeliani. Tuttavia, quando gli Stati Uniti non possono provocare un cambiamento di regime attraverso le cosiddette “rivoluzioni colorate” e le sanzioni economiche, intervengono militarmente (e illegalmente). Lo hanno fatto in Iraq, Jugoslavia, Libia e la Siria è ora minacciata.

Infine, la Siria non è un paese perfetto. E come in tutti i paesi, l’opposizione interna in Siria ha diversi aspetti. Ma i siriani sono contro la violenza e l’ingerenza straniera negli affari del loro paese. I siriani vogliono riforme reali -politiche ed economiche- che siano nel loro interesse. Il popolo siriano ha sofferto molto negli ultimi dieci anni. A causa delle sanzioni imposte dagli Stati Uniti e della presenza in Siria di oltre 2 milioni di rifugiati iracheni, l’economia siriana è rimasta ferma e le condizioni di vita sono peggiorate. Il popolo siriano non vuole un cambiamento di regime sponsorizzato dagli Stati Uniti. Nel marzo 2009 un sondaggio mostrava che oltre due terzi del popolo siriano ha un parere negativo degli Stati Uniti. La decisione di cambiare il governo e il sistema politico siriano, devono rimanere nelle mani del popolo siriano.

Potenti forze si riuniscono contro i siriani, che sono ora minacciati da un attacco brutale per distruggere e saccheggiare il loro paese. Non dobbiamo stare in disparte e rendersi complici di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Dobbiamo continuare la lotta per il rispetto del diritto internazionale e contro le aggressioni.

*Ghali Hassan è un commentatore politico indipendente che vive in Australia.

Nota: *http://www.globalresearch.ca/ 

http://www.info-palestine.net/impression.php3?id_article=11539

Traduzione di Alessandro Lattanzio

http://aurorasito.wordpress.com
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Tiberio Graziani al Forum Innovazioni Italia-Russia

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Tiberio Graziani, presidente dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG), ha partecipato al Forum Innovazioni Italia-Russia.

Il Forum, promosso dal Centro di Studi Russi dell’Università “La Sapienza” di Roma in collaborazione con la Fondazione “Russkiy Mir” e l’EURISPES, si è svolto i giorni 12 e 13 dicembre nella Sala del Senato Accademico, presso il Palazzo del Rettorato dell’Università “La Sapienza” di Roma, in Piazza Aldo Moro 5.

Il presidente Graziani ha preso parte all’ultima tavola rotonda tematica che si svolta martedì 13 dalle ore 18.30 alle ore 19.30, sul tema “Italia e Russia nei nuovi assetti geopolitici”. Moderata dal professor Antonio Folco Biagini, ha visto il presidente dell’IsAG Tiberio Graziani confrontarsi con Tatiana Mozel (prorettrice dell’Accademia Diplomatici di Mosca), Anton Ilin (rappresentante europeo di “Russkiy Mir”), Aleksej Turbin (PJSC “Omega”, Transneft) e Gabriele Natalizia (La Sapienza).

Presentiamo di seguito il testo dell’intervento pronunciato dal presidente Tiberio Graziani.

La Russia è un interlocutore di primaria importanza per l’Italia, e lo è sotto due punti di vista: uno energetico, ed uno diplomatico. Ma solo per comodità omettiamo qui di citare settori minori, ma non per questo privi di rilievo, nei rapporti bilaterali, come il commercio, il turismo, gli scambi culturali e così via.

Dal punto di vista energetico, il legame è ovvio: da un lato si ha una grande nazione produttrice, dall’altra una nazione territorialmente molto più piccola, ma economicamente grande, che è consumatrice. La Russia possiede una delle dieci maggiori riserve di petrolio, bene di cui è tra i primi produttori ed il primo esportatore mondiale. L’Italia è tra i quindici maggiori consumatori di petrolio, ed il settimo maggiore importatore mondiale. Per quanto riguarda il gas naturale, la Russia possiede un quarto delle riserve mondiali provate, si contende con gli USA la palma di maggior produttore mentre guida la classifica degli esportatori. L’Italia è il quarto maggiore importatore di gas al mondo, dietro solo a USA, Giappone e Germania.
Queste sono statistiche note, ma si possono aggiungere anche altri dati. La Russia ha il 15% delle riserve mondiali di carbone e ne è il terzo maggiore esportatore. Solo Germania e GB in Europa importano più carbone dell’Italia. La Russia è anche il quinto maggiore produttore d’elettricità da fonti rinnovabili, mentre l’Italia è il secondo maggiore importatore mondiale di elettricità: solo gli USA ne acquistano dall’estero più di noi. E tutto ciò malgrado l’Italia abbia un consumo pro capite di elettricità piuttosto basso: siamo al livello della Libia, oltre il quarantesimo posto in una graduatoria mondiale.
Il fato ha voluto che l’Italia fosse distante dalla Russia un paio di migliaia di chilometri, e le recenti generazioni hanno fatto sì che questo spazio fosse coperto da oledotti e gasdotti. Circa il 30% del gas naturale consumato in Italia proviene dalla Russia: si tratta del 35% del gas importato complessivamente.
Alcuni fatti recenti accrescono la dipendenza italiana dagli approvvigionamenti energetici russi. Si tratta di:

    – rinuncia al nucleare: sull’onda emotiva provocata dall’incidente di Fukushima, i cittadini italiani hanno per la seconda volta bocciato la produzione d’energia nucleare in Italia;

 

    – difficoltà nello sviluppo delle fonti rinnovabili: per lanciarsi nelle tecnologie d’avanguardia non serve solo l’inventiva – una dota connaturata all’italiano – ma anche il danaro. Il nostro sistema economico, imperniato sulle PMI, ha molti pregi ma anche punti deboli: imprese piccole e medie hanno minore capacità d’investire nella ricerca e nell’innovazione rispetto alle grandi corporazioni. L’onere della ricerca e sviluppo spetterebbe dunque allo Stato, il quale non appare però nelle condizioni finanziarie ideali per fare grossi investimenti nel campo;

 

    – conflitto libico: un altro nostro grande approvvigionatore energetico vive una fase drammatica e di profonda insicurezza. A seconda dei futuri sviluppi politici, il rapporto privilegiato con l’Italia potrebbe proseguire ma anche interrompersi, a vantaggio, presumibilmente, degli sponsor principali della guerra. Inoltre, le distruzioni provocate dal conflitto si fanno sentire sulla produzione del paese: molti analisti sono scettici sulla prospettiva, proclamata dal governo libico, di recuperare i livelli di produzione ed esportazione pre-bellici per la fine del 2012;

 

    – destabilizzazione del MENA: non solo la Libia, ma in generale tutta quell’area che gli anglosassoni chiamano MENA, ossia il Nordafrica, il Levante ed il Medio Oriente, e che è un altro grande bacino di risorse energetiche, vive una fase di rivolgimenti ed instabilità. Rivolte e cambi di governo o di regime si susseguono, crescono le tensioni inter-etniche ed inter-religiose, s’accumulano venti di guerra tra gli emirati del Golfo e l’Iran, tra la Turchia e la Siria, tra Israele ed altri paesi. Il pericolo di un grave incidente che provochi una pesante diminuzione delle esportazioni petrolifere è ormai elevato.

Questo dovrebbe spingerci ad interrogarci a proposito delle politiche europee, patrocinate – per chiare finalità geopolitiche – da Washington, di differenziazione dell’importazione energetica. Il quadro di cui sopra potrebbe apparire ad alcuni un buon motivo per insistere in tale politica, anzi darle maggiore priorità. Ma si può anche leggere all’inverso: da un lato abbiamo la Russia, che ormai da decenni garantisce un flusso sicuro ed ininterrotto. Dall’altro una regione destabilizzata, frazionata, sull’orlo della guerra, in endemico stato di rivolta; e prospettive futuristiche di nuove tecnologie che però, al momento, sono tutto fuorché una sicurezza.
Mentre i tedeschi si sono già messi al sicuro con la costruzione del Nord Stream, il progetto speculare del South Stream, di cui invece dovrebbe beneficiare principalmente l’Italia, procede ancora a rilento. La realizzazione di quest’opera, che aumenterebbe e renderebbe ancor più sicuri gli approvvigionamenti di gas dalla Russia, andrebbe posta come una priorità strategica per l’Italia. E dunque dovrebbe diventare anche una delle priorità della politica estera del nostro governo. Bisognerebbe anche avere il coraggio di dire che il Nabucco non è un grande affare: non lo è economicamente, come sanno tutti gli operatori, ma non lo è nemmeno strategicamente, almeno per l’Italia. Andare a prendere grosse quantità di gas dal Turkmenistan, probabilmente dall’Iraq, forse dall’Egitto, in prospettiva persino dall’Iran, e farlo transitare nel cuore del Vicino e Medio Oriente, potrebbe essere una buona idea per una grande potenza, ma non certo per una media potenza come l’Italia. Bisogna chiarire una volta per tutte che non basta tracciare una linea d’approvvigionamento e sviluppare le necessarie infrastrutture ed accordi economici. Una volta che la rotta è in funzione, bisogna saperla difendere. E quale influenza, quali capacità di proiezione della sua forza, ha l’Italia rispetto a regioni come il Vicino Oriente, il Caucaso, il Caspio o l’Asia Centrale? La risposta è che dovremmo affidarci agli USA, alla loro capacità e volontà d’intervenire massicciamente in queste aree complesse, che già oggi faticano a domare. Privilegiare il Nabucco rispetto al South Stream sarebbe un azzardo pericoloso, pericolosissimo per l’Italia.

Veniamo in breve al secondo aspetto per cui la Russia è assai rilevante, strategicamente, rispetto all’Italia: quello diplomatico. Una costante della politica estera italiana è sempre stata una certa subalternità. L’unità d’Italia fu realizzata da un piccolo Stato, il Regno di Sardegna, che vi riuscì appoggiandosi alla Francia di Napoleone III (per la conquista della Lombardia e del Centro), alla Gran Bretagna (per quella del Mezzogiorno) ed alla Prussia (per incorporare il Nord-Est e il Lazio). L’Italia unita fu riconosciuta come una grande potenza, sì, ma “l’ultima delle grandi potenze”. E perciò fu sempre alla ricerca di un alleato maggiore cui appoggiarsi. Inizialmente era il Secondo Impero francese; poi, dopo Sedan e le fallite avances rivolte alla Gran Bretagna, fu il Secondo Reich tedesco. Nella Prima Guerra Mondiale si passò all’alleanza con Parigi e Londra, per poi tornare a Berlino negli anni ’30; dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, l’alleato/patrono di riferimento sono diventati gli USA: condizione che perdura ancora oggi.
Tutti questi rapporti sono stati caratterizzati da una dose, più o meno marcata, di subalternità dell’Italia rispetto all’alleato. E Roma, tradizionalmente, ha sempre cercato di controbilanciare questa condizione intrattenendo nel contempo relazioni significative con altri interlocutori di potenza pari o quanto meno paragonabile a quella dell’alleato. Il Regno di Sardegna controbilancia l’influenza dell’alleato francese con l’amicizia britannica; l’Italia alleata dei Tedeschi si concedeva “giri di valzer” con i britannici e francesi; la Repubblica ha in qualche modo cercato di controbilanciare lo strapotere statunitense appoggiandosi all’asse franco-tedesco ed anche, durante il periodo del neoatlantismo in particolare, all’URSS. La Russia mantiene questa fondamentale funzione di appiglio diplomatico, cui ricorrere per controbilanciare l’alleanza, assolutamente asimmetrica e sbilanciata, con Washington.

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Intervista a Carlos Pereyra Mele

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William Bavone ha intervistato per noi Carlos Pereyra Mele, docente universitario argentino, membro del CEES e del Comitato Scientifico di “Eurasia”

WB – La situazione geopolitica attuale mette in risalto una forte instabilità europea (uno dei tre pilastri del modello della Globalizzazione). A tale dissesto si cerca di ottemperare con l’introduzione di governi tecnocratici poco convincenti sui risultati ottenibili per un rafforzamento armonico dell’intera meso-area. Dall’Argentina del 2001 impariamo che per dissuadere la tecnocrazia da un suo proliferare, occorre una presa di coscienza popolare in grado di ristabilire una sovranità legittima, ma il contesto sociale in cui ci troviamo non dimostra tale capacità intrinseca al popolo, secondo lei cosa può aiutare il risveglio della popolazione europea?

CPM – E’ interessante che venga fatta questa domanda ai latinoamericani e agli argentini in particolare dato che sono sempre stati considerati gli “estranei”, gli “inesperti”, nel momento in cui venivano presentati alla così detta società sviluppata del primo mondo. Erano l’esempio da non seguire ed oggi è tutto il contrario. La nostra (popolo argentino) esperienza ci dice che la società europea non ha ancora raggiunto il fondo della crisi e che nel momento in cui non sembra esserci più via d’uscita al sistema, emerge dapprima una reazione gregaria e successivamente ve ne è una più organizzata. Si tratta di una strada dolorosa da percorrere. Per alcuni aspetti noi argentini siamo molto esperti in ciò visto che siamo stati il banco di prova di tutti gli esperimenti del neoliberismo, ma essendo considerati periferici al sistema, l’ impatto sulla nostra società non ha preoccupato a livello mondiale (Per questo ho fatto il mio breve saggio sul Golpe del Mercato in Europa al quale ci riferiamo). Paradossalmente tale condizione di marginalità è stata d’aiuto all’Argentina: permise di generare una coscienza anti-imperialista appoggiata dal sistema e dai media. La popolazione era in gran fermento e allo stesso tempo iniziava un gran lavoro per la prima esperienza di politica peronista.

WB – L’Europa ha dimostrato tutta la sua vulnerabilità nel farsi travolgere dalla speculazione finanziaria giunta al suo apice. Le nuove riforme a livello macro si dirigono verso uno “snellimento” istituzionale quale risposta al momento di criticità. A suo avviso è la strada giusta da seguire, oppure occorrono riforme che risanino la vecchia struttura senza pregiudicarne le fondamenta (i singoli Stati)?

CPM – La visione che si ha in America Latina è che la magnifica idea di integrazione continentale dell’Europa, è stata bombardata da un sistema economico finanziario che ha cercato di liberarsi da tutti i controlli istituzionali comunitari in primo luogo, approfittando dei tassi elevati di consumo della sua popolazione incrementando i propri profitti a scapito dell’apparato produttivo europeo. Per conseguire tale fine si la finanza ha approfittato della complicità dei politici (che hanno accettato a scatola chiusa il nuovo Dio Mercato, indifferentemente dal loro credo politico), intellettuali e università. Questi hanno dato sostegno ideologico al cambio di sistema: un modello speculativo piuttosto che basato sulla produzione. I mass media, come tutti sappiamo, sono stati gli strumenti utilizzati dai poteri finanziari, per addomesticare con successo la popolazione. È necessaria quindi una rifondazione del sistema Europeo, che consideri le asimmetrie dei suoi Stati , che controlli l’apparato speculativo finanziario e ritorni alla produzione reale.

WB – Francia e Germania sono viste da Lei quali “speculatori” del sistema Europa, ossia come Nazioni che hanno implementato il loro sviluppo “approfittando” dell’Eurozona. Ma se guardiamo da un livello macro, non potrebbe essere che le due Nazioni rappresentino semplicemente delle “mucche da mungere” più grandi e che con il tempo saranno piegate anche loro dalla finanza occidentale?

CPM – Germania e Francia insieme all’Italia furono alla base del modello di integrazione europea e quando l’alleato degli Stati Uniti,la Gran Bretagna, ne entrò a far parte senza condizioni – da parte della Comunità – il sistema subì un cambio di modello. Questo perchè i fondatori del neo-liberalismo su scala globale furono la coppia Reagan-Teacher (Stati Uniti – Regno Unito) e, mediante l’integrazione al modello europeo, riuscirono ad ottenere l’espansione del sistema finanziario che diventò inarrestabile e senza il controllo degli Stati. Questi si ridussero a seguire le direttive che venivano emanate da questo potere sconfinato, ma dato che tutti facevano parte del modello e gli sfruttati erano “gli altri”, non se ne preoccupavano. Oggi invece accade che “gli altri” sono gli europei. È chiaro che Francia e Germania subiranno il colpo, già lo vediamo con Zarkosy e la Merkel, che procedono ad applicare soluzioni tradizionali ed ortodosse ai loro Paesi, esigendo prima di tutto che gli altri Stati dell’Unione prendano la stessa amara medicina. Ma se qualcosa abbiamo imparato, avendone già sofferto le conseguenze devastanti, è che al “sistema” non interessa il dolore, il caos e la distruzione che crea con le sue “azioni di salvataggio”, si preoccupa solo di mantenere i propri livelli di garanzie e privilegi. Per capire il modello ed il livello di controllo e dominio che ha raggiunto sullo Stato, vi raccomando di leggere l’articolo su come si gestisce il sistema finanziario negli Stati Uniti: Sei sorprendenti rivelazioni sul “governo segreto” di Wall Street der Les Leopold-(1), hanno lucrato fino a quando il Vaticano ha emesso un comunicato col quale sollecitava un governo mondiale (?) per uscire dalla crisi.

WB – L’incombere dei capitali del BRICS in soccorso al sistema occidentale potrebbero rivelarsi come un neocolonialismo finanziario – cioè trasformare l’Europa in un territorio “posseduto” dai capitali stranieri – oppure possono dar vita ad un riassestamento più equilibrato dei rapporti bilaterali tra aree geografiche?

CPM – La penetrazione di capitali provenienti dai BRICS, mi sembra che si riduca per lo più al capitale cinese e in minor misura russo (per quanto concerne l’energetico). Le altre potenze emergenti non partecipano a questo schema e ricordate che i capitali di queste seguono il modello dettato dalle regole di gioco stabilite dal “sistema” o se decidessero di investire nelle migliori imprese europee , non credo che possano rappresentare la salvezza dalla crisi del Vecchio Continente. Solo una negoziazione basata sulla forza dell’Europa (unita) permetterà di non cadere nel neocolonialismo a cui fa riferimento. A tal proposito, sembra fuorviante parlare della possibilità che l’Europa sia conquistata dall’Estremo Oriente, ma è pur sempre un possibile scenario se pur lontano.

WB – Si parla da anni di una riforma del FMI e della BM; secondo Lei, è sufficiente o è necessario un cambiamento rivoluzionario di tali istituzioni?

CPM – Sappiamo tutti che le due agenzie nascono per arginare le conseguenze della II Guerra Mondiale, che sono state create per stabilire un equilibrio tra i due blocchi vincitori, ma questa è una storia morta così come l’utilizzo del dollaro come standard globale per gli scambi commerciali e l’imposizione della triade (USA, UE e Giappone) al blocco sovietico. Questi due organismi (FM e BM) sono stati il ​​braccio operativo per la globalizzazione finanziaria che oggi è fuori controllo e sono solo uno strumento utilizzato da quel sistema per continuare a garantire la propria sopravvivenza. È giunto il momento di attuare profondi cambiamenti di queste organizzazioni o crearne nuove.

WB – Per concludere una domanda sull’area Latinoamericana. Nel suo ultimo articolo su EURASIA (1 Dicembre) traccia le strategie geopolitiche che potrebbero riguardare il Sud America. Più nello specifico parla dell’ ”agenda”degli USA. A tal proposito, non potrebbe essere che su quell’agenda il SUD sia messo in stand-bay in attesa di governi più benevoli verso l’asimmetria dei rapporti bilaterali?

CPM – Il tempo corre contro gli Stati Uniti: la creazione di organismi fuori dall’influenza USA – come UNASUR, il Consiglio di difesa Sudamericano, il Banco do Sur, il recente incontro del CELAC – l’emergere di concorrenti commerciali come Cina e India e, in minor misura la Russia, hanno spiazzato gli USA – che hanno problemi anche di stabilità economica interna. Diventa sempre più difficile tornare ai vecchi tempi, quando l’Americalatina era il loro “cortile”. Il Brasile che, oltre ad essere un ombrello sul continente, svolge un ruolo nel processo di integrazione reale e non dialettica a cui sono molto legati i Paesi a sud del Rio Grande. Prendiamo per esempio i due Stadi del Sud alleati degli USA: Cile e Colombia hanno dimostrato una forte intenzione di costruire strumenti per ripararsi dalla crisi globale dando vita all’ UNASUR e migliorando le loro relazioni bilaterali con i “nemici” di Washington. In realtà agli Stati Uniti è rimasta una scelta: o perseguire nell’uso dell’espediente del conflitto per cercare di mantenere la sua presenza in Americalatina e nei Caraibi o stabilire un dialogo serio e utile per il Continente in modo tale da continuare a mantenere una posizione di rilievo nello stesso.

 

* Carlos Pereyra Mele, docente universitario argentino, membro del CEES e del Comitato Scientifico di “Eurasia”

*William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

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I Fratelli Musulmani ed il piano per la protezione di Israele

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New Orient News (Libano), Tendances de l’Orient No 61, 12 dicembre, 2011

Non è un segreto, gli eventi che hanno scosso il Medio Oriente hanno per scopo proteggere Israele dalle gravi conseguenze della sconfitta del progetto statunitense in Iraq. E tutto ciò l’alleanza occidentale, guidata dagli Stati Uniti, lo compie come parte della “primavera araba”, rientra in questa categoria.

L’accordo raggiunto tra gli Stati Uniti e i Fratelli Musulmani al Cairo, è stato presentato dalla Assistente per gli Affari del Vicino Oriente della Segretaria di Stato USA, Jeffrey Feltman, che ha solo confermato ciò che gli osservatori avevano già intuito analizzando le dichiarazioni dei leader del movimento islamista in molti paesi arabi e musulmani.

Si sono aggiunte, di seguito, nel medesimo contesto, le affermazioni del presidente del Consiglio nazionale siriano di Istanbul, Burhan Ghalioun, che ha gettato la maschera, sostenendo che l’opposizione avrebbe cercato, se fosse andata al potere, di spezzare legami con l’Iran e i movimenti della resistenza libanese e palestinese. Ghalioun ha rifiutato la lotta armata per liberare il Golan occupato, che dovrebbe essere ottenuto, ha detto, attraverso il negoziato.

Ma ancora più importante: i leader dei Fratelli musulmani siriani hanno rivelato le loro vere intenzioni, dicendo che, se prendessero il potere, invierebbero l’esercito siriano in Libano per combattere Hezbollah. Vale a dire, che partirebbero volontari per la missione che Israele non era riuscita a realizzare nel 2006, nonostante il sostegno di trenta paesi arabi e occidentali.

Queste posizioni dei movimenti e degli individui che affermano di rappresentare la “legittimità popolare” si inseriscono perfettamente nel contesto delle politiche degli Stati Uniti, il cui scopo primario è proteggere lo Stato ebraico.

E non è un caso. Ciò conferma ciò che abbiamo scritto su questo bollettino da più di sette mesi. Inoltre, i centri di ricerca occidentali sono più propensi a denunciarlo, e l’ex ministro degli esteri francese, Hubert Védrine, ha chiaramente detto, in una conferenza a Beirut la scorsa settimana: “Gli Stati Uniti sostengono la Fratellanza Musulmana“.

Questo spiega in gran parte, la sfiducia del patriarca maronita mons. Bishara Rai contro la “primavera araba”, che rischia di provocare, ha detto, una frammentazione del Medio Oriente in entità religiose, servendo gli interessi di Israele, e ponendo una seria minaccia alla presenza dei cristiani e delle altre minoranze religiose in questa regione.

L’assegno in bianco per l’arrivo degli islamisti al potere in Tunisia, Libia e ora in Egitto, dovrebbe convincere, chi ha ancora dubbi, le reali intenzioni dell’occidente, guidato dagli Stati Uniti.

Il tentativo di distruggere lo stato nazionale siriano e di dividere il paese, è uno dei pezzi principali di questo puzzle che l’Occidente sta cercando di raccogliere. È per questo che ignora i crimini commessi in Siria da parte dei gruppi estremisti armati, cui ora aggiunge l’etichetta di “disertori”, meno ripugnante agli occhi dell’opinione pubblica occidentale che non salafiti o estremisti musulmani.

Dominata dagli Stati Uniti, ignara delle conseguenze che può subire, Europa, srotola il tappeto rosso al movimento islamista, poco considerato come un serio pericolo.

La tendenza in Siria: il potere in sè, l’opposizione nella confusione

Lo sviluppo degli eventi in Siria non può essere separato dal contesto regionale e internazionale. L’autorità ha accettato di firmare il protocollo elaborato dalla Lega Araba per l’invio di osservatori, in piena collaborazione con la Russia. Inoltre, fonti diplomatiche russe in Libano dicono che la Russia non abbandona il regime siriano, e questo supporto è una questione strategica per Mosca. Queste assicurazioni sono contrarie alle previsioni dei responsabili della coalizione pro-occidentale del 14 marzo.

Di fronte al supporto russo alla Siria, diventa difficile rovesciare il regime militare, nonostante i preparativi a questo scopo in Turchia, Libano e, in misura minore, Giordania. Per contro, la pressione sulla Siria continuerà, in particolare mentre ci avviciniamo alla fine del ritiro USA dall’Iraq. Gli statunitensi vogliono creare problemi, per distogliere l’attenzione pubblica da questo ritiro e dall’atmosfera di sconfitta che la circonda. Inoltre, i moti in Siria sono destinati a sostituire l’attacco militare contro l’Iran, che sta diventando sempre più difficile in questo clima di crisi e con i problemi finanziari che agitano l’Europa e gli Stati Uniti.

La situazione in Siria dovrebbe rimanere instabile, anche se il regime ha finalmente deciso di firmare il protocollo della Lega Araba, senza dubbio troveranno altri angoli per mantenere la pressione. Tuttavia, le sanzioni della Lega araba avrebbero rafforzato il sentimento patriottico tra i siriani, un popolo con un grande orgoglio nazionale. Inoltre, i Fratelli Musulmani sono stati praticamente debellati nel paese negli anni ’80, e non hanno avuto il tempo di acquisire una larga base popolare e sono costretti a portare armi e a commettere veri e propri massacri, per marcare la loro presenza.

In parallelo, le dichiarazioni del capo del Consiglio nazionale siriano a Istanbul, Bourhan Ghalioun, contro l’Iran, Hezbollah e Hamas, hanno scosso gran parte della popolazione siriana. Voci su un incontro che avrebbe tenuto in ottobre a Washington, tra funzionari dell’amministrazione degli Stati Uniti, un rappresentante del CNS e un funzionario israeliano, hanno iniziato a circolare. Secondo queste voci, il rappresentante del CNS avrebbe chiesto aiuto finanziario, riconoscimento diplomatico dalla comunità internazionale e l’intervento militare contro il suo paese.

Sul campo, le violenze continuano, e le dimostrazioni contro e in favore del regime. Ma esso è riuscito a mettere in imbarazzo la Lega Araba, esprimendo la sua disponibilità a firmare il protocollo per l’invio di osservatori. Il processo dovrebbe richiedere alcuni giorni o settimane, mentre gli sviluppi in tutta la regione rimangono più o meno incontrollabili, e la situazione rimane instabile in Egitto, Bahrein e Yemen.

Gli Stati Uniti avevano tranquillamente cercato di aprire un dialogo con l’Iran, ma la Repubblica islamica avrebbe opposto un netto rifiuto a questa richiesta. Per contro, Teheran avrebbe richiesto l’apertura di un dialogo con l’Arabia Saudita, che pure ha respinto il suggerimento. Questo significa che per il momento, i canali dei negoziati sono bloccati a livello regionale e internazionale.

La situazione interna in Siria è solida, mentre il piano per crea una zona cuscinetto al confine con la Turchia, è in difficoltà. Per non parlare del fatto che la Russia ha, a sua volta, esercitato pressioni sulla Turchia, che ha anch’essa un tessuto sociale fragile. Il primo ministro turco Recep Erdogan Tayyeb ha alzato i toni verso la Siria, mentre cerca di nascondere la sua incapacità di agire sul terreno.

Le dichiarazioni di Hassan Sayyed Nasrallah, segretario generale di Hezbollah

Questo è un messaggio a tutti coloro che cospirano contro la Resistenza e puntano su un cambiamento. Non rinunceremo mai alle nostre armi. Giorno dopo giorno, la resistenza recluta sempre più combattenti, addestra al meglio i combattenti e si arma sempre più pesantemente.

Gli Stati Uniti cercano di distruggere la Siria per compensare la loro sconfitta in Iraq. Gli Stati Uniti hanno cercato di spacciarsi come i difensori dei diritti umani e della democrazia nel mondo arabo. Questi ipocriti sono noti per avere sostenuto tutte le dittature che hanno rinnegato, subito dopo la loro caduta. Ciò è il segno di Satana.

L’opposizione siriana è sottomessa agli Stati Uniti e ad Israele. Fin dall’inizio, abbiamo detto chiaramente che siamo con il regime siriano, un regime di resistenza contro Israele. Vuole distruggere la Siria. Il cosiddetto Consiglio Nazionale siriano, formato a Istanbul, e il suo leader Burhan Ghalioun, cercano di presentare le loro credenziali a Stati Uniti e Israele. Le parole di alcuni, secondo cui le armi della resistenza sono fonte di caos, confusione o altri problemi di sicurezza in Libano, sono un inganno. Avete mai visto un problema di sicurezza in Libano o una guerra civile, durante la quale vengono sparato missili Zelzal, Khaibar o Raad. Le armi leggere sono presenti nelle mani di tutti i libanesi. Se vogliamo che ci sia sicurezza al suo interno, dobbiamo considerare il problema di queste armi.”

Estratti da un’intervista a Jeffrey Feltman, Assistente del Segretario di Stato USA per il Medio Oriente su un quotidiano vicino al 14 Marzo, al-Jumhuria, dell’8 dicembre:

Il modo migliore per evitare la guerra civile in Siria, sono le dimissioni di Bashar al-Assad ora. È necessario anche che la mafia sicuritaria che lo circonda smetta di uccidere la gente. Sappiamo che il futuro della Siria deve basarsi sullo stato di diritto e la democrazia. Sono sicuro che i libanesi approvano le decisioni della Lega Araba, dell’Unione europea e degli Stati Uniti. per discutere e trovare il modo pacifico di porre fine alla barbarie in Siria.

Vogliamo ricorrere al Consiglio di Sicurezza se l’iniziativa araba non avesse successo. Se Bashar al-Assad non è responsabile per le violenze, come egli sostiene, perché lui ed il suo entourage non permettono agli osservatori di giungere nel paese a scoprire chi sia la parte responsabile?

Prima si dimette Assad, meglio sarà la situazione. Il presidente Obama ha ricordato, il 18 agosto, che è tempo per Assad di andare via e che di assistere alla transizione pacifica e democratica del potere.

L’esercito siriano, a cui è stato chiesto di lasciare il territorio del Libano, è ora il territorio siriano. Il ritorno dell’ambasciatore Ford a Damasco non è un dono a Bashar al-Assad. Questo è un modo per mostrare il nostro sostegno al popolo siriano e di ottenere informazioni più precise sulla situazione in Siria.

Quello che sta accadendo in Siria non dovrebbe estendersi al Libano. Funzionari libanesi hanno detto che il loro principale obiettivo è quello di proteggere il Libano dagli eventi in Siria. È compito del capo del governo e dei funzionari libanesi trovare il modo perfetto per proteggere il Libano. Nello stesso tempo, crediamo che il Libano dovrebbe anche aiutare a trovare i mezzi necessari per fermare le violenze (…)

Noi non trattiamo con Hezbollah, un’organizzazione che non segue le regole democratiche anche se ha una grande base popolare. Quando queste regole le vanno bene, Hezbollah le sostiene, ma nel caso contrario, ricorre all’uso della forza e delle armi per imporre la propria volontà. La decisione del Primo Ministro libanese Mikati di dare un contributo al bilancio della STL non è stata presa dagli Stati Uniti o da un altro paese, ma dal Libano. Accogliamo con favore la decisione che proverà alla comunità internazionale, che il Libano rispetta i suoi impegni internazionali.

 

Pierre Khalaf: Ricercatore presso il Centro per gli studi strategici arabi e internazionali di Beirut.

http://www.mondialisation.ca/PrintArticle.php?articleId=28171

[Traduzione di Alessandro Lattanzio http://aurorasito.wordpress.com]

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Francesco Brunello Zanitti: “Progetti di egemonia”. Recensione e intervista all’autore

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Fonte: “Il Democratico

 

Sempre più spesso Stati Uniti e Israele appaiono come due facce della stessa medaglia, questo perché la loro special relationship è qualcosa che va aldilà di un semplice credo politico, ma arriva quasi al trascendentale. Due nazioni distanti fra loro, per posizione e storia, ma accomunate dall’idea della propria superiorità morale, dalla convinzione che esse siano le “prescelte” e, perciò, entrambe portatrici sane di un “eccezionalismo” di fondo, abbondantemente e continuamente propagandato. Ecco perché Neoconservatori da una parte e Neorevisionisti dall’altra presentano degli elementi che li accomunano. Ma questi elementi bastano, di per sé, a legare le due nazioni? Perché, dunque, gli Stati Uniti sono vicini a un Paese così distante sia culturalmente che geograficamente? Questo è l’aspetto più interessante del libro Progetti di egemonia. Neoconservatori statunitensi e neorevisionisti israeliani a confronto, poiché evidenzia come gli interessi di questo legame speciale risiedano non solo in questioni “morali”, ma soprattutto economiche. La cosiddetta Israel Lobby, di cui anche Walt e Mearsheimer hanno recentemente parlato in un loro libro, è portatrice di grandi interessi (in termini di pecunia) e spinge affinché Israele non sia minacciata dagli stati arabi confinanti.L’approccio atlantista è di sicuro effetto fra “Noi Occidentali”, grazie anche ai mezzi di comunicazione che lo supportano: Israele, dopotutto, è l’unico “baluardo occidentale” all’interno di una regione a “connotazione araba”, e noi, gli occidentali, siamo spinti a credere che la difesa di tale territorio sia prioritaria. Dopotutto, dopo la “Liberazione” del 1945, l’Europa si è sempre più sentita “in debito” con uno Stato che non ha mai nascosto il fatto di ritenersi superiore al resto del mondo: gli USA, la nazione bound to lead, ci inducono ad abbracciare e a ritenere giuste le cause che loro stessi abbracciano, anche se i motivi sono economici piuttosto che idealistici. Troppo spesso gli esperti, i vari studiosi, ma anche gli stessi mass media giocano sulla indubbia somiglianza dei concetti “antisemita” e “antisionista”, portando chi ascolta (e troppo spesso non ha conoscenza di ciò di cui si parla) a ritenere che salvare Israele significa salvare il popolo ebraico e che chi critica gli israeliani è, per partito preso, un antisemita. Gli Stati Uniti non sono da meno e, seguendo i propri enormi interessi economici (ricordiamoci che la Lobby ha al suo interno personaggi di spicco del mondo politico statunitense e non solo, e che è in grado di influenzare notevolmente i risultati elettorali all’interno della nazione), incitano l’Occidente alla salvaguardia di Israele. E lo fanno anche se ciò significa l’uccisione di centinaia di innocenti, se implica l’uso smodato della forza militare, o se va contro lo ius cogens. Come è possibile, dunque?

Il libro di Brunello Zanitti è molto interessante perché aiuta il lettore a capire non solo le origini della nascita dei due movimenti politici di riferimento, ma anche perché si addentra nelle dinamiche che la nascita di tali partiti ha creato, offre spiegazioni puntuali rispetto ad avvenimenti storici del passato e apre la strada all’interpretazione dei nuovi possibili scenari futuri.

 

 

Il tuo libro è molto interessante perché  delinea degli elementi comuni fra due movimenti politici distanti fra di loro, non solo geograficamente ma anche ideologicamente. Da una parte un movimento che nasce dalla sinistra democratica disillusa, dall’altra vediamo un movimento ultraconservatore. Come mai hai voluto concentrare la tua analisi su questo argomento? C’è stato qualche particolare elemento o avvenimento, più o meno recente, che ti ha spinto ad approfondire questo tema e a elaborare la tua tesi?

La scelta di questo argomento è dovuta al mio interesse per il conflitto tra israeliani e palestinesi, contraddistinto storicamente da un particolare ruolo svolto dagli Stati Uniti. Alcuni avvenimenti recenti mi hanno spinto ad approfondire questa tematica, ad esempio l’intervento statunitense contro l’Iraq nel 2003 e, pochi anni dopo, la guerra tra Israele e Libano del 2006, così come l’operazione “Piombo Fuso” contro Gaza tra dicembre 2008 e gennaio 2009. In tutti questi eventi di guerra riscontravo una certa somiglianza e una medesima “giustificazione morale”, nonostante i contesti diversi. Gli interventi militari furono favoriti dai gruppi politici al potere a quell’epoca, neoconservatori negli Stati Uniti e destra israeliana neorevisionista nello Stato ebraico. A questo proposito, prendendo spunto da alcuni articoli di autori israeliani e statunitensi che già avevano analizzato le possibili similitudini tra i due movimenti, su tutti, come ricordo nel libro, l’articolo di Ilan Peleg e Paul Scham Israeli Neo-Revisionism and American Neoconservatism: The Unexplored Parallels pubblicato nel 2007 sul “The Middle East Journal”, ho messo a confronto neocons e rappresentanti del Likud, soprattutto per quanto riguarda l’adozione di simili procedure in politica estera. Fermo restando che siano esistiti medesimi obiettivi, soprattutto negli ultimi anni, non ho presentato un disegno cospiratorio o un comune progetto politico. A questo proposito ho utilizzato numerosi articoli, pubblicati nel periodo che va dagli anni ’70 al 2000, nei quali si può individuare il pensiero degli appartenenti a queste correnti. Ho analizzato anche le idee degli intellettuali che successivamente non hanno ricoperto cariche pubbliche nei rispettivi Paesi, ma senza dubbio il loro pensiero politico ha influito decisamente nelle successive scelte in politica estera. La rivista dei neoconservatori “Commentary” è stata fondamentale per comprendere le idee dei due gruppi, diverse a seconda dei contesti storici, la maggior parte delle quali sono state messe coerentemente in pratica, soprattutto tra il 2001 e il 2008.

Vorrei comunque ricordare che un altro aspetto che mi ha spinto ad approfondire l’analisi di questi due movimenti sono stati l’avversione e i pregiudizi che percepivo nei confronti dei musulmani, causati soprattutto dagli eventi dell’11 settembre, ma in generale verso le culture diverse da quella occidentale. Il tema dello “scontro tra civiltà”, paradossalmente favorito dagli stessi neocons a causa della loro ideologia fortemente intrisa da interventismo ad ogni costo (economico e militare), così come dalla percezione di minacce continue, è un aspetto che considero molto importante. Questi due gruppi, non tenendo conto delle differenze culturali e se effettivamente una determinata società ha il desiderio di adottare particolari sistemi di stampo occidentale, hanno favorito questo “scontro” per motivazioni di carattere geopolitico ed economico, nascoste da giustificazioni di tipo morale per il diritto-dovere statunitense e occidentale di esportare il modello corretto e legittimo di società.

Nella tua analisi mi ha colpito il riferimento che fai alla cosiddetta “lobby ebraica”. Se ne è sentito parlare abbastanza di recente con il libro, a cui tu peraltro fai riferimento, di Walt e Mersheimer. Come loro, anche tu abbracci l’idea che questa lobby influenza la politica estera statunitense, sempre rivelatasi filoisraeliana. Fino a che punto ritieni che questa abbia pesato nelle scelte di Washington e perché? Si può affermare che il suo ruolo si è evoluto?

Il sistema politico statunitense consente a diversi gruppi di pressione d’influenzare la politica interna ed estera. Esiste anche la cosiddetta Israel Lobby che influisce sulla politica estera del Paese in Vicino Oriente e ha naturalmente un importante peso in termini elettorali. Nonostante sia una lobby molto potente e organizzata che pubblicizza le proprie azioni, non ritengo sia l’unico gruppo di pressione o il più importante, ma in ogni caso il suo ruolo si è evoluto nel tempo. L’appoggio statunitense nei confronti d’Israele, soprattutto a partire dagli anni ’60 è spiegato in diversi modi e la lobby ha avuto in questo senso un ruolo fondamentale. Nel contesto della Guerra Fredda, lo Stato ebraico rappresentava strategicamente gli interessi del blocco guidato dagli Stati Uniti in Vicino Oriente, contenendo l’ascesa sovietica nell’area, una zona vitale per gli interessi energetici. Israele era considerato un baluardo della democrazia, della libertà e dei valori occidentali contrapposti al comunismo, nonostante l’Unione Sovietica abbia favorito la nascita del paese nel 1948; il legame tra URSS e Israele entrò in crisi per la sempre più stretta relazione israelo-statunitense e per il rapporto privilegiato che Mosca stabilì con alcuni Stati arabi. Nonostante il rapporto di special relationship tra Israele e Stati Uniti, ci sono stati momenti storici in cui alcune amministrazioni statunitensi non hanno avuto una linea totalmente filo-israeliana, come avvenuto durante l’epoca di maggiore influenza neoconservatrice. Fino agli ’70 la comunità ebraica statunitense era tradizionalmente vicina a posizioni liberal più che all’universo rappresentato dal Partito Repubblicano; i neocons criticarono proprio la scarsa politica filo-israeliana del Partito Democratico e per questo motivo si spostarono verso i repubblicani di Ronald Reagan. Esistono altre motivazioni di tipo morale, accentuate dai neocons: si ritiene che Israele sia una democrazia, moralmente superiore ai paesi arabi e circondata da una serie di nemici intenzionati a distruggerlo; Israele condivide i medesimi valori occidentali ed esistono, inoltre, motivazioni di carattere religioso da non sottovalutare. Negli Stati Uniti i sionisti cristiani ritengono necessario un concreto sostegno a Israele poiché la Bibbia attesta l’esistenza dello Stato ebraico come volontà divina.

La seconda comunità ebraica a livello mondiale risiede negli Stati Uniti e anche per questo motivo esercita una considerevole pressione politica. Sarà interessante valutare come agirà Obama in questi mesi in vista delle elezioni del prossimo anno.

Nella tua analisi delinei, con riferimenti ad avvenimenti storici più  o meno recenti, quali sono le caratteristiche di questa special relationship fra i due Paesi e come tale rapporto è nato. Questa situazione sembra essersi ben consolidata nel tempo. Quindi, spostandoci alla situazione attuale, come descriveresti i rapporti reciproci fra le due nazioni, in che modo credi che influenzino gli equilibri geopolitici odierni e futuri, e come ritieni che i due movimenti leggano e, eventualmente, influenzino lo scenario politico?

I rapporti tra i due Paesi sono ottimi, testimoniati dalla recente condanna statunitense nei confronti della dichiarazione unilaterale d’indipendenza della Palestina all’ONU. Gli Stati Uniti hanno anche votato contro la presenza della stessa Palestina nell’Unesco.

Nonostante ciò, visto il declino geopolitico degli Stati Uniti e il confronto sempre più aperto con nuovi attori emergenti, in particolare la Cina, in alcuni casi esistono delle visioni in politica estera che sembrano essere discordanti, se si pensa, ad esempio, alle rivolte arabe. Esistono delle pressioni occidentali per l’emergere delle sommosse popolari, pur esistendo un malcontento generale all’interno dei paesi arabi. In questo contesto gli interessi israeliani potrebbero essere messi in discussione, poiché sono stati modificati alcuni scenari che garantivano lo status quo regionale favorevole ad Israele. Questo aspetto è evidente soprattutto per quanto riguarda l’Egitto nel caso in cui prevarranno le componenti islamiste del panorama politico egiziano. Un altro aspetto importante riguarda la Turchia, Paese della NATO e alleato di primo piano degli Stati Uniti nell’area. Washington sta tentando di ricucire i rapporti tra i due alleati, i quali competono per la supremazia geopolitica nell’area. Per quanto riguarda Ankara, si parla recentemente di un possibile intervento in Siria, sostenuto dalla NATO, colpendo allo stesso tempo gli interessi iraniani. Il problema, in ottica israeliana, è il potenziale aumento d’influenza turca nell’area ai danni dello Stato ebraico, il quale osserva negativamente alcuni risvolti del nuovo ruolo “neo-ottomano” assunto dalla Turchia nel Vicino Oriente. Il modello politico turco per le rivolte arabe potrebbe invece essere favorito da Washington.

Israele e Stati Uniti hanno invece una comune percezione della minaccia iraniana, ma lo Stato ebraico sembra più evidentemente propenso all’intervento militare preventivo e unilaterale rispetto all’alleato nordamericano. Nonostante le sanzioni imposte recentemente da Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna, un ipotetico intervento militare è improbabile vista l’avversione dei sempre più influenti BRICS. In ogni caso, il nucleare iraniano è una prospettiva sgradita per l’aumento di potere deterrente dell’Iran nei confronti di Stati Uniti e Israele; allo stesso tempo sarebbe una sfida inaccettabile per l’Arabia Saudita nella contemporanea competizione tra sunniti e sciiti nell’area, nonché una mossa che potrebbe generare una corsa al nucleare in altri Stati del Vicino Oriente.

Per quanto riguarda l’influenza politica dei due movimenti, ritengo che il neorevisionismo, essendo ancora al potere, mantenga la sua costante influenza. Nonostante abbia messo in crisi con la sua ideologia l’asse turco-israeliano, potenziale danno per gli stessi Stati Uniti poiché elemento importante nella concezione geopolitica dell’area da parte statunitense, la radicalizzazione dell’area, vista la situazione in Egitto e in generale nel mondo arabo, così come un eventuale aumento delle tensioni con l’Iran potrebbero comportare il rafforzamento di posizioni più intransigenti e radicali nella società israeliana. Dunque, i partiti della destra hanno buone probabilità di mantenere il potere, nonostante ci siano dei movimenti interni contrari alle politiche di Netanyahu, soprattutto in campo economico.

I neoconservatori, in particolare dopo l’intervento in Iraq, sono in una fase di declino e per le elezioni del 2012 non sembra che il futuro leader che rappresenterà il Partito Repubblicano, visti gli attuali candidati, sarà legato al movimento. L’influenza neoconservatrice è in deciso calo, ma senza dubbio è stato valutato positivamente dai neocons l’intervento militare in Libia. Allo stesso tempo però viene richiesta una decisa azione militare contro Siria e Iran, così come una politica più aggressiva nei confronti della Cina.

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Nel mezzo di guerre di fede e di droni

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L’ascesa dei partiti islamici terrorizza Israele. E così sulla sponda Sud del mediterraneo sono tornati a volare i droni, i velivoli che non hanno bisogno di pilota perché basta schiacciare da lontano un bottone, e la macchina parte e bombarda scatenando le guerre senza uomini. Sono le unmanned wars (così le chiamano) nelle quali traiettorie e bersagli da colpire sono decisi da cerchie di tecnici e politici che sfuggono ad ogni controllo poiché non hanno le salme dei propri soldati di cui devono dar conto.

Tutto accade perché l’Egitto si è affidato ad Allah. L’altra settimana, quando sono stati diffusi dalla commissione elettorale i primi risultati ufficiali delle elezioni che si concluderanno a gennaio, si è profilata una maggioranza assoluta islamista nel futuro parlamento egiziano. Infatti, i gruppi di ispirazione religiosa hanno stravinto ottenendo più del 65 per cento dei consensi. I Fratelli musulmani, ufficialmente al bando ma semi-tollerati sotto Hosni Mubarak¹ hanno ottenuto il 36,62 per cento, gli integralisti salafiti di Al-Nur il 24,36 per cento, il moderato Al-Wasat il 4,27 per cento. Non è possibile ipotizzare quanti seggi otterrà ciascuna coalizione perché con questo sistema elettorale bisogna attendere tutti i dati nazionali per conoscerne la ripartizione. Tuttavia quel che si può desumere dai risultati finora forniti è che il Partito della Libertà e della Giustizia dei Fratelli musulmani ha ottenuto 3 milioni e 560mila voti sui 9 milioni e 730 milioni di voti validi, mentre ai salafiti di Al-Nur sono andati 2 milioni e 370 mila voti e al partito Wasat 415.590 voti.

I numeri, evidentemente, si devono ancora assestare, ma i rapporti di forza nel più popoloso paese arabo confermano che dopo la cosiddetta “primavera araba” c’è la volontà – in tutto il Nord Africa – di realizzare un nuovo ordine sociale su base religiosa. E’ una spinta che proviene dal basso, e – come sostiene Gilles Kepel² – essa rappresenta il rimedio o meglio ancora l’alternativa ogni qual volta le identità imposte dall’alto non soddisfano. Infatti, se nell’analisi dei fatti nei quali sono coinvolte le religioni si accantonano gli strumenti analitici di impostazione cristiana, si scopre che il fondamentalismo prima di ogni altra cosa difende o afferma i valori della fede, la quale non può essere sepolta sotto frasi d’effetto come “il tribalismo rinato” per spiegare gli eventi degli ultimi tempi. In ogni caso le credenze, islamiche, ebraiche, cristiane, indù, (l’elenco potrebbe continuare), non possono essere svalutate facilmente poiché ciascuna religione non è in una posizione completamente irrazionale dal momento che in ogni caso essa privilegia la ragione. Dopo tutto, la via del dialogo cosmopolita si percorre imparando a conoscere i percorsi storici di ogni singola fede, cercando di coglierne le somiglianze e le differenze.

In Egitto i risultati seppure parziali indicano comunque l’affermarsi di un blocco religioso che con ogni probabilità conquisterà la maggioranza del Parlamento. I numeri, ripeto, si devono ancora assestare, ma il quadro si è già delineato poiché lo schieramento laico e liberale prevede di riuscire a conquistare non più di un quinto dei voti destinati alle liste di partito. Cosicché nel giro di qualche mese, le chiavi della politica egiziana saranno custodite nel pretenzioso palazzotto pseudo barocco, costruito in pochi mesi dai Fratelli musulmani nella periferia di Moqattam e pagato, si dice, con i soldi dell’Arabia Saudita (un miliardo di dollari di finanziamenti). Se poi i Fratelli musulmani per governare dovessero coalizzarsi con i salafiti potrebbero dover accettare l’introduzione di una buona dose di leggi coraniche³. Il che potrebbe voler dire: divieto per le donne, o gli appartenenti alle minoranze religiose, di occupare incarichi dirigenziali, divieto di consumare bevande alcoliche, di diffondere l’arte non islamica e il divieto del turismo balneare. Questo accade perché, come ricorda Lawrence Sudbury⁴, siccome «in tutto il Corano ogni riferimento ad Allah avviene con il pronome di terza persona maschile, risulta chiaramente la qualità evidentemente e prettamente maschilista dell’Islam, che non lascia alcuno spazio ad alcuna forma di femminilizzazione del divino. Almeno apparentemente».

In buona sostanza quella che è stata definita la “primavera araba” è tra i fenomeni più interessanti e disarmanti del mondo del dopo-muro diventato globalizzato. Essa ha conquistato – continuando a mantenerla – la ribalta sebbene molti autorevoli osservatori culturali occidentali sentenziassero che la religione non avrebbe più giuocato un ruolo importante negli avvenimenti del mondo. Nemmeno l’Iran che ha dato l’ avvio al fondamentalismo religioso era stato tenuto in considerazione, poiché s’è continuato per molti anni a considerare quella vicenda come un fenomeno isolato, proprio della componente rivoluzionaria della quale la religiosità sciita si vanta. Sono valutazioni oggi smentite dagli avvenimenti che delineano la prospettiva di grandi masse governate dall’autorità dei testi sacri. Questo sgomenta in Occidente e altrove. Ne è un esempio recente l’ennesima barriera che Israele sta costruendo lungo i suoi confini. Non a caso il progetto riguarda la frontiera egiziana, che dopo la rivoluzione che ha deposto Hosni Mubarak per le autorità israeliane è diventata potenzialmente molto pericolosa. Esso prevede una barriera alta poco meno di 5 metri e lunga 225 chilometri, tanto misura appunto il confine con l’Egitto da Rafah a Ein Netafim. I lavori proseguono come sono iniziati e cioè con ritmi forsennati. Entro il prossimo gennaio la recinzione (sormontata da filo spinato, torri di controllo alte 30 metri, telecamere di sicurezza e allarmi laser) avrà coperto i primi cento chilometri. Si dovrebbe completare nell’ottobre 2012.

Secondo l’analisi del Washington Post⁵, la barriera sarebbe un’ulteriore conferma dell’isolamento (sempre più imbarazzante per il governo americano) di Israele in Medio Oriente. Eppure, le affinità culturali e spirituali tra le genti di quella sponda del Mediterraneo ci sarebbero poiché come spiega Lawrence Sudbury, «il Giudaismo è con l’Islam la religione più rigidamente monoteistica: il “tawheed” (la concezione dell’unicità di Dio) è così fondamentale che la prima frase della “Shahadada”, la dichiarazione di fede che costituisce il primo pilastro dell’Islam, proclama, in modo non dissimile dal “Sh’ma Yisrael” ebraico, il più inequivocabile credo monoteistico (“Ash-hadu an laa ilaaha illallah”, letteralmente “io testimonio che non vi è alcun Dio all’infuori di Allah”)». Naturalmente queste sono citazioni che gli studiosi si scambiano e sono perciò elitarie. Dopo tutto gli aspetti religiosi vanno sempre verificati nei luoghi dove la gente vive e lotta per sopravvivere. Pertanto – per rimanere in tema – Mohamed Morsy, il presidente del Partito della Libertà e della Giustizia dei Fratelli musulmani, per tutelarsi i consensi dovrà recuperare anche quei militanti che scrivono su Facebook o urlano dai marciapiede che le «donne non possono essere parlamentari perché la carica sarebbe troppo pesante per loro». E che così facendo rischiano di compromettere quell’immagine di Islam moderato che il Partito propaganda per non allarmare l’Occidente.

D’ altro canto pure la tradizione cattolica è costretta a inseguire la gente che si muove ansiosa e disorientata – tra mondi tecnologici avanzati e fenomeni come «guarigioni, visioni celestiali, interventi provvidenziali» – alla ricerca di nuove conferme poiché la modernità ha spostato l’attenzione dal passato al presente, o per essere più precisi: il passato è stato messo da parte per dar maggior risalto al tempo reale. Che comunque si dipana sia con modelli di comportamento orientati dal consumismo e dal piacere, sia con modelli di controllo che tengono a freno determinati impulsi o ne sollecitano degli altri. Accade in tutte le comunità con una cultura a prevalenza religiosa in ogni angolo di mondo. Pure questo è un fenomeno nuovo legato alla globalizzazione. Soprattutto in quei luoghi dove a far da fondale sono gli spostamenti di masse di lavoratori che emigrano e di flussi di rifugiati. Costoro rappresentano l’Altro, l’estraneo, l’emarginato sul quale l’attenzione dei religiosi si appunta poiché più di ogni altro essere umano è come la “ruota dentro la ruota” di Ezechiele, cioè uno strumento di diffusione di un insieme di valori culturali che il mercato, il consumismo inevitabilmente vorrebbe cancellati.

Malauguratamente il mondo dei media si è trovato del tutto impreparato a spiegare il rapporto vero tra modernità e nuova religiosità, tra i sacri testi e il capitalismo informatico. Va pure aggiunto che esso non ha fatto nulla o quasi nulla per aggiornarsi. Tutto è improntato alla superficialità. Infatti, quasi sempre i panorami mediatici sulle religiosità si soffermano sugli aspetti più folclorici, più truculenti, più sensazionali offrendo immagini deformate che si ripercuotono su scala globale. Un esempio tra i tanti è la frase di Manuele II Paleologo: «Mostrami pure ciò che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava» che Papa Ratzinger⁶ ebbe (http://www.controapologetica.info/testi.php?sottotitolo=La gaffe di Ratisbona#) l’infelice idea di citare a Ratisbona, e che rilanciata in maniera esponenziale dai media ancora oggi – cinque anni dopo – scatena violente reazioni nel mondo islamico ogni volta che le circostanze ne stimolano il ricordo. Oppure come è accaduto di recente ha offerto il pretesto al presidente iraniano Ahmadinejad di ricordare come, malgrado i valori cristiani contengano un ripudio della violenza, «tutte le guerre del XX secolo sono state provocate da nazioni europee e dagli Stati Uniti».

A far da sfondo nello scenario del mondo globalizzato c’è il capitalismo consumistico determinato con tutti i mezzi delle tecnologie della comunicazione ad imporre gli stili di vita consumistici. E’ una cultura che viaggia su spazi incommensurabili dove ha conquistato posizioni prioritarie. Siccome essa mira soltanto al trionfo del profitto, essa non incoraggia la conoscenza della fede, della spiritualità, dei valori culturali. Anzi si adopera per offrirne un’immagine stemperata e distorta nel tentativo non ultimo di far implodere il tempo in un presente perenne, il quale possiede la pericolosa capacità di attenuare la memoria e di svuotare la speranza di significati. Insomma, il mondo dell’istante e dell’immediato è allo stesso tempo il mondo del consumo il quale per principio investe sul futuro.

Stando così le cose, ogni giorno di più sembra di vivere nella commedia dell’assurdo come lo è l’impiego del drone, al quale Obama ricorre assai più sistematicamente di Bush. Infatti l’altro giorno uno di quei velivoli ha sorvolato Iran che l’ha abbattuto. Naturalmente altri velivoli senza pilota volano anche in Afghanistan, hanno volato in Libia e continuano a volare su paesi come la Siria, lo Yemen. Siccome i droni sono gestiti dalla Cia ai cittadini è pressoché impossibile bloccare i governi che impartiscono quegli ordini di morte. Va pure detto che le nuove regole imposte dal mercato del consumo si impongono più rapidamente e con più efficacia eludendo la legge internazionale, sottraendole ai controlli democratici, alimentando i conflitti.Lo scandalo è che nessuna discussione seria è iniziata, tra europei e americani, sul futuro in cui siamo entrati e che la “primavera araba” per molti versi suggella. Eppure ce ne sarebbero di cose da ripensare.

* Vincenzo Maddaloni è giornalista e saggista

¹ http://www.vincenzomaddaloni.it/?p=1082

² http://it.wikipedia.org/wiki/Gilles_Kepel

³ http://www.reuters.com/article/2011/12/02/us-egypt-election-idUSTRE7AR08V20111202

http://www.lawrence.altervista.org/

http://www.washingtonpost.com/world/middle_east/on-israels-uneasy-border-with-egypt-a-fence-rises/2011/11/28/gIQAZt19JO_story.html

⁶ http://www.controapologetica.info/testi.php?sottotitolo=La gaffe di Ratisbona#

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L’IsAG diviene partner del World Public Forum “Dialogue of Civilizations”

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L’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) è lieto d’annunciare d’essere divenuto un partner ufficiale del World Public Forum “Dialogue of Civilizations” (WPC).
Il WPF è nato nel 2002 su iniziativa di rappresentanti della società civile russa, indiana e greca, desiderosi di tradurre in atto la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 9 novembre 2001 sulla “Agenda globale per il dialogo tra civiltà”. Dal 2003, il WPF organizza annualmente un forum internazionale che si tiene a Rodi, cui il presidente dell’IsAG Tiberio Graziani è da qualche anno ospite abituale. Oltre al Forum di Rodi, il WPF promuove numerose altre conferenze internazionali.
Il WPF, che ha le proprie sedi centrali a Mosca e Vienna, è presieduto da Vladimir Jakunin (presidente delle Ferrovie russe, ex ministro), Alfred Gusenbauer (ex cancelliere austriaco) e Fred Dallmayr (professore universitario statunitense).
I partners del WPF includono, oltre all’IsAG, anche l’UNESCO e l’Organizzazione per l’Educazione, la Cultura e la Scienza della Lega Araba: la lista completa è consultabile cliccando qui.
L’IsAG esprime la propria soddisfazione per il riconoscimento implicito in questa prestigiosa partnership, che si ritiene porterà grossi benefici all’Istituto.
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Quante guerre nel Vicino Oriente?

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In effetti, sembrerebbe più corretto parlare di guerre, al plurale. Alcune di queste sono già in corso, altre vengono preparate e minacciate più o meno esplicitamente a seconda dei casi.

Guerra alla “Primavera”

L’improvviso scoppio delle rivolte arabe ha costituito una sfida ideologica e geopolitica sia per Israele che per l’Arabia Saudita. Il rovesciamento di un leader arabo dopo l’altro ha profondamente innervosito la monarchia saudita; allo stesso tempo la rivolta sciita nel vicino Bahrein ha minacciato la stabilità interna del regno sunnita e l’egemonia sulla penisola vis-à-vis con l’Iran. Per Israele la cacciata di Mubarak, insieme a un improvviso peggioramento delle relazioni con la Turchia, ha significato la perdita di due alleati strategici e il crescente isolamento in un momento in cui il favore verso la causa Palestinese sembra crescere globalmente.

I sauditi stanno affrontando la crisi con efficacia spietata: Riyadh, potendo fare affidamento su enormi riserve di denaro liquido, ha adottato un’aggressiva politica di spesa per mettere a tacere il dissenso sia in Arabia Saudita che in altri paesi della penisola araba, schiacciando velocemente la rivolta del Bahrein mentre l’Occidente guardava altrove.

La casa saudita ha inoltre sistematicamente cercato di interpretare le proteste scoppiate nella penisola in chiave settaria. Riyadh ha attribuito le proteste nella propria provincia orientale e in Bahrein alle presunte ingerenze di Teheran, sebbene i leader della minoranza sciita saudita e quelli della maggioranza sciita in Bahrein abbiano quasi sempre rivendicato la propria indipendenza ed essenzialmente basato le proprie richieste su principi non settari improntati alla giustizia sociale e ad una maggiore democrazia.

Dopo che il diffondersi delle rivoluzioni della Primavera Araba aveva costretto Riyadh sulla difensiva, lo scoppio della rivolta siriana ha permesso alla famiglia saudita di passare all’offensiva. La rivolta siriana ha presentato un’opportunità d’oro per dare agli eventi una direzione favorevole ai Sauditi e ad Israele. Se il regime di Assad dovesse essere deposto, preferibilmente da un governo filo occidentale e filo sunnita, l’Iran verrebbe privato del suo alleato chiave e del contatto con Hetzbollah. L’idea, che sia resa esplicita o no, ha fatto breccia sia a Washington che a Londra ed anche in Turchia.

Non vi è dubbio, infatti, che la campagna volta a isolare l’Iran a livello internazionale e quella volta a far capitolare il regime siriano, siano guidate anche dalla possibilità di spezzare l’asse siro-iraniano, e più in generale il cosiddetto “asse della resistenza” – che comprende anche Hezbollah, Hamas e i nazionalisti arabi. In altre parole, si sta assistendo a una convergenza di interessi fra l’intenzione di Washington di rovesciare Assad al fine di allontanare la Siria dall’orbita iraniana e isolare i movimenti della “resistenza” araba (Hamas e Hezbollah), e la volontà dei regimi del Golfo (in primo luogo dell’Arabia Saudita) di riportare la Siria nell’alveo arabo, e sunnita, isolando l’Iran sciita.

La crisi siriana sta determinando una polarizzazione a livello regionale. In Libano, ad esempio, la coalizione del 14 marzo a guida sunnita, filo-occidentale e filo-saudita, si è schierata apertamente a sostegno dell’opposizione siriana, mentre Hezbollah, movimento notoriamente vicino all’Iran e leader della contrapposta coalizione, ha ribadito il proprio appoggio al regime di Damasco.

In questo processo rischia parimenti di essere coinvolto l’Iraq. Baghdad si è opposta alla decisione della Lega Araba di imporre sanzioni alla Siria, non perché il governo iracheno sia un fantoccio di Teheran, ma in primo luogo per fondati motivi interni. Soprattutto, Baghdad teme che, se la Siria sprofondasse in una guerra civile, l’instabilità potrebbe estendersi al territorio iracheno. Il ritiro americano che si concluderà entro la fine di dicembre apre un vuoto di sicurezza in un paese in cui le tensioni fra l’emarginata comunità sunnita e la comunità sciita al potere stanno riemergendo. Queste tensioni potrebbero essere presto sfruttate e alimentate dall’Iran e dai paesi arabi sunniti, pronti ad occupare lo spazio lasciato vuoto dagli Usa.

Nuova guerra a Gaza?

Sembra che sul versante israeliano si profili come sempre più probabile un nuovo intervento nella Striscia di Gaza. La decisione circa la data dell’operazione dipenderà da diversi fattori- valutazioni di intelligence sui probabili obiettivi, condizioni climatiche, lo stato delle truppe regolari e delle riserve e soprattutto la situazione in Egitto. Il dilemma che si pone Israele è: agire mentre Tantawi e i suoi ufficiali sono ancora in carica? Il prossimo regime egiziano sarà presumibilmente anti-israeliano o comunque meno tollerante rispetto all’attuale governo. Inoltre la partecipazione dei Fratelli Musulmani crea un’affinità ideologica e anche geografica con il regime di Hamas nella Striscia.

Un’operazione militare a Gaza, sul modello di “Piombo Fuso”, non lascerebbe indifferente il nuovo regime egiziano, che probabilmente invierebbe le proprie truppe come assistenza o come scudo per i civili. Israele quindi si troverebbe a scegliere tra la continuazione delle operazioni militari e quindi il rischio di un confronto con i soldati egiziani da un lato, e la sospensione delle operazioni nella speranza di evitare l’avvicinamento tra il nuovo Egitto ed Hamas dall’altro.

Questi fattori spingono Israele ad agire in fretta, prima del giugno-luglio 2012. D’altro canto, un’azione immediata potrebbe portare l’attuale regime militare a una fine anticipata: il popolo egiziano si ribellerebbe nuovamente al governo militare. Una dinamica del genere porterebbe a risultati elettorali sicuramente sfavorevoli a Israele. Il risultato finale sarebbe quindi un successo tattico ( per esempio, la decapitazione di Hamas a Gaza) ma un fallimento strategico.

La stagione di cambiamento che ha rivoluzionato il Vicino Oriente ha reso paradossalmente la Giordania l’elemento più stabile tra i vicini di Israele. Non è un caso che il re di Giordania Abdullah II abbia visitato Ramallah di recente, boicottando Gerusalemme e gli uffici del primo ministro Netanyahu e del ministro degli esteri Lieberman. Dunque anche il confine con la Giordania sembra sempre più minato. In questo clima non ci sarebbe da sorprendersi se Israele decidesse di agire preventivamente attaccando Gaza, prima che anche quell’area diventi ingestibile. Le decisioni saranno prese a Gerusalemme dallo stato maggiore delle forze di sicurezza guidato da Gantz, ma dipenderanno dagli eventi dei mercati e delle piazze del Cairo.

Guerra all’Iran

Il fatto che le politiche degli Usa in Iraq e in Afghanistan abbiano rafforzato enormemente l’Iran costituisce motivo di forte tensione per l’Occidente e i suoi alleati. La speranza di ammorbidire il regime islamico o di una nuova e più moderata fazione al potere sono state deluse. I politici di destra israeliani hanno da tempo dichiarato l’Iran una “minaccia per la loro esistenza” e spingono per un intervento militare.

Fallito il tentativo di costringere l’Iran a fermare i programmi di arricchimento nucleare, agli Usa, Israele e alleati non rimane che svelare le proprie intenzioni, intensificando le minacce di bombardare l’Iran. Sanzioni severe hanno colpito il regime iraniano e lo stanno spingendo sempre di più all’angolo. Incidenti misteriosi e sabotaggi in diverse installazioni militari iraniane continuano. Perfino funzionari americani, hanno confermato – sebbene in via non ufficiale – l’esistenza di un programma di “operazioni sotto copertura” portato avanti da parte americana, a cui si aggiunge un “marcato attivismo” dei servizi israeliani. A conferma di ciò, domenica 4 dicembre, un sofisticato drone americano dotato di tecnologia “stealth” (cioè, teoricamente invisibile ai radar) è caduto nelle mani degli iraniani (in pieno territorio iraniano, a oltre 200 chilometri dal confine con l’Afghanistan), mettendo in luce fino a che punto si sia spinto il programma di spionaggio americano ai danni dell’Iran.

Come ha affermato Mark Hibbs, esperto nucleare presso il Carnegie Endowment, l’intensificarsi delle operazioni sotto copertura indica che Stati Uniti e Israele per il momento stanno concentrando le proprie energie su questo fronte, invece che su un attacco militare convenzionale. Tuttavia il timore è che “proseguendo su questa strada, scateniamo forze che non saremo in grado di controllare”.

Risultato di tutto ciò è un Iran sempre più belligerante e un clima interno incandescente, come ha evidenziato la presa violenta dell’Ambasciata Britannica a Teheran. Tale assalto è avvenuto probabilmente con l’acquiescenza della Guida Suprema e dei suoi fedelissimi, all’indomani dell’imposizione di sanzioni contro la banca centrale iraniana da parte di Londra.

Guerra delle sanzioni

Finora lo strumento preferito da Usa, Europa e Lega Araba restano le sanzioni economiche che sempre più severamente colpiscono Siria ed Iran. Tuttavia, a causa degli stretti rapporti economici con Damasco e Teheran, difficilmente Mosca e Pechino si allineeranno alle posizioni occidentali riguardo alla crisi siriana ed a quella iraniana. Al contrario, queste due grandi potenze potrebbero rappresentare una vitale “retrovia” per il regime di Damasco e la Repubblica islamica iraniana, e per i loro alleati regionali, in quella che si prefigura come una nuova guerra fredda ad altissima tensione, che rischia in ogni momento di sfociare in conflitti aperti nella regione dalla portata potenzialmente devastante.

Quando i venti del cambiamento hanno raggiunto il popolo siriano, la Lega Araba non è corsa in aiuto di Assad, come aveva fatto nel caso del Bahrein. Non riuscendo a rompere il legame tra il regime di Assad e l’Iran, la Lega ha espulso la Siria, imponendogli sanzioni severe così come hanno fatto gli Usa e gli alleati occidentali. Man mano che la rivolta s’intensifica diventano sempre maggiori i rischi di una vera e propria guerra civile in un paese multi-etnico e multi-religioso com’è la Siria.

In Libia l’Occidente ha potuto facilmente imporre una no-fly zone e sostenere gli oppositori di Gheddafi; non può fare la stessa cosa in Siria, almeno non con la stessa facilità. In primo luogo perché parte della Siria è sotto occupazione israeliana e un attacco, soprattutto se fossero coinvolti alcuni stati arabi, potrebbe essere interpretato come una presa di posizione a favore di Israele. In secondo luogo, le capacità militari e difensive della Siria sono molto più elevate che in Libia. Il clan di Assad può contare ancora su un grande supporto, non solo fra gli Alawiti e tra le fila dell’esercito, ma anche fra diverse minoranze e forze laiche che temono la crescente influenza dei Fratelli Musulmani e dei Sauditi nella regione. Soprattutto, la Siria ha anche degli alleati su cui far affidamento.

Il fatto che la rivolta popolare in Siria sia caduta ostaggio delle dinamiche geopolitiche regionali, e che la frammentata opposizione siriana sia sostenuta da tutti i nemici storici del regime di Damasco e dell’alleanza siro-iraniana, paradossalmente rafforza Assad ricompattando il fronte arabo nazionalista e le forze della “resistenza”, e addirittura lo stesso asse con Teheran.

Sembra sempre più chiaro che la protesta popolare per una vita migliore, più giusta e più dignitosa sia stata soffocata in una lotta spietata per l’egemonia geopolitica, giocata sempre più su esplosive linee settarie. E come dice un proverbio africano, quando gli elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata.

Corsa alle armi

Tutti si sentono insicuri e isolati, tutti si stanno armando fino ai denti, spostando forze e preparandosi per un eventuale confronto. Sembra quasi una nuova guerra fredda, eccetto per il numero maggiore di attori indipendenti, cosa che rende il calcolo più complicato e i rischi molto più alti.

In Siria stanno affluendo crescenti quantitativi di armi attraverso il confine giordano, turco e libanese e gli analisti affermano che il traffico bellico proveniente dall’estero potrebbe intensificarsi rapidamente. Fra l’altro, alla fine di novembre il Daily Telegraph ha rivelato la poco rassicurante notizia di colloqui segreti tra i ribelli siriani e le nuove autorità libiche, le quali avrebbero offerto armi e addestratori. Dai paesi del Golfo starebbero invece giungendo all’opposizione in Siria soprattutto ingenti finanziamenti e materiale per le telecomunicazioni.

La Nato ha stabilito un centro di comando e controllo nella provincia meridionale turca di Hatay, dove truppe britanniche e intelligence francese stanno addestrando l’Esercito Libero Siriano (ELS). L’obiettivo: fomentare una guerra civile che inghiotta il Nord della Siria. Ora arriva la conferma, attraverso il sito web dell’ex informatore del FBI Sibel Edmonds, che la manovra sta effettivamente avvenendo e che coinvolge anche la Giordania. Edmonds cita fonti locali secondo cui “centinaia di soldati che parlano lingue diverse dall’Arabo si stanno muovendo avanti e indietro tra la base aerea di King Hussein ad al-Mafraq e villaggi giordani adiacenti al confine siriano”.

Conclusioni

Diversi sono gli scenari ipotizzabili e i più pessimistici diventano anche i più probabili con il passare dei giorni.

In Siria, se Assad si decidesse ad abbandonare i suoi legami con l’Iran, la Lega Araba potrebbe cercare una via d’uscita dalla crisi e salvare così il suo regime. Se l’insurrezione si espandesse e il regime siriano cedesse alle pressioni interne ed esterne per accettare una “exit strategy”, la crisi potrebbe essere evitata. Ad ogni modo, questi scenari sembrano meno probabili giorno dopo giorno. La storia ci insegna infatti che i dittatori non sono capaci di imparare dal passato.

Rimangono altri scenari, incluso il più pericoloso. Dal momento che le sanzioni non fermeranno la repressione del regime siriano, nessuna no fly-zone può essere imposta. L’aviazione siriana e il sistema di difesa aereo non la rispetterebbero, causando un’escalation nel conflitto aereo e la possibilità di coinvolgere paesi occidentali e arabi nel bombardamento di installazioni siriane. Il regime siriano potrebbe decidere di non aspettare la sua caduta, e potrebbe provare a provocare Israele con il lancio di missili oppure coinvolgere Hetzbollah a fare lo stesso; Hetzbollah, sapendo che la maggior parte della sua forza deriva dai suoi alleati siriani e iraniani, potrebbe acconsentire. Diversamente che nell’invasione dell’Iraq del 1991 quando gli Usa hanno dissuaso Israele dal rispondere agli attacchi missilistici iracheni, il governo israeliano molto probabilmente stavolta risponderebbe con la forza.

Se Israele dovesse entrare in scena, il quadro cambierebbe drammaticamente. Nessun paese arabo, neanche l’Arabia Saudita, l’Unione degli Emirati Arabi o il Qatar oserebbero schierarsi al suo fianco. Alla fine, il regime iraniano, vedendo i suoi due principali alleati minacciati e sapendo di essere il prossimo sulla lista, potrebbe iniziare a supportarli più attivamente, cosa che aumenterebbe di molto le probabilità di un bombardamento dell’Iran da parte degli Usa e di Israele. Il ritiro statunitense dall’Iraq inoltre rende possibile per i jet israeliani attraversare lo spazio aereo iracheno senza il permesso statunitense. Molti però sostengono che il costo di tale attacco autonomo sarebbe troppo alto per Israele.

Lo scenario ottimistico per l’Iran sarebbe ovviamente quello di cedere alle pressioni interne e internazionali e rispettare le misure imposte dall’AIEA. Altrimenti, dal momento che le sanzioni non fermeranno le sue ambizioni, l’Occidente potrebbe ricorrere a bombardamenti chirurgici delle installazioni militari, cosa che potrebbe spaventare il regime islamico e costringerlo quindi a fermare i piani di arricchimento. Tuttavia ciò appare molto improbabile dal momento che la posizione del leader supremo Khamenei e le fazioni a lui vicine ne uscirebbe notevolmente indebolita. Lo scenario più probabile è che dopo un attacco il regime si muoverebbe immediatamente per rispondere con la forza.

Ad esempio, chiudere lo stretto di Hormuz semplicemente affondando una nave bloccherebbe il passaggio di circa 15 milioni di barili, o del 40% del traffico internazionale di petrolio giornaliero. Il nuovo oleodotto di Abu Dhabi che bypassa lo stretto e che diventerà operativo a dicembre, sarà capace di convogliare solo 2 milioni circa di barili al giorno, e non sarebbe quindi capace di bilanciare l’enorme impatto negativo sulla fornitura globale e sul prezzo del petrolio. Il regime iraniano potrebbe anche coinvolgere gli alleati sciiti iracheni e gli Hazara afghani nel conflitto.

L’Iran non può essere paragonato all’Iraq, all’Afghanistan o alla Libia. Il regime islamico ha capacità militari molto più ampie. È un paese molto più grande con la capacità di mobilitare una sezione della popolazione così come i suoi legami regionali. Se ricordiamo i fallimenti dell’Occidente nelle guerre relativamente più semplici in Iraq e in Afghanistan, e come queste “missioni” non possano neanche lontanamente essere considerate compiute (checché ne dicano i loro fautori), possiamo solo immaginare i risultati di una guerra molte volte più grande e complessa.

Qualsiasi conflitto armato fra questi attori di sicuro si propagherà ben oltre i confini dei principali stati belligeranti. Con i loro fragili sistemi politici e le divisioni settarie altamente sensibili, i primi ad essere risucchiati in questo vortice sarebbero il Libano e l’Iraq. Considerando i recenti attacchi settari, l’Afghanistan potrebbe essere il terzo. Nel lungo periodo, una guerra regionale avrebbe profonde conseguenze sociopolitiche ed umane, anche al di fuori della regione e specialmente in Occidente, ad esempio nella forma di immigrazione di massa, rifugiati e terrorismo.

Senza dubbio il regime islamico sarebbe alla fine sconfitto, ma il risultato finale sarebbe un Iran disintegrato e il caos in Iraq, Siria, Libano e Afghanistan. Nessuno ne beneficerebbe. La prima vittima di una guerra regionale sarebbe la “Primavera Araba”. Ma i governi occidentali non sembrano far caso a questa realtà.

* Nerina Schiavo è laureanda in Relazioni Internazionali presso l’Università La Sapienza di Roma

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L’Egitto dopo la “rivoluzione del 25 gennaio”

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Fonte: Strategic culture 

Il primo turno delle elezioni parlamentari egiziane è stato completato. Le elezioni per l’assemblea legislativa del Paese (composta da una camera bassa, o Assemblea del Popolo, e da una camera alta, o Consiglio della Shura – il Senato) si svolgono in tre turni: il primo dal 28 novembre al 5 dicembre; il secondo dal 14 dicembre al 21 dicembre; il terzo dal 3 gennaio al 10 gennaio 2012. In seguito, il 22 gennaio, avrà luogo l’elezione del Consiglio della Shura. La formazione del nuovo parlamento egiziano sarà completata nel marzo 2012.

Una settimana prima delle elezioni, molte città egiziane, tra cui il Cairo e Alessandria, hanno visto la nascita di nuove campagne di protesta che pretendevano la cessione del potere dal Consiglio Supremo delle Forze Armate (SCAF) alle istituzioni civili. Le proteste erano iniziate dopo che lo SCAF aveva pubblicato una bozza della Carta Costituzionale, sotto la quale l’esercito si sarebbe, di fatto, sottratto al controllo del parlamento e avrebbe conservato la supervisione sul potere. I gruppi che hanno preso parte a tali campagne di protesta erano principalmente gli stessi che avevano costretto il presidente Mubarak a dimettersi – in altre parole, i movimenti giovanili formati nel periodo della rivoluzione del 25 gennaio, ma anche alcuni dei partiti liberaldemocratici e di sinistra, e parte delle organizzazioni islamiste. Le forze principali del movimento islamista, e in primo luogo la “Fratellanza Musulmana”, si erano tuttavia dissociate dalle proteste e non avevano preso parte alle campagne.

Le manifestazioni che chiedevano l’immediato trasferimento del potere dall’esercito al consiglio presidenziale civile sono degenerate in forti scontri tra i dimostranti e le unità armate, durante i quali sono state uccise più di 40 persone e ne sono state ferite centinaia, compresi dei soldati. Tali scontri sono stati soprannominati dai mass media come “la seconda ondata della rivoluzione egiziana”. Nel suo discorso alla nazione il capo della leadership militare, maresciallo Tantawi, ha confermato la disponibilità dell’esercito a consegnare il potere alle istituzioni civili. Egli ha inoltre accettato le dimissioni del primo ministro Essam Sharaf e ha annunciato la nomina di Kamal Al Ganzouri (figura politica popolare tra gli egiziani durante il regime di Mubarak) come nuovo primo ministro. Ciò ha portato a una parziale normalizzazione della situazione.

I disordini non hanno impedito le elezioni parlamentari, che, come previsto, sono iniziate il 28 novembre. Un terzo delle province egiziane (9 su 27), comprese le città principali (il Cairo e Alessandria), hanno preso parte alle elezioni. L’evidente successo dei partiti che rappresentano l’Islam politico è il primo risultato delle elezioni. Il Partito della Libertà e della Giustizia (Hizb al-hurriya wa al-‘adala), che è il braccio politico dell’associazione della Fratellanza Musulmana, ha conquistato la maggioranza relativa dei seggi (il 40%), seguito dal partito Al-Nour (la Luce), che rappresenta il movimento islamista salafita. Le coalizioni di partiti liberaldemocratici e di sinistra hanno invece ricevuto un numero inferiore di seggi.

Dopo gli eventi del 25 gennaio, in Egitto si sono formati una cinquantina di partiti politici, a fronte dei 24 esistenti sotto Mubarak. Si sono formati anche molti blocchi e alleanze. Quindici movimenti politico-sociali, tra cui partiti liberali, secolari e centristi e organizzazioni pubbliche, così come il partito islamico sufita, si sono uniti nel Blocco Egiziano. Uno degli scopi del blocco, secondo le affermazioni dei suoi leader, è di impedire la vittoria della “Fratellanza Musulmana” alle elezioni parlamentari. Altri cinque partiti e movimenti socialisti hanno formato la Coalizione delle Forze Socialiste. Molti ex membri di quello che era il Partito Nazionaldemocratico al potere (sciolto nell’aprile 2011), che hanno ancora influenza nelle province, hanno anch’essi preso parte alle elezioni parlamentari come membri di altri partiti: il Partito Civile Egiziano, l’Unità, il Partito della Libertà, il Partito Nazionale Egiziano, il Partito per lo Sviluppo dell’Egitto. Anche nuove organizzazioni secolari come la “Coalizione della Gioventù della Rivoluzione”, “Tutti Noi Siamo Khaled Saeed”, il “Movimento Giovanile 25 Gennaio”, i “Socialisti Rivoluzionari” e l’“Associazione nazionale per i Cambiamenti” stanno cercando di giocare un ruolo più significativo nella vita politica del Paese.

I risultati del primo turno delle elezioni hanno rispecchiato in modo obiettivo la correlazione delle forze nel campo dell’Islam politico in Egitto. I leader di tale area politica sono l’associazione dei “Fratelli Musulmani”, la sua ala dei “Giovani Fratelli Musulmani” e il “Partito della Libertà e della Giustizia”, che essi hanno istituito e che è guidato da Muhammad Mursi. Anche il movimento salafita emerso dopo il collasso del regime di Mubarak ha dato vita a partiti politici, tra cui “Al Nour” (la Luce), guidato da Emad Abdel-Gafour, e Al-Asala (Autenticità), guidato dal generale Adel abd al-Maqsoud Afify. Quest’ultimo partito è sostenuto in particolare dal famoso predicatore salafita Mohamed Abdel Maksoud Afii e dallo sceicco Mohamed Hassan.

I “Fratelli” hanno costituito una propria coalizione elettorale, l’“Alleanza Democratica per l’Egitto”, nella quale hanno provato, in primo luogo, a unirsi con il movimento salafita e con alcuni partiti secolari. Le differenze di lungo corso con i rappresentanti salafiti, che sono musulmani più ortodossi rispetto ai Fratelli, e alcuni disaccordi sulla lista di candidati, hanno tuttavia portato al ritiro dei politici salafiti dall’alleanza e la loro partecipazione alle elezioni in maniera autonoma.

È degno di nota il fatto che la coalizione con il Partito della Libertà e della Giustizia (Fratellanza Musulmana) sia stata costruita non solo dai partiti che rappresentano l’Islam politico, ma anche da partiti come il Partito delle Riforme e della Rinascita, da alcuni partiti liberaldemocratici e di sinistra, come “Domani”, il “Partito Laburista”, il “Partito Liberale”, “Egitto Socialista Arabo” e “Dignità” (in arabo Karama). Quest’ultimo partito è diretto da Hamdeen Sabahi, un discepolo di vecchia data dell’ideologia nasseriana.

Gli scopi principali del partito Dignità sono la giustizia sociale e il ritorno dell’Egitto a un ruolo di primo piano nel mondo arabo musulmano. Hamdeen Sabahi intende candidarsi alla presidenza.

L’alleanza dell’Islam politico egiziano con forze liberaldemocratiche e di sinistra mostra una significativa evoluzione dottrinale della Fratellanza Musulmana. Almeno dal punto di vista dei programmi politici, le domande dei Fratelli sono quasi coincidenti con quelle di gran parte dei partiti democratici. I leader di nuova generazione dei Fratelli sono principalmente i rappresentanti d’intellettuali ben istruiti.

Il successo dei partiti che rappresentano l’Islam politico al primo turno delle elezioni parlamentari in Egitto merita una certa attenzione. Le nuove forze politiche, che si erano formate dopo la rivoluzione del 25 gennaio e che non sono legate al regime corrotto di Mubarak, godono della fiducia del popolo. È abbastanza probabile che esse riusciranno a trovare un linguaggio comune con gli intellettuali egiziani dotati di maggior esperienza nella politica del mondo arabo, e che riusciranno a costruire una società più equa basata sulle tradizioni della cultura islamica.

(Traduzione di Andrea Casati)

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Un libro …per le feste: “La sfida dell’India”

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Fonte: “Indika

Spetta a Francesco Brunello Zanitti aprire la rassegna di letture consigliate per le feste di Natale che Indika ha deciso di promuovere in questa fine d’anno.  Dalla saggistica, alla narrativa saranno diversi i contributi letterari presentati e proposti all’interno di “Un libro…per le feste”, veri e propri spunti di lettura che non si limitano ad un semplice consiglio, ma che si accompagnano a recensioni e approfondimenti da parte di altrettanti specialisti ed esperti di Asia e di India . Un regalo che Indika fa a tutti i suoi lettori e affezionati. Il primo libro a dare voce a questo appuntamento  è di Vincenzo Mungo, giornalista professionista, che lavora attualmente per il Giornale radio della RAI come capo-servizio della redazione esteri, oltre ad essere consigliere dell’Istituto per gli Affari Internazionali.  L’opera è edita da Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma, 2010, pp. 208, Euro 20,00.

 

Da alcuni anni la crescita economica dell’India sta attirando l’attenzione di studiosi e analisti, contemporanea al sempre più importante ruolo assunto a livello politico ed economico dalla Cina. Malgrado il paese asiatico presenti numerose contraddizioni e problematiche interne, Nuova Delhi potrebbe aumentare il proprio peso politico a livello internazionale. Alcuni analisti, osservando l’ascesa della Cina e dell’India, hanno messo in evidenza il possibile inizio dell’epoca post-atlantica o post-colombiana nella quale Nuova Delhi e Pechino potrebbero tornare ad essere centri di potere a livello mondiale, come nel XVII secolo, quando erano potenze imperiali economicamente e militarmente superiori all’Europa.
Il libro di Vincenzo Mungo “La sfida dell’India. Nascita di una superpotenza?”, considerando il ritorno del Subcontinente come area determinante per il futuro globale, pone un giusto interrogativo. Nuova Delhi potrà effettivamente diventare una superpotenza? Si tratta di una riflessione necessaria per capire, in un’epoca caratterizzata dal declino occidentale, quali sfide l’India dovrà affrontare per trasformarsi in quel centro di potere che ambisce ad essere.
Per rispondere a questa domanda il volume presenta nella prima parte alcuni aspetti storici del paese al fine di comprendere la realtà indiana contemporanea, iniziando dalla prima grande rivolta contro il colonialismo britannico, la big mutiny del 1857-58. L’India oggi è senza dubbio un paese ufficialmente indipendente dal punto di vista formale. Ma come giustamente sottolinea Mungo, è necessario comprendere se effettivamente l’India sia oggi indipendente dal punto di vista sostanziale e se lo sarà in futuro, facendo riferimento all’assalto dei poteri economici mondiali e della globalizzazione. L’indipendenza effettiva appare un requisito base affinché uno Stato possa diventare una superpotenza. L’analisi storica aiuta efficacemente a comprendere l’India contemporanea, attraverso la considerazione delle diverse forze politiche e sociali che hanno portato all’indipendenza del paese. Vengono analizzati il ruolo assunto dai primi movimenti autonomisti e dal partito del Congresso, ma anche l’azione dei movimenti nazionalisti indù, così come quelli musulmani. Unitamente all’analisi dell’importante ruolo assunto dal Mahatma Gandhi, il saggio presenta altre visioni che presero forza durante il periodo, come ad esempio quelle di uno dei più importanti esponenti del nazionalismo rivoluzionario, Balwantrao Gangadhra Tilak, oppure il pensiero politico di Chandra Bose, maggiore interprete del nazionalismo radicale. In seguito, vengono analizzate le vicende storiche dell’India indipendente: più di trent’anni contraddistinti dal dominio incontrastato da parte del Congresso, contrapposti a una seconda fase, iniziata negli anni ’90, quando il Bharatiya Janata Party conquista per la prima volta la guida del governo.
Nella seconda parte del volume è considerata la situazione socio-economica dell’India a partire dall’indipendenza del 1947 fino all’attuale fase di grande crescita. In sostanza, la difficile fase post-unitaria ha visto il governo indiano ricercare delle riforme adatte alla crescita del paese impoverito dal colonialismo, fino ad arrivare all’espansione economica degli ultimi anni, mantenendo allo stesso tempo le strutture sociali tradizionali. Le fondamenta socio-culturali dell’India sono rimaste intatte con alcune modifiche, sebbene dal punto di vista politico esista un apparato sostanzialmente liberale e democratico simile a quello occidentale che non riconosce il sistema castale.
Malgrado la comune percezione che la crescita economica di un paese comporti come conseguenza inevitabile e necessaria l’emergere di un modello sociale e culturale di tipo occidentale, il caso indiano, ben spiegato da Mungo, dimostra i limiti di questa considerazione. E’ evidente che alcuni aspetti della globalizzazione abbiano modificato considerevolmente la società indiana, se si pensa ad esempio ai centri urbani del paese. Allo stesso tempo, però, esiste una gran parte dell’India che a livello culturale e sociale non è stata toccata da questo cambiamento. Esemplificativa in tal senso è la presentazione nel saggio di Mungo dell’odierno fondamentale ruolo delle caste nella struttura sociale: corpi intermedi tra cittadini e Stato, non ufficialmente riconosciuti dalla legge, ma che hanno tuttavia una grande importanza negli equilibri sociali di un popoloso paese come l’India. Il sistema castale a livello politico ha permesso la scarsa penetrazione del pensiero marxista, poiché questo, basandosi sul concetto di lotta tra classi, non ha fatto presa su un sistema che tende a differenziare gruppi divisi tra loro per appartenenza ad un determinato insieme “familiare-professionale” gerarchicamente organizzato, piuttosto che a un universo economicamente sfruttato. Il sistema castale si è oggi trasformato in una sorta di “neocorporativismo” capace di garantire alcuni equilibri sociali, mantenendo allo stesso tempo alcuni aspetti negativi.
Il gruppo castale, fondato in un certo senso sul vincolo parentale e familiare, appare contrario all’individualismo. La casta spesso protegge il singolo dal totale isolamento, anche di tipo economico, in base a un dovere di aiuto per l’appartenenza alla medesima “famiglia”. E’ evidente che il venir meno improvviso di tale sistema con l’adozione di un modello di stampo occidentale, fondato maggiormente sui criteri del neocapitalismo, potrebbe comportare il crollo di secolari equilibri sociali con conseguenze negative. La crescita economica è forse più lenta rispetto a quella cinese, ma l’India avanza grazie a un sistema misto, nel quale assieme a politiche di liberalizzazione e a un regime democratico, permangono un forte intervento statale e il sistema sociale basato sulle caste. In questo contesto è presentata nel saggio di Mungo l’interessante tesi secondo la quale il sistema castale non comporti degli ostacoli alla crescita economica del paese, nonostante alcuni evidenti aspetti vessatori di tale organismo, la povertà di larghi strati della popolazione indiana, la perdurante crisi dell’agricoltura. Molteplici problematiche portano infatti l’India ad essere solamente il 134° paese nella graduatoria dell’Indice di sviluppo umano.
In ogni caso, un aspetto importante, ricordato nel saggio di Mungo, è il fatto che lo sviluppo economico di un paese deve necessariamente avvenire mediante la considerazione della cultura locale, senza sconvolgere in maniera affrettata sistemi sociali consolidatisi nel tempo, al fine di evitare tensioni e forme di “neocolonialismo” mediante imposizione di modelli provenienti dall’esterno. E’ ovvio che non tutti i sistemi di una determinata cultura possano essere condivisibili, come certi aspetti del sistema castale, o possano mantenersi costantemente uguali nel tempo; è altrettanto vero però che è sempre necessario considerare la cultura di un determinato luogo: le ricette globali che non tengano conto delle condizioni locali e particolari sono destinate al fallimento o al generare gravi squilibri sociali. In sostanza è questa la sfida maggiore che l’India dovrà affrontare, presentata dal libro di Vincenzo Mungo. L’interrogativo se il paese asiatico effettivamente riuscirà a diventare una superpotenza può trovare una risposta affermativa nel caso in cui l’India riuscirà a mantenersi di fatto indipendente dal processo di globalizzazione in atto, con il permanere della propria cultura specifica. A parere dell’autore, opinione condivisibile, l’India sta vincendo la sua sfida perché sta crescendo mantenendo alcune sue peculiarità. Sebbene il “paese legale” s’ispira a modelli liberal-democratici di tipo occidentale, accettando formalmente il neocapitalismo, esiste un “paese reale” dove sono vivi gli aspetti tipici della cultura indiana: permane il sistema castale, cambiato e modernizzato. La struttura familiare è diversa rispetto a quella occidentale, l’individualismo è meno marcato e il matrimonio rimane uno degli elementi base della vita di un indiano. Il ruolo della donna all’interno della famiglia è rispettato, ma è quello fondamentalmente di madre e custode della casa nell’ambito di una struttura strettamente patriarcale che prevede l’endogamia collegata al sistema castale; è necessario comunque evitare generalizzazioni poiché bisogna ricordare la presenza di altre minoranze religiose che adottano sistemi diversi, così come gli avvenuti cambiamenti degli ultimi anni, sia per i matrimoni combinati non universalmente accettati sia per il ruolo assunto dalla donna in ambito lavorativo, soprattutto nei grandi centri urbani, o nella politica (Indira Gandhi divenne primo ministro già nel 1966, a differenza di molti paesi occidentali); ma non sono certamente da dimenticare anche alcuni aspetti di violenza e oppressione verso l’universo femminile in parte della società indiana, principalmente nelle aree rurali. Malgrado l’India sia ufficialmente una repubblica laica, la religione e la spiritualità rappresentano un elemento fondamentale della quotidianità indiana, riscontrabile in gesti, azioni e pensieri collegati alla costante percezione della presenza divina in diversi ambiti (lavorativi, scolastici, ecc.) che nella nostra società occidentale non trovano spazio. Il materialismo e il consumismo potrebbero trovare considerevoli ostacoli in India, dove la spiritualità, non necessariamente solo di matrice indù, è preponderante.
Esistono però altre sfide per l’eventuale nascita della superpotenza indiana. La prima riguarda la povertà; nonostante la crescita costante del PIL, lo sviluppo tecnologico-scientifico e il valore delle università indiane riconosciuto a livello internazionale, una potenza è effettivamente tale se la sua popolazione interna riesce ad avere un minimo sostentamento materiale, prevenendo aiuti economici dall’estero. La seconda sfida riguarda le problematiche di carattere politico interno (rivolte naxalite, autonomismo del nord-est, estremismo religioso, frammentazione statale, Kashmir, ecc.), le quali vedono attualmente Nuova Delhi vincente, ma che non sono certamente da sottovalutare. La terza questione concerne l’effetiva indipendenza dell’India a livello geopolitico in una fase in cui il paese sta mantenendo una politica sostanzialmente bilanciata tra diversi poteri, al fine di diventare una potenza autonoma garante della stabilità asiatica.
La lettura dunque di “La sfida dell’India. Nascita di una superpotenza?” è fondamentale per considerare delle chiavi di lettura diverse che descrivono l’attuale crescita del paese asiatico. Vi sono diverse sfide, il futuro dell’India non è sicuramente roseo come può apparire dai soli dati economici, ma esistono tutte le potenzialità affinché le diverse prove possano essere superate; in questo modo l’India potrà effettivamente diventare una superpotenza, ma potenzialmente anche un modello alternativo al sistema globale uniformante.

(di Francesco Brunello Zanitti)

 

 

Francesco Brunello Zanitti, laureato in Storia della società e della cultura contemporanea (Università di Trieste). Ricercatore dell’IsaG (Istituto di alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie) per l’area Asia Meridionale, è autore del libro Progetti di egemonia (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2011).

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IRAN-DRONEGATE: l’acrimonia di Washington per l’abbattimento del drone da spionaggio Top Secret

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Global Research, 14 Dicembre 2011

 

Nota del redattore:
LA SAGA IRAN-DRONEGATE
Benvenuti in quello che potrebbe essere descritto come la “Saga Iran-DroneGate”, un finale di partita diplomatico diretti contro la Repubblica Islamica dell’Iran. Global Research fornirà una copertura dettagliata di questo importante argomento.
Michel Chossudovsky, 14 dicembre 2011 

L’abbattimento del drone spia è un segno che l’Iran è militarmente potente ed efficiente. Tuttavia, la missione segreta del drone, che si presume fosse la raccolta di dati segreti sui siti nucleari iraniani, consolida l’idea che Washington è più che mai intenzionata a realizzare operazioni segrete in Iran e che cova un piano malintenzionato per orchestrare un attacco contro i siti nucleari iraniani, se non un Armageddon nella regione.
In quello che sembra essere nient’altro che la sfacciata arroganza in stile USA, il presidente Barack Obama ha chiesto la restituzione del drone spia che ha violato lo spazio aereo della Repubblica islamica, ma il cui abbattimento dall’esercito iraniano, ha umiliato i funzionari degli Stati Uniti.
Il drone top-secret RQ-170 Sentinel, che è usato da Washington nelle operazioni segrete che i funzionari degli Stati Uniti hanno già promesso di condurre in Iran, è stato vittima di un agguato elettronico ed è atterrato con un minimi danni nella città di Kashmar, a circa 140 miglia nell’Iran.
Consapevolmente ciechi sulle realtà della politica abissale di Washington, i media occidentali hanno trattato l’argomento con una predilezione per il sospetto e l’incredulità, e hanno usato il termine alquanto innocuo di ‘drone da ricognizione’. Tuttavia, quando più tardi, il Pentagono ha riconosciuto la “misteriosa perdita di un drone da sorveglianza“, non avevano altra scelta che affrontare la verità.
Ciò che colpisce come bizzarramente ridicolo, è il fatto che Washington abbia chiesto la restituzione del drone che hanno confessato di aver inviato in missione segreta per la raccolta delle informazioni.
‘L’abbiamo chiesto indietro. Vedremo come gli iraniani risponderanno’, ha detto Obama.
Ciò nonostante, l’Iran dice che non ha alcuna intenzione di restituire il drone e che Washington dovrebbe risarcire Teheran per aver violato lo spazio aereo del paese.
Spazzando via la possibilità di restituire il drone, il presidente della Commissione per la sicurezza nazionale e politica estera del Majlis iraniano, Alaeddin Boroujerdi, ha detto che la Casa Bianca deve affrontare le conseguenze della violazione dello spazio aereo iraniano.
L’insistenza di Washington nel riavere il drone scaturisce dalla preoccupazione sulla natura segreta di ciò che gli iraniani avrebbero raccolto dalla tecnologia dal drone spia.
Esperti militari iraniani hanno riferito della fase finale di estrazione delle informazioni dal drone. Le informazioni estratte verranno utilizzate per citare in giudizio gli Stati Uniti, dice un funzionario iraniano.
Quando è stato chiesto, in una conferenza stampa alla Casa Bianca, se lui era preoccupato che l’Iran potesse indebolire la sicurezza nazionale degli USA ottenendo informazioni dal drone abbattuto, Obama ha detto, “non ho intenzione di commentare questioni dell’intelligence classificate“.
Senza riferirsi direttamente al drone spia, Obama in precedenza aveva ripetuto la stessa vecchia minaccia che ‘tutte le opzioni sono sul tavolo nel trattare con l’Iran‘, dicendo: “Oggi l’Iran è isolato, e il mondo è unificato dall’applicazione delle sanzioni più dure che l’Iran abbia mai sperimentato. Si può rompere questo isolamento, agendo in modo responsabile e abbandonando lo sviluppo di armi nucleari… oppure possono continuare ad operare in modo da isolarsi dal resto del mondo intero“.
Le parole minacciose di Obama contro l’Iran evidentemente odorano della letteratura del suo predecessore George W. Bush. Infatti, sta seguendo le orme di Bush e si è metaforicamente trasformato nella personalità belligerante di quest’ultimo.
È evidente che Washington ha recentemente intensificato la sua attività di spionaggio in Iran.
Il 21 maggio 2011, il Ministero dell’Intelligence iraniano aveva arrestato una rete di spionaggio composta da 30 persone che lavoravano per la CIA, e altri 42 agenti della CIA che avevano collegamenti con la rete. La rete della CIA era composta di cittadini ingannati per spiare per conto dell’agenzia, con il pretesto di rilascio dei visti, aiutandoli con la residenza permanente negli Stati Uniti e con l’offerta di lavoro e opportunità di studio nelle università statunitensi.
Secondo il Ministero dell’Intelligence iraniano, la rete dissolta è stata principalmente focalizzata sulle centrali nucleari del paese, i giacimenti e i centri gasiferi e petroliferi più sensibili, con lo scopo principale di sabotare queste aree.
Funzionari dei servizi segreti iraniani hanno appreso che gli agenti della CIA avevano raccolto informazioni provenienti da università e centri di ricerca scientifica, del settore delle industrie aerospaziale, della difesa e delle biotecnologie.
Inoltre, il 24 novembre 2011, l’Iran ha arrestato altri 12 agenti della CIA che stavano lavorando con il Mossad israeliano e miravano al programma militare e nucleare del paese. Il membro della Commissione per la sicurezza nazionale e politica estera del Majlis iraniano, Parviz Sorouri, ha detto che la CIA e gli apparati di spionaggio del Mossad, stavano facendo sforzi per danneggiare l’Iran sia all’interno che all’esterno, e che organizzavano un duro colpo con l’aiuto dei servizi segreti regionali.
Fortunatamente, con la rapida reazione del dipartimento d’intelligence iraniani, i loro tentativi si sono rivelati vani“, ha detto Sorouri. Se dice la verità, l’abbattimento del drone spia ha sicuramente inferto un colpo pesante all’apparato di intelligence della CIA e fatto svolazzare molte piume a Washington. In maniera atrocemente antagonista, l’ex vicepresidente statunitense Dick Cheney ha scatenato le sue ire sul presidente Barack Obama, dicendo che avrebbe dovuto reagire, nell’essere colti a spiare, con un attacco aperto contro l’Iran.
La risposta giusta sarebbe stata quella di farlo subito, dopo che era stato abbattuto“, ha detto Cheney. Confondendo l’Iran con l’Iraq e l’Afghanistan, ha suggerito che questo potrebbe essere fatto sia con una invasione di terra, per recuperare il drone perso, o bombardando la zona fino a quando il drone veniva distrutto.
La giusta risposta a ciò sarebbe stata andarci subito dopo che era stato abbattuto e distruggerlo. Potete farlo dal cielo. Potete farlo con un rapido attacco aereo, e in effetti rendergli impossibile trarre benefici dal drone che hanno catturato. Mi è stato detto che il presidente aveva tre opzioni sulla sua scrivania. Le ha respinte tutte. Sono tutti coinvolti nell’inviare qualcuno a cercare di recuperarlo, o se non potete farlo, ammettendo che sarebbe stata un’operazione difficile, avreste certamente potuto andarci e distruggerlo a terra con un attacco aereo. Ma lui non ha preso nessuna delle opzioni. Ha chiesto loro di restituirlo. E non hanno intenzione di farlo.”
La furia del povero Cheney è abbastanza sensibile e patetica, e la difficile situazione del presidente Obama non è difficile da immaginare.
Tuttavia, sarebbe meglio se i funzionari degli Stati Uniti confessassero il valore militare dell’Iran, invece di attribuire disperatamente la perdita del loro drone alla inettitudine del loro Presidente.
L’abbattimento del drone spia è un buon segno che l’Iran è militarmente potente ed efficiente. Tuttavia, la missione segreta del drone, che si presume fosse la raccolta di dati sui siti nucleari segreti iraniani, consolida l’idea che Washington è più che mai intenzionata a realizzare operazioni segrete in Iran e che cova un piano malintenzionato per orchestrare un attacco contro i siti nucleari iraniani, se non un Armageddon nella regione.

 Dr. Ismail Salami è uno scrittore e analista politico iraniano. Scrittore prolifico, ha scritto numerosi libri e articoli sul Medio Oriente. I suoi articoli sono stati tradotti in diverse lingue.

 [Traduzione di Alessandro Lattanzio  http://aurorasito.wordpress.com]

 

 

 

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La Siria diventa il bersaglio di un complotto imperialista, dopo la sua sospensione da parte della Lega Araba

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wsws.org, 18 novembre 2011

 Il termine di tre giorni imposto alla Siria dalla Lega Araba, per adempiere ai propri impegni è una provocazione politica. Essa contiene dei termini che il governo siriano non potrebbe accettare, che permettono ad altri regimi del Medio Oriente di portare avanti un’azione sostenuta dall’imperialismo contro Damasco.
Il piano della Lega araba vuole che la Siria ritiri i suoi carri armati dalle città tormentate dalle agitazioni, cessi gli attacchi contro i manifestanti, rilascia i prigionieri e apra il dialogo con l’opposizione. Alle condizioni attuali, ciò richiederebbe che il regime baathista del presidente Bashar al-Assad commetta un suicidio politico. Ciò vorrebbe dire accettare di abbandonare ogni azione militare, mentre gli insorti armati operano sotto la protezione di Turchia, Stati del Golfo, Libano e dietro le quinte, di Stati Uniti e Francia.
L’ultimatum ricorda l’accordo di Rambouillet nel febbraio 1999 che aveva fissato i termini alla Serbia, per giustificare la guerra – di fatto concedendo l’indipendenza al Kosovo e l’accesso gratuito e illimitato in tutto il paese alle forze della NATO. La sospensione dalla Lega Araba lascia anche alla NATO mano libera per la guerra in Libia.
L'”opposizione” a cui allude a Lega Araba è il Consiglio nazionale siriano, con sede in Turchia, ed è ora riconosciuta de facto da parte degli stati arabi. Il CNS si rifiuta di negoziare con Assad a meno che non accetti di dimettersi.
Anche se l’ultimatum è stato emesso, ci sono state segnalazioni di attacchi militari da parte dell’esercito libero siriano (ASL), basato in Turchia e in Libano, con l’uccisione di decine di soldati dell’esercito regolare e di attacchi alle installazioni chiave situate vicino alla capitale, Damasco.
Mercoledì, i membri della ASL hanno sparato coi lanciarazzi e le mitragliatrici contro una base chiave dell’intelligence dell’aeronautica, a nord di Damasco. Voci non confermate indicano che 20 membri delle forze di sicurezza sarebbero stati uccisi o feriti durante l’attacco. Lo stesso giorno, hanno annunciato la formazione di un consiglio provvisorio militare che mira a rovesciare il potere di Assad, sotto la guida del colonnello Riad al-Assad.
Un agguato tesa all’inizio di questa settimana nella provincia meridionale di Deraa da “attivisti dell’opposizione” e che dovrebbe includere i membri della ASL, ha causato la morte di 34 soldati e 12 ribelli.
Parlando su al-Jazeera, il colonnello Ammar al-Wawi, comandante di battaglione Ababeel dell’ASL, si vantava che il suo battaglione aveva effettuato attacchi in “altri settori” nel nord della Siria, comprese le città di Maaret al-Numan, Kafr Nabl, Jabal al-Zawyeh e Kfar Roumeh.
L’ASL, una organizzazione settaria esclusivamente sunnita, dice di disporre di 22 battaglioni e più di 10.000, 15.000 e persino 25.000 membri sparsi in tutto il paese. Aveva da poco annunciato la defezione del colonnello Rashid Hammoud Arafat e del colonnello Ghassan Hleihel della Guardia Repubblicana.
Le informazioni sull’adesione al CN sono ampiamente contestate. Rami Abdel Rahman, capo dell’Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo, che si trova nel Regno Unito, stima che meno di 1.000 soldati abbiano disertato dall’esercito. Ma qualunque sia il numero di persone coinvolte, è chiaro che l’ASL opera sotto il governo turco di Racep Erdogan.
L’aspetto più significativo del vertice di Rabat è che, per molti versi, la misura in cui la Lega araba, guidata dalle dispotiche monarchie degli Stati del Golfo, Arabia Saudita e Qatar, sta collaborando con la Turchia.
Scrivendo sul Telegraph, Shashank Joshi, ha osservato, “E’ sorprendente che così tanti stagnanti stati di polizia parlino contro l’uccisione di manifestanti, anche se la loro indignazione non è né sincera, né coerente. All’inizio di quest’anno, avevano sospeso la Libia premendo per una no-fly zone imposta sul suo territorio. Questo si è rivelato cruciale per le Nazioni Unite, permettendogli di dare il via libera alla guerra della NATO contro il colonnello Gheddafi e d’inviare in battaglia, fianco a fianco per la prima volta dalla prima guerra del Golfo, le forze arabe e occidentali.”
Joshi continuava, “All’inizio di quest’anno, era difficilmente concepibile che gli stati arabi avrebbe poi incoraggiare una guerra della NATO in Nord Africa, e ora la loro attenzione è volta al cuore stesso del Levante [regione del Medio Oriente che comprende la Siria].”
Aprendo la strada ad un nuovo intervento militare, l’obiettivo fondamentale degli Stati del Golfo e delle altre potenze arabe, è indebolire l’Iran, eliminando il suo alleato chiave regionale di Damasco.
Un diretto intervento militare dell’Occidente, come in Libia, almeno per il momento, è molto improbabile. Russia e Cina sono contrarie, hanno posto il veto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ad ogni azione contro Assad. Mosca e Pechino riconoscono che, come nel caso della Libia, gli Stati Uniti stanno perseguendo progetti per dominare il Medio Oriente e la sua ricchezza petrolifera, eliminando l’Iran come potenza regionale e potenziando i loro alleati – Turchia, Egitto, Israele e gli Stati del Golfo.
Il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov, ha definito la situazione in Siria: “Vediamo i reportage delle televisione dire che qualche forza nuova, il cosiddetto Esercito libero siriano, credo, stia organizzando un attacco contro un edificio governativo. Questo è qualcosa che assomiglia a una guerra civile. E’ necessario fermare le violenze di qualsiasi parte. Questo è importante perché le violenze in Siria non provengono solo da parte del governo.
In queste condizioni, un intervento della Turchia sembra sempre più possibile, con Ankara che opera come una forza ascara imperialista, supportata dagli Stati Uniti, Francia e Regno Unito. La Turchia ha già imposto sanzioni unilaterali e cancellato progetti congiunti sulle prospezione petrolifera, e ha in programma di tagliare le forniture di energia elettrica alla Siria.
Questa settimana, Erdogan ha avvertito Assad, “Quelli che sparano al loro stesso popolo passeranno alla storia come leader che si nutrono di sangue“, aggiungendo: “Nessuno si aspetta ora, che le esigenze del popolo siano soddisfatte.”
Il ministro degli esteri, Ahmet Davutoglu, che era presente a Rabat, ha detto che “non era più possibile dare fiducia al governo siriano.
La Turchia, mentre sponsorizza anche il CBS e organizza le provocazioni dell’ASL, ha ripetutamente minacciato di tentare di stabilire una “zona cuscinetto” nel nord della Siria – il che significherebbe un intervento militare diretto.
I Gruppi di opposizione già richiedono tale azione. Per Ankara, però il problema è quello di ottenere l’appoggio delle grandi potenze. Il consigliere di politica estera turca, Abdullah Gul, ha detto ai media: “La protezione dei civili è certamente molto importante. Ma ciò che conta è una risoluzione internazionale in materia. E’ escluso che procediamo da soli.”
Quanto agli Stati Uniti, cercano solo di nascondere il modo con cui collaborano con la Turchia, che ha spinto Simon Tisdall sul Guardian, a scrivere: “In questa insistenza a favore dell’atto finale con la Siria, ha il pieno entusiastico sostegno degli Stati Uniti, per cui agisce, infatti, come agente locale contraria ad attori esterni, come la Russia filo-siriana.
Ben Rhodes, vice consigliere per la sicurezza nazionale di Barack Obama, ha affermato categoricamente: “Noi accogliamo con decisione la forte posizione assunta dalla Turchia, e credo che invii il chiaro messaggio al presidente Assad, che deve dimettersi.”
Il vice portavoce del Dipartimento di Stato, Mark Toner, ha descritto come “comprensibile” l’attacco dell’ASL contro la base dei servizi di informazione, a nord di Damasco. “Non è sorprendente se assistiamo a questo tipo di violenze”, ha detto. Anche se gli Stati Uniti sono in contatto con molti esponenti dell’opposizione in Siria, Toner ha detto di “non essere a conoscenza” dei rapporti con l’ASL.
La Francia svolge un ruolo più attivo nella campagna per eliminare il regime di Assad. Il ministro degli esteri, Alain Juppé, ha iniziato i colloqui, ieri e oggi, con la Turchia. In risposta, a un argomento d’attualità in seno all’Assemblea Nazionale, ha avvertito che “il cappio si sta stringendo” attorno al regime di Assad. “Il popolo siriano vincerà la sua battaglia e la Francia continuerà a far di tutto per questo.
Tra i temi che vengono discussi, vi è l’unificazione delle disparate forze del Consiglio nazionale siriano – guidate da gruppi eterogenei di “agenti” della CIA, note come Dichiarazione di Damasco e Fratellanza Musulmana – e di forze anti-Assad finanziata da tempo da Parigi.
Le due figure autorevoli citate, danno un’idea del carattere del regime destinato a sostituire Assad: altrettanto repressivo, ma più allineato con Washington contro l’Iran.
Il personaggio più prominente è Rifaat al-Assad, zio di Assad e fratello minore dell’ex presidente Hafez al-Assad. Ha supervisionato personalmente il massacro di Hama nel febbraio 1982, un’azione brutale per sopprimere una rivolta dei Fratelli Musulmani, che avrebbe ucciso decine di migliaia di persone. Il motivo per il suo esilio era stato il risultato di un tentativo di salvare la sua propria successione, inizialmente attraverso un colpo di stato militare che coinvolse 55.000 soldati.
Al secondo posto vi è Abdul Halim Khaddam, Vice Presidente della Siria nel 1984-2005. Musulmano sunnita, è stato un fedele del padre, che è stato licenziato da Assad, tra le voci di un tentativo di impadronirsi del potere. Ha riconosciuto pubblicamente l’appoggio di Washington e dell’Unione europea nei suoi sforzi per rovesciare il regime di Assad.

[Traduzione di Alessandro Lattanzio http://aurorasito.wordpress.com]

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Colpo di Stato sotto mentite spoglie: il modello della ‘democratizzazione’ di Washington

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Fonte: www.strategic-culture.org

L’azione “globale” di protesta a favore di «elezioni giuste in Russia», organizzata dai suoi promotori per il 10 dicembre, ha cominciato a coinvolgere le capitali europee e, come ci si attende, le maggiori città statunitensi. Sto scrivendo queste righe a Boston. Posso vedere, qui, le pagine su Facebook «Per un voto corretto» piene di frasi come: «Abbiamo nessuno in Olanda? … Dovrò andarci di persona»; «Che ne dite di San Francisco? … Forte! Potete davvero far arrivare lì un centinaio di partecipanti? Benissimo!» Tutti gli interventi esprimono la stessa cosa. E queste persone, che ottengono le proprie informazioni sulla Russia da Internet, si stanno affrettando ad unirsi alla «lotta contro l’ingiustizia».L’opposizione cosmopolita ha lanciato in questi giorni un attacco specifico, nella speranza di ritornare agli anni Novanta. La famosa RTVI di Gusinsky, l’emittente televisiva russo-statunitense più potente, che sta ora diffondendo la propaganda della stazione radio LEco di Mosca e l’ideologia russofoba dell’establishment di Washington, ha già dichiarato la propria vittoria il 9 dicembre. Vladimir Kara-Murza junior, corrispondente permanente di RTVI presso il Congresso degli Stati Uniti, ha riportato per l’American Enterprise Institute (un importante centro strategico repubblicano) l’idea per la quale «sta iniziando la fine dell’era Putin». Il giornalista televisivo ha riportato, sorridendo, che «i maggiori esperti USA intravedono la fine dell’epoca di Putin». Si possono anche osservare le espressioni serie di Andrew Kuchins, Leon Aron e Anders Aslund predire in modi differenti «la fine del dittatore» e suggerire con forza l’idea di non avere più pazienza nei confronti del suo governo. Il telegiornale in prima serata ha anche presentato un grande spettacolo sui «leader da migliaia di contestatori», presentando il proprio ultimatum sotto forma di programmi. Michael Schneider, uno di questi leader e rappresentante di Solidarietà, ha reso pubblico il programma dei “dimostranti”: l’annullamento degli esiti delle elezioni del 4 dicembre, nuove elezioni in marzo, la registrazione dei partiti d’opposizione, la liberazione dei prigionieri politici, le dimissioni di Vladimir Churov – presidente del Comitato Centrale per le Elezioni – e nessun potere «al partito dei criminali e dei ladri».

L’opposizione liberale non ha alcuna possibilità di avere un ruolo significativo nella vita politica russa senza il grande sostegno finanziario di Washington. In questo modo, mostra i propri punti e le carte senza valore. L’isteria odierna riguardo alle elezioni della Duma russa rappresenta un test, oppure un modo di preparare il terreno per bandire Putin dalle elezioni presidenziali. Lo scopo è quello di destabilizzare la situazione nel paese e di rendere impossibile lo svolgimento delle elezioni.

Molti media statunitensi hanno titolato i propri editoriali con la risposta di Putin alle parole della signora Clinton, sotto una luce chiaramente negativa. L’8 dicembre Putin ha incontrato i rappresentanti del Fronte Nazionale Pan-russo. Parlando della situazione russa nel dopo-elezioni, egli ha affermato che «il processo interno è stato influenzato da ordini dati da qualcuno all’estero. Ed il Segretario di Stato americano ha già dato il segnale a chi, in Russia, doveva udirlo. Il Paese deve difendere la propria sovranità». Putin ha allora suggerito di «rendere più dura la responsabilità [penale, ndt] di coloro che eseguono gli ordini provenienti da altri stati».

Il New York Times ha recentemente pubblicato un’intervista a Gene Sharp, vecchia conoscenza e padre delle «rivoluzioni colorate», il quale ha descritto nei minimi particolari le sue tecniche di attuazione di colpi di stato nei paesi dello spazio ex-sovietico.

Una «rivoluzione colorata» rappresenta un caso a sé nella suddivisione del mondo, dove un golpe interno mascherato da movimento democratico ne costituisce la componente chiave.

Il famoso ricercatore britannico Jonathan Mowat l’ha fatta pagare, agli americani, nel suo lavoro dal titolo «Colpo di Stato sotto mentite spoglie: Il modello di “Democratizzazione” di Washington». Una provocazione, in tempi di elezioni in presenza di «osservatori internazionali» ed exit polls. Ci sono giovani arrabbiati, dotati di apparecchi di comunicazione di ultima generazione, blog e siti Internet in grado di fornire collegamenti istantanei, per precisare la modalità con cui le attività sono condotte. Lo “stormo” può essere raggruppato in ogni momento ed i media globali rendono possibile l’internazionalizzazione di qualsiasi evento, anche il più insignificante. Il modello di Washington è costituito da un attacco pianificato  e finanziato all’estero contro le istituzioni di un altro stato…

Non è semplice difendersi da questo schema – deve essere bloccato in modo duro ed intransigente!

Il canale di notizie Fox News sta spaventando le persone sulle crescenti proteste russe, mostrando loro le foto di anarchici greci armati di bombe Molotov.

La medesima distorsione dell’informazione è avvenuta in Libia. Ora sta accadendo in Siria – la Russia fa anch’essa parte del copione?

Il gergo politico contemporaneo definisce tali imitazioni «tecnologie politiche cognitive», un’«arma memetica». Vi sono molti libri dedicati allo studio di tale materia, in Occidente, con un’intera scuola di pensiero che la insegna. L’essenza del fenomeno consiste nel contagio psicologico attraverso la diffusione, in un modo particolare, di un’«informazione virale». I memi – unità di tale informazione – vengono introdotti in un determinato ambiente (in questo caso, la rete sociale) e vengono attivati secondo il principio dell’auto-induzione, installando così un preciso stato d’animo (rabbia, entusiasmo, crollo emotivo, ecc.).

La «presa cognitiva» è un argomento molto in voga negli USA. Cass Sunstein, Amministratore dell’Office of Information and Regulatory Affairs della Casa Bianca nell’amministrazione Obama, ha reputazione di convinto sostenitore del cognitivismo. Nuova terminologia – vecchie idee.

Negli Stati Uniti si stanno studiando i segmenti dell’Internet russo all’interno del contesto cognitivista, analizzando i concetti di potenziali amici e nemici. Lo stesso Cass Sunstein ha addirittura pubblicato un lavoro sulla necessità di intervenire apertamente o segretamente nei social network per raggiungere gli scopi predefiniti della «dissonanza cognitiva».

Lo studioso politico Valery Korovin ha spiegato cosa significa «dissonanza cognitiva» con un linguaggio semplice usando il Progetto Navalny come esempio. (1) Navalny presenta al suo pubblico di Internet una formula semplice – «Russia Unita è un partito di criminali e ladri» – che viene ripetuta da migliaia di utenti sui social network. Un uomo distante dalla politica incontra questa formula ovunque su Internet, sui fumetti, nelle caricature. Passo dopo passo, egli si convince che ciò sia opinione di tutti. Una persona ci si abitua, la vede come una cosa ovvia, come una percezione comune. Tale convinzione potrebbe avere delle conseguenze serie. Quando qualcuno cerca questo tipo di memi in migliaia di blog, essi diventano un fattore in grado di influenzare il potere. La pubblicazione dei risultati delle elezioni porta la popolazione ad una condizione di «dissonanza cognitiva». Tutti sono infatti convinti che «il partito di criminali e ladri» sia visto sotto questa luce da tutti, e che quindi non sia possibile che abbia ottenuto così tanti voti. Korovin afferma che è questa la dissonanza, «come gli autori dei memi la intendono; la popolazione è chiamata a scendere in strada a protestare. Dopodiché il copione è noto e funziona bene, è una questione tecnica».

E’ da notare che questa tecnica ottiene un ampio sostegno finanziario dato dall’Occidente ai memi dei difensori dei diritti umani. Valery Korovin ha ragione, quando afferma che le loro attività sono coordinate da «persone addestrate in maniera specifica». Non è un caso che essi appartengano tutti al Dipartimento di Stato, sebbene non vi sia alcun dubbio che quello è il luogo da dove proviene la maggior parte dei principali “moderatori”. I social network della Federazione Russa, così come quelli di altri paesi, vengono coinvolti da qualcuno che risiede in luoghi molto lontani e sono letteralmente comprati (ad esempio, tramite sovvenzioni).

Eccovi un esempio. Le proteste sono centrali, nel sito Internet di un movimento giovanile per i diritti umani – International Network. (2) Il denaro arriva da fondi USA ed europei. Il sito offre informazioni dettagliate sulla «geografia globale» dei memi di azioni di protesta in atto. Vi sono istruzioni su come difendersi dalla polizia – una citazione del sito web di Garry Kasparov. Ci si può perdere, nei network, ma essi vi riportano sempre ed inevitabilmente alla feccia dell’«Altra Russia» ed agli onnipresenti «memoriali» nascosti da minacciosi indizi quali «controllo strategico» oppure citando quartieri generali situati in luoghi molto distanti come Voronezh, ad esempio. Nessuna meraviglia, dunque, se il «comitato regionale» di Washington invia centinaia di migliaia di dollari proprio a Voronezh attraverso la Fondazione MacArthur. E’ in questa città che le voci sulla «falsificazione» delle elezioni hanno avuto una diffusione particolarmente ampia. Provocazioni, cospirazioni, «operazioni sotto mentite spoglie» per discreditare l’opposizione – queste sono attività di routine per i datori di lavoro statunitensi dei difensori dei diritti umani.

Il sito web di International Network afferma l’esistenza di numerose strutture create per offrire informazioni e fonti agli utenti del network. Vi è l’impressione per la quale il numero di questi membri simil-umanoidi costituiscano una legione, e che questa legione abbia una missione di incredibile importanza. Una di queste strutture a difesa dei diritti umani è il Comitato Contro la Tortura. Il suo capo è una persona molto conosciuta che ha ricevuto di recente un premio presso una delle capitali mondiali. L’argomento «Le camere di tortura russe» verrà connessa di proposito alle proteste pianificate contro la frode elettorale. Un altro membro del network è uno dei destinatari delle sovvenzioni statunitensi – il sito web Il nodo caucasico è quello ove si descrivono le cose orribili che stanno accadendo nelle “camere di tortura” russe.

La procedura per un colpo di stato coperto è stata avviata. Bisognerà trattarla con la necessaria risolutezza e durezza.

* * *

Il copione dell’”impensabile” è divenuto pratica corrente delle “riforme Occidentali” già da molto tempo. Come raccontò qualche tempo fa uno dei «sostenitori della giustizia» alla TV di Gusinsky, un’”opposizione pacifica” che non ha rotto una sola finestra verrà affiancata da un cecchino, quando i tempi saranno propizi. Il cecchino ucciderà qualcuno, meglio se un bambino o un adolescente (in questo modo la protesta seguirà lo schema) – ed una catena di eventi estremamente destabilizzanti verrà auto-indotta.

Non è possibile enumerare l’intera pletora di memi – attori non statali, esperti, entità, pubblicazioni “indipendenti”, stazioni radio, questioni religiose, campioni dei diritti umani ed innumerevoli media in un solo articolo. Ciò che unisce tutti loro, però, è l’ottenimento di un sostanzioso sostegno finanziario per minare ampiamente la sovranità della Russia.

Non è possibile scendere a compromessi con questo tipo di opposizione! Anche Gene Sharp concorda sul fatto che le cose sono andate oltre il compromesso. Qui il maestro delle «rivoluzioni colorate» trova l’espediente per preparare una sostituzione, un meme-simulacro. La regola principale dei rovesciamenti di stato è che coloro che vengono coinvolti devono essere convinti di agire di propria iniziativa. Convinzioni, ideologia e fede creano immunità verso i memi-virus. Ci sono tre volumi scritti su questo argomento. Ma non sappiamo come difendere noi stessi, permettendo una discussione circa ciò di cui non si può discutere – le cose fondamentali come la vita di un individuo e la società nel suo insieme. Dimentichiamo che i manipolatori hanno bisogno della discussione come dell’aria, per implementare i propri schemi di sostituzione…

 (Tradotto da Eleonora Fuser)

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Elezioni egiziane: primo turno elettorale

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Ad un paio di mesi dalle elezioni tunisine, le elezioni egiziane segnano un ulteriore sviluppo di quel complesso processo di evoluzione e rivoluzione socio-politica manifestatosi con la Primavera Araba. Il 28 e 29 novembre gli egiziani di nove governatorati (20 milioni su un totale di 50 milioni di aventi diritto al voto, tra cui gli abitanti de Il Cairo e di Alessandria) sono stati chiamati alle urne per le prime elezioni politiche del dopo-Mubarak. Nonostante l’invito al boicottaggio promosso da molti attivisti di Tahrir, le operazioni di voto sono state caratterizzate da un’affluenza alle urne insolitamente elevata rispetto agli standard del Paese (52% al primo turno e 39% nelle giornate dei ballottaggi). Le ultime elezioni egiziane, tenutesi nel novembre 2010, registrarono un’affluenza del 10-15% e furono caratterizzate da arresti e brogli che resero sempre più evidente la volontà oppressiva di un regime, quello di Mubarak, desideroso di mantenere le redini del potere ostacolando le forze politiche emergenti (già allora i Fratelli Musulmani, correndo come indipendenti, si aggiudicarono il numero record di 88 seggi), pur mantenendo un’opposizione di facciata (garantita da forze laiche e minoritarie, quali quella dello storico partito liberale Wafd e del partito di sinistra Tagammu).

A circa un anno dalle ultime elezioni politiche, la vittoria del Partito di Libertà e Giustizia dei Fratelli Musulmani, attestatosi come prima forza politica del Paese con oltre il 40% dei voti, caratterizza il primo turno elettorale. Al secondo posto i salafiti di Al-Nour, aggiudicatisi il 25% dei consensi, seguiti dagli esponenti liberali di Blocco Egiziano (12%) e Wafd (9%) e dall’Allenanza Rivoluzione Continua (4%), una coalizione comprendente Partiti eterogenei ed ideologicamente diversi tra loro: socialisti, liberali e islamisti (oltre ai giovani membri della Fratellanza Musulmana confluiti nell’Egyptian Current Party, la coalizione accoglie i membri di: Partito dell’Alleanza Popolare Socialista, Partito Socialista Egiziano, Partito della Libertà dell’Egitto, Partito di Sviluppo ed Uguaglianza, Coalizione della Gioventù della Rivoluzione e Partito dell’Alleanza Egiziana). Al sesto posto, il Partito islamico al-Wasat (3%).

L’islam politico

Al-Hurriya wa Al-Adalah, il Partito di Libertà e Giustizia e la Fratellanza Musulmana

Storicamente la prima emanazione politica ufficiale della Fratellanza Musulmana egiziana, nasce in seguito alle insurrezioni del 25 gennaio scorso e si rifà ai valori di uno Stato moderno e democratico, rispettoso del principio di unità nazionale e della giustizia (uguaglianza davanti alla legge, giustizia e solidarietà sociale). Seppur distinte e separate dal punto di vista organizzativo e dei finanziamenti (secondo quanto dichiarato dal portavoce Walid Shalabi), la Fratellanza Musulmana e il Partito di Libertà e Giustizia non hanno finora dato prova di comportarsi come entità separate e la Fratellanza ha sostenuto il Partito al punto tale da dare ordine ai propri membri, pena l’espulsione, di non supportare altre forze politiche nella corsa alle ultime elezioni (il Partito “Corrente Egiziana” è nato su iniziativa di alcuni giovani che hanno per questo subito l’espulsione dall’organizzazione). Pur essendo la più imponente forza e organizzazione islamista (nata in Egitto alla fine degli anni ’20, si diffuse entro gli anni ’70 in Siria, Arabia Saudita, Sudan, Giordania, Palestina, Libano, Iraq, Yemen, Kuwait e Bahrein), la Fratellanza fu per anni ufficialmente esclusa dalla vita politica del Paese. A fronte di tale esclusione, sotto il governo Mubarak l’organizzazione candidò spesso i propri membri in qualità di “indipendenti” in altre coalizioni politiche. Utilizzando questo escamotage, i membri della Fratellanza si aggiudicarono il 20% dei seggi nelle elezioni del 2005, proseguendo sulla stessa linea nel 2010. Secondo quanto emerso dalle dichiarazioni del portavoce Walid Shalabi e della Guida Suprema Mohammad Badie, negli ultimi due anni la vita dell’organizzazione sarebbe stata segnata da forti discussioni interne inerenti alla possibilità, concretizzatasi nel maggio del 2011 con la nascita del partito al-Hurriya wa al-Adalah, di creare un partito politico che fosse una diretta emanazione degli Ikhuan. Sebbene la Fratellanza non abbia inizialmente dato il proprio consenso ufficiale alla partecipazione alle manifestazioni di protesta e nonostante le dichiarazioni secondo cui in caso di crollo del regime di Mubarak la Fratellanza non avrebbe preso parte alle elezioni nazionali, le insurrezioni hanno alimentato le velleità politiche dell’organizzazione come mai prima d’ora. Attualmente la Fratellanza è la forza politica con più risorse e meglio organizzata dopo lo scioglimento, con la sentenza della Suprema Corte Amministrativa del 16 Aprile 2011, del Partito Nazional Democratico di Mubarak. Nonostante le dichiarazioni di Muhamd Morsi su al-Ahram, secondo cui Libertà e Giustizia non avrebbe gareggiato per più del 45% dei seggi, nel giugno 2011 il Partito si è unito (insieme ad altri partiti, tra cui il Wafd) all’Alleanza Democratica, presentando più di 500 candidati (concorrendo così per più del 70% dei posti in Parlamento). Più dei numerosi contrasti in seno a questa coalizione (il partito Wafd lasciò l’Alleanza dopo poco criticando, anche se in maniera non ufficiale, il ruolo egemonico del partito degli Ikhuan), molto è stato detto in merito all’alleanza (smentita dai membri di Libertà e Giustizia) tra il partito degli Ikhuan e le altre forze di matrice islamica: al-Nour, al-Asala e Blocco Islamico. A causa della mancata partecipazione ufficiale ai sit-in di protesta, alla non-adesione al boicottaggio delle elezioni (giustificata dai membri di Libertà e Giustizia nella volontà di giungere nel più breve tempo possibile alla fine del governo militare) e all’accettazione degli emendamenti alla Costituzione proposti dallo SCAF, il partito degli Ikhuan è stato duramente criticato dal popolo di piazza Tahrir. Nonostante i compromessi, che hanno indubbiamente visto al-Hurriya wa al-Adalah schierarsi in modo impopolare dalla parte di un’élite, il grande successo elettorale testimonia la notevole capacità comunicativa e di tenuta del Partito.

I salafiti di Al-Nour

Anch’esso nato in seguito alle insurrezioni del gennaio 2011, è il maggior Partito salafita (al fianco di al-Asala e al-Fadila). Creato da al-Da’wa al-Salafiyya, il più grande movimento salafita egiziano, il Partito potrebbe dovere il grande successo elettorale raggiunto in questa prima tappa elettorale proprio al legame con al-Da’wa che, pur raccogliendo adesioni in tutto il Paese, ha la propria roccaforte ad Alessandria (coinvolta in questa prima tornata e seconda città per numero di abitanti). Ufficialmente riconosciuto dopo il 3 giugno 2011, mira all’unificazione dei movimenti islamici egiziani e all’applicazione dei principi islamici a tutti gli aspetti della vita sociale e politica del Paese (Yasser Borhami ha enfatizzato il ruolo onnicomprensivo dell’Islam come “din wa dawla”-religione e Stato). Il Partito contrappone al sistema di governo parlamentare (sostenuto dalla Fratellanza) un sistema misto che, sul modello francese, combini elementi dei sistemi presidenziale e parlamentare. Dal punto di vista programmatico si distingue dalle altre forze politiche poiché, facendo leva sul senso della carità islamica, propone una redistribuzione equa dei redditi, chiedendo inoltre l’adeguamento dell’economia egiziana ai principi dell’Islam. Sebbene il Partito sia vicino alle posizioni conservatrici del wahhabismo saudita, il motto scelto per le elezioni potrebbe far riferimento ad una volontà di applicazione graduale della sharia (ipoteticamente in vista di un’evoluzione della società che non elimini le alterità, senza giungere agli estremi del secolarismo di stampo occidentale da un lato e del fondamentalismo islamico dall’altro). Nonostante gli attivisti salafiti, in seguito al ritiro delle forze armate del 28 gennaio scorso, si siano costituiti in comitati a tutela della sicurezza nazionale e abbiano dichiarato la propria contrarietà al giudizio di civili da parte di tribunali militari (arrivando a chiedere la scarcerazione dei prigionieri arrestati sulla base delle leggi di emergenza), molte critiche sono state mosse al Partito in seguito alla mancata presa di posizione contro il regime di Mubarak e alla decisione di non prendere parte alle sollevazioni di protesta del gennaio 2011. A questo proposito, controversa è la figura del co-fondatore Yasser Barhami, criticato per aver appoggiato l’alt alla protesta da parte dello SCAF e per aver esortato alla pazienza dopo l’uccisione del salafita Sayed Belal. Molto contestata anche la posizione assunta nei confronti delle donne (il cui volto è stato sostituito con delle rose nei manifesti elettorali) che, seppur candidate, si sono viste spesso relegate agli ultimi posti di liste partitiche bloccate. In seguito all’ottenimento della licenza nel giugno 2011 (ricordiamo che la legge elettorale in vigore permette solo ad un limitato numero di partiti politici di concorrere per i seggi parlamentari assegnati con il sistema proporzionale) e dopo una breve parentesi all’interno dell’Alleanza Democratica, al-Nour ha partecipato alle elezioni schierandosi tra i partiti della coalizione del Blocco Islamico (detto anche Allenaza per l’Egitto), insieme ad al-Asala ed al Partito Costruzione e Sviluppo (emanazione della Gama’a al-Islamiyya).

L’islamismo moderato di Al-Wasat

Formatosi nel 1966, ben prima delle rivolte del gennaio 2011, il Partito ha ottenuto la licenza a correre per le elezioni politiche soltanto una settimana dopo la caduta di Mubarak. Spesso descritto come l’alternativa islamico/moderata alla Fratellanza Musulmana, di cui include alcuni membri (tra cui il leader Abul Ela Madi), ha una lunga storia di opposizione al regime di Mubarak (sviluppatasi soprattutto in merito al progetto dell’ex-presidente egiziano di far transitare il proprio potere nelle mani del figlio Gamal). Gli attivisti di al-Wasat hanno preso parte alle manifestazioni di piazza Tahrir del 30 settembre chiedendo la fine del del governo militare e dello stato di emergenza (il cui termine è stato chiesto tramite la sigla di un documento apposito, stilato congiuntamente ad altre forze politiche), elezioni presidenziali entro aprile 2012 e la formazione di un’assemblea costituente equilibrata. Dal punto di vista economico, il Partito ha chiesto lo stanziamento di sussidi sui servizi pubblici e l’approvazione di programmi di sviluppo, in vista di un’economia che, pur basata sul libero mercato, conceda allo Stato un margine di intervento volto a garantire equità sociale. Promuovendo un’immagine di Islam compatibile con la democrazia, il Partito si è opposto alle discriminazioni religiose (nel 2000 Madi ha fondato l’Associazione egiziana per il Dialogo e la Cultura, un’organizzazione no-profit volta a favorire il dialogo tra cristiani e musulmani). Come al-Nour, al-Wasat contende i voti degli islamisti egiziani al Partito di Libertà e Giustizia, con il quale ha inizialmente condiviso la partecipazione all’interno dell’Alleanza Democratica (per poi ritirarsi, probabilmente a causa di contrasti dovuti alla posizione egemonica degli Ikhuan). Col tempo il Partito ha instaurato buone relazioni con le forze non islamiche, tanto che i membri di al-Wasat hanno avuto un ruolo centrale nella formazione del Kefaya Movement (nato nel 2004 per chiedere le dimissioni di Mubarak), contribuendo attivamente anche alle attività dell’Associazione Nazionale per il Cambiamento e la Riforma (creata nel 2010 per chiedere riforme democratiche e elezioni presidenziali libere e corrette). Nonostante quest’attitudine alla collaborazione, negli ultimi mesi la vita del Partito sarebbe stata segnata da screzi con le forze liberali, sviluppatisi in merito al disccordo di al-Wasat circa gli emendamenti proposti dallo SCAF e approvati dal 77% degli egiziani il 19 marzo 2011.

Le forze liberali

Al-Katat al-Masriy, il Blocco Egiziano

Coalizione composta dal Partito degli Egiziani Liberi (50% dei membri della coalizione), dal Partito Socialdemocratico (40% dei membri) e dallo storico Partito di sinistra al-Tagammu (10% dei membri). Sebbene inizialmente l’Alleanza contasse oltre 21 Partiti (tra cui il Partito della Libertà, l’Alleanza Social-Popolare, il Partito Socialista egiziano, il Fronte Democratico, il Partito dei Sufi di Tahrir), la partecipazione al Blocco è diminuita in seguito a conflitti interni inerenti il numero di candidati per ciascun Partito e alle accuse, mosse al Blocco, riguardanti la partecipazione di ex-membri del Partito Nazional Democratico. Quest’ultima motivazione ha spinto alcuni ad accusare il Blocco di mancata trasparenza nel processo di selezione dei propri candidati. I detrattori della coalizione evidenziano inoltre l’accostamento di Partiti dalle agende economiche diverse e contraddittorie (tra questi i socialisti di al-Tagammu ed i capitalisti del Partito della Libertà), riunite al solo scopo di sviluppare un polo in grado di controbilanciare il potere degli islamisti della Fratellanza Musulmana (posizione smentita dal leader Muhammad Abul-Ghar, il quale ha insistito sottolineando l’apertura agli islamisti che avessero condiviso le linee programmatiche della coalizione). Dal punto di vista programmatico, il Blocco Egiziano si propone la creazione di uno Stato civile e democratico, la promozione della prosperità sociale attraverso un’economia liberale e l’incremento della giustizia sociale.

I liberali di al-Wafd

Dismesso sotto il regime di Nasser, lo storico partito liberale egiziano rinasce nel 1978 con il nome di Nuovo Wafd (oggi semplicemente al-Wafd). Pur avendo esteso la propria rete di elettori e finanziamenti e la propria sfera di influenza mediatica (il Partito possiede un giornale e un sito internet ed il suo leader, al Badawi, è proprietario di al-Hayat, una delle cinque televisioni di punta egiziane) al-Wafd ha mantenuto sostanzialmente inalterati i propri principi cardini (democrazia, libertà di espressione, indipendenza della magistratura), chiedendo inoltre l’ampliamento dei poteri del Capo dello Stato, maggior giustizia sociale, l’instaurazione di un’economia di mercato liberale e favorevole agli investimenti stranieri e la divisione tra religione e Stato (secondo il motto “la religione è per Dio, lo Stato per tutti”). Pur avendo boicottato le proteste di settembre in piazza Tahrir e nonostante l’opposizione di al-Badawi al monitoraggio internazionale delle elezioni (secondo il leader di al-Wafd, una forma di interferenza straniera nella politica interna del Paese), il Partito chiede un arretramento nelle prerogative concesse all’esercito (come il giudizio di civili da parte di tribunali militari). Nonostante il suo peso politico, negli ultimi anni il Partito è stato spesso criticato a causa dell’accondiscendenza mostrata nei confronti del PND di Mubarak (essendo tutt’ora accusato di aver “riciclato” candidati nazional-democratici). Le già tormentate (ad eccezione di alcuni episodi di alleanza in chiave anti-PND) relazioni con la Fratellanza Musulmana sono migliorate dopo il 2010 e l’elezione del leader al-Badawi. Nelle recenti competizioni elettorali, il Wafd ha inizialmente accettato di correre insieme ai Partiti dell’Alleanza Democratica, uscendo poi dalla coalizione in seguito a disaccordi con il Partito di Libertà e Giustizia (pur continuando a condividere il Codice d’Onore dell’Alleanza).

Conclusioni e linee d’ombra

Una lettura attenta dei risultati di questa prima tornata elettorale suggerisce alcune considerazioni. La prima riguarda il risultato ottenuto dai Partiti islamisti (i quali hanno raggiunto complessivamente un sostegno di oltre il 60%). E’ innanzitutto utile contestualizzare la vittoria dei movimenti islamisti all’interno di un percorso caratterizzato dalla svolta partecipazionista dell’Islam politico moderato e segnato dalla vittoria del movimento islamista palestinese di Hamas alle consultazioni del 2006. L’intento partecipazionista dimostrato da Hamas è stato riproposto, sebbene in tempi più lenti, dai Fratelli Musulmani egiziani del Partito di Libertà e Giustizia. Il filo rosso che lega gli islamisti egiziani al popolo palestinese è stato messo in luce dallo stesso Abu Marzuq (numero due di Hamas) il quale ha espresso la sicurezza che “il Popolo egiziano continuerà a stare accanto al Popolo palestinese”. Dal punto di vista programmatico, i Partiti islamisti egiziani hanno dimostrato attaccamento alla causa palestinese, dichiarandosi talvolta disponibili ad una “revisione” del trattato di Camp David tra Egitto e Israele. A questo riguardo, la presa di posizione di alcuni membri del Partito di Libertà e Giustizia (che annovera tra i suoi Al-Beltagi, finito nelle carceri israeliane dopo aver partecipato alla missione della Flottilla per Gaza) è stata più netta rispetto a quella dei membri di al-Nour che, nel complesso del proprio programma elettorale, si sono dimostrati meno attenti alle relazioni internazionali tra Egitto e Paesi vicini, non entrando in merito alla questione del trattato o dei diritti dei palestinesi. La posizione di al-Nour potrebbe essere condizionata dal proprio legame con il wahhabismo e quindi con l’Arabia Saudita. Il Partito salafita è già stato accusato di ricevere finanziamenti dalla monarchia saudita, dal Qatar e addirittura dagli Stati Uniti. Queste voci, se confermate, definirebbero l’immagine di un Partito che, lungi dal conformarsi alle prospettive allarmiste sviluppate da molti media internazionali, si allineerebbe alle politiche della monarchia saudita (storica alleata statunitense) determinando la creazione, in Egitto, di un avamposto utile a favorire le strategie statunitensi (e quindi occidentali) in Medio Oriente. D’altra parte, il leader di un partito storicamente liberale come quello del Wafd, al-Badawi, ha criticato il trattato israelo-egiziano, criticando inoltre l’ingerenza statunitense nella politica interna del Paese. Le posizioni relative alle relazioni estere potrebbero quindi non riproporre la dinamica, spesso data per scontata, che vedrebbe i partiti liberali muoversi in maniera più favorevole agli interessi occidentali in Nord-Africa e Medio Oriente.
Questa questione introduce un’altra considerazione, relativa alla percezione, spesso reiterata dai mass-media occidentali, di un dualismo islamisti/liberali come unica relazione determinante la situazione politica egiziana. Come alcuni analisti hanno sottolineato, una lettura attenta dovrebbe andare oltre al percepito dualismo tra forze laiche e religiose, considerando invece l’opposizione tra un’oligarchia desiderosa di conservare il regime precedente alle rivoluzioni ed un Popolo sovrano, deciso a trasformare il regime, un’opposizione tra potere militare e politica delle masse. In quest’ottica risultano fondamentali i legami e le alleanze, precedentemente evidenziati, tra Partiti politici, piazza ed élite militare. In questo senso, il fatto che le consultazioni elettorali abbiano, fino a questo punto, evidenziato la forza di partiti islamisti come il Partito di al-Nour (cresciuto all’ombra di Mubarak, che ha utilizzato il movimento nel tentativo di erodere i consensi attribuiti alla Fratellanza Musulmana) e il Partito di Libertà e Giustizia (accusato dalla piazza di essere sceso a compromessi con il Consiglio Militare) ha portato molti a parlare di “sconfitta” per i manifestanti di Tahrir. Sebbene sia innegabile che l’ombra dello SCAF si allunghi ancora sul processo iniziato con i moti di gennaio, uno sguardo più ampio alla situazione socio-politica egiziana suggerisce che la rivoluzione dei giovani delle classi subalterne egiziane (marginalizzati nel processo di transizione) non è sopita. Chiunque salirà al potere sarà ora destinato a fare i conti con dei giovani che non smetteranno di reclamare il proprio diritto ad un avvenire dignitoso, costringendo le classi dirigenti ad una seria rielaborazione del rapporto tra potere e cittadini comuni.

Nijmi Edres è dottoranda presso l’Università di Roma “La Sapienza”.

 

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La collera di Brzezinski

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Bloc notes, 15 dicembre 2011

 

Zbigniew Brzezinski, ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter, ancora attivo nel valutare lo stato del sistema e la politica estera degli Stati Uniti, era presente a una tavola rotonda tenutasi nel corso di una serata omaggio a Brent Scowcroft de The Atlantic Council. Nel testo sull’evento che l’istituzione ha messo in linea il 14 Dicembre 2011, vi è questo passaggio che riguarda gli interventi di Brzezinski:
Brzezinski è stato il più schietto, dichiarando “Abbiamo questa strana situazione in cui il partito al potere è alquanto congelato di fronte a questa complessità, e il partito fuori dal potere è pazzo furioso.” C’è molto da biasimare in giro, ha dichiarato l’ex alto consigliere di Jimmy Carter. “Il pubblico americano è abissalmente ignorante riguardo il mondo” e “Noi non abbiamo dei mass media che forniscano un grado significativo di informazioni relative al mondo“.
Principalmente, però, ha incolpato i nostri leader politici, osservando che George HW Bush è stato l’ultimo presidente a capire veramente come condurre il mondo, accusando tutti i presidenti successivi – tra cui quelli del suo stesso partito, Bill Clinton e Barack Obama – si sono “chiusi in sé” e mancano di una grande strategia. Inoltre, il clima politico e la necessità di assecondare un elettorato semplicista porta alla “demagogia”, che a sua volta “mette in pericolo un processo decisionale intelligente“.
I verbali di questi interventi americanisti, vanno nella stessa direzione, mettendo in evidenza la critica metodica alla politica statunitense di Brzezinski, così come la situazione politica interna del paese, la condizione generale di tutto ciò, una sconcertante paralisi, o addirittura un’ossessione per la sicurezza caratterizzata da cecità, inefficienza, automatismi grotteschi che vi prevalgono. Così Brzezinski indica questo aneddoto dimostrando, dopo tutto, che non manca di umorismo:
Anche le guardie di sicurezza dell’edificio hanno ricevuto da Brzezinski una lavata di capo trattamento. Beffandosi di come gli edifici governativi di Washington siano più difficili da accedere che a punti di riferimento importanti come il Kennedy Center, Brzezinski ha detto che era stufo di tirare fuori la sua carta d’identificazione, per farla controllare da gaurdie giurate, negli uffici del centro. Non si può andare in un qualsiasi edificio sulla K street senza essere fermato da qualcuno che pretende di essere una guardia di sicurezza”, ha detto. “Mi sono così stancato e irritato di tutto questo”, ha aggiunto. “A volte firmo, quando mi chiedono il mio nome, letteralmente, firmo ‘Osama bin Laden.’ Non sono mai stato fermato.”
Questo estratto proviene da un testo di US News & World Report del 14 dicembre, 2011. Questo stesso testo sottolinea i vari aspetti sopra evocati, su questa critica che trascende i partiti, poiché fustiga tutti i presidenti dopo George HW Bush, che aveva lasciato la Casa Bianca nel gennaio del 1993, tra cui, quindi, due presidenti del partito di Brzezinski (democratico).
Il sito iraniano PressTV.com si è occupato della questione aggredendola su un aspetto completamente ignorato dai testi sopra citati, ma che è stato ripreso altrove (dalla AFP, citata dal sito iraniano). Naturalmente, si tratta dell’Iran o della politica iraniana degli Stati Uniti. Brzezinski mostra la stessa severità che ha sollevato in precedenza, circa la situazione interna negli USA. (Il testo di PressTV.com, 14 Dicembre 2011 – http://www.presstv.com/detail/215613.html.)
Pensiamo che eviteremo la guerra spostandoci verso la costrizione“, avrebbe detto secondo l’AFP, presso il pensatoio del Consiglio Atlantico di Washington, il Martedì sera. “Ma più puntate sulla costrizione, più la scelta diventa la guerra, se non funziona. Ciò restringe le nostre scelte in maniera molto drammatica“, ha notato l’ex consulente del presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter.
Brzezinski si è detto preoccupato per un’escalation nella “retorica”, mentre l’approccio degli Stati Uniti al programma nucleare iraniano appare unicamente rivolto a costringere Teheran a soddisfare le richieste internazionali, lasciando a Washington poca flessibilità. “Molte piccole decisioni possono esere prese, mentre nel frattempo si restringe la libertà di scelta nel futuro”, ha detto.
È indiscutibile che Zbigniew Brzezinski sia un servitore informato, esperto ed intelligente del sistema. Le sue parola sono quindi più interessanti. Le differenze di trattamento del suo discorso, che compaiono tra il testo puramente americanista e il resto, compresi tra gli iraniani, mostrano preoccupazioni diverse; pertanto, queste preoccupazioni diverse si riferiscono alla stessa situazione, che è quella del sistema dell’americanismo.
E’ vero che la situazione del potere americanista è nella condizione descritta da Brzezinski, e probabilmente questa debolezza è fatale: impotente, paralizzata, è persa nelle faziosità interne e nelle straordinarie esacerbazioni psicologiche. Il termine di coazione che Brzezinski impiega per caratterizzare la politica iraniana degli Stati Uniti, vale anche per la situazione della leadership politica di Washington, e in realtà anche per una patologia della psicologia. (Il comportamento compulsivo è caratterizzato in questo senso, effettivamente come una patologia, come dice ad esempio Wikipedia: “Il disturbo ossessivo-compulsivo (abbreviato OCD ) è un disturbo d’ansia caratterizzato dalla comparsa di pensieri intrusivi ricorrenti, relativi o meno a una fobia. …“, ecc) Quindi ce n’è per tutti, e l’una cosa o l’altra, delle loro caratterizzazioni comuni: il sistema dell’americanismo, come il sistema stesso, è malato, si tratti dei giochi politici a Washington o della politica iraniana, e la malattia ha a che fare con le dinamiche dell’auto-distruzione del sistema.
Brzezinski, grande stratega dalle ambizioni egemoniche globali dell’americanismo, ci permette di avere una buona percezione del declino, del crollo del sistema. Parla di un tempo in cui il sistema (il sistema dell’americanismo) ancora funzionava in modo efficace e brillante. Le ambizioni del sistema, la sua crudeltà, le sue pretese universali e il suo disprezzo per la sovranità degli altri erano grandi allora come lo sono oggi, ma li ha affermato con abilità e intelligenza, con misura tattica quando necessaria, accompagnati da una retorica rassicurante, senza l’ebbrezza e la cecità, senza quella patologia psicologica che le caratterizzano oggi. Brzezinski non ha rimpianti, né rigetta nulla delle azioni del sistema dell’americanismo, e deplora e respinge furiosamente la malattia che ha infettato la psicologica del sistema, e il comportamento “compulsivo“, irregolare, inconsistente, paralizzato e impotente che ne deriva. La salute mentale di Brzezinski non è diminuita, quella del sistema sì; Brzezinski parla della dinamica da superpotenza del sistema quando trionfava, e che aveva saputo mantenere la sua applicazione operativa; ha espresso tutta la sua furia sulla dinamica dell’autodistruzione che ha preso piede nel sistema. Ne siamo così perfettamente consapevoli – o meglio, diciamo che ha confermato la nostra convinzione.

[Traduzione di Alessandro Lattanzio http://aurorasito.wordpress.com]

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Russia e India: aspettando futuri cambiamenti positivi

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Fonte: “Strategic Culture Foundation”, 15.12.11

 

Il 15 Dicembre il Primo Ministro dell’India, il Dott. Manmohan Singh, ha iniziato una visita ufficiale in Russia.

Come previsto, la natura del business verrà enfatizzata: i leader dei due paesi stanno per firmare alcuni contratti a lungo termine. Le questioni sulle quali si farà particolare attenzione saranno l’ulteriore estensione della cooperazione nel campo dell’energia nucleare (la sicurezza energetica è in testa nella lista delle priorità strategiche dei nostri partner indiani), la pianificazione di un concetto a lungo termine di cooperazione tecnico-militare (un argomento di particolare importanza sullo sfondo delle presenti difficoltà che attraggono un’ampia attenzione dell’opinione pubblica), ed infine, il ritorno ad una cooperazione in politica estera di lunga durata e di larga scala.

Dal momento che la logica suggerisce un costante avanzamento lungo la tabella di marcia dello sviluppo dei rapporti economici, è possibile l’incremento del commercio bilaterale fino a 20 miliardi di dollari per il 2015-2016. Questo non è il momento adatto per confrontare la scala dei nostri rapporti economici, dati come la borsa merci, i servizi, la competenza e la tecnologia, con l’India e nemmeno con la Cina. Come non è il momento di addossare le responsabilità dei risvolti tortuosi ed intricati “dell’era di El’cin” riguardo le relazioni tra Russia ed India (che ci hanno recato considerevoli danni in India e in tutto l’Oriente).

Per quanto riguarda le questioni separate, ovvero quelle nelle quali si sta lavorando su significativi progetti bilaterali, ci imbattiamo costantemente in problemi di natura comune, come il concetto (strategia) a lungo termine delle relazioni tra Russia e India che non è ancora stato elaborato. Questo tipo di concetto, com’è noto, esisteva all’epoca dell’Unione Sovietica. Parlando dell’implementazione del concetto comune di strategia sovietico-indiano, era possibile per i rappresentanti dei partiti precisare quali erano i loro ruoli e le loro missioni. La cosa di cui la cooperazione russo-indiana necessita di più al momento è l’introduzione di elementi di pianificazione in questo processo complesso, multi-sfaccettato e a “diverse fasi”, minimizzando gli impulsi di spontaneità che influenzano i legami bilaterali.

Mentre sviluppa i rapporti economici con l’India, la parte russa dovrebbe tenere a mente il fatto che l’intero mondo civilizzato utilizza gli strumenti della pianificazione in forma strategica e indicativa. Concretamente questo significa che lo stato russo (ossia le sue istituzioni corrispondenti e le agenzie) seleziona, da avanzati punti di vista delle forze produttive mondiali, alcuni tra i progetti e le tecnologie più promettenti, riservando sostegno prioritario al modo in cui le innovazioni verrebbero incentivate.

Uno dei progetti sopraccitati è la produzione di caccia di quinta generazione. L’idea dietro questo progetto è quella di rimettere immediatamente un certo numero di gruppi di produzione nazionale “al passo” con il livello mondiale di Scienza e Tecnologia, livello che è molto importante venga raggiunto dall’intera economia nazionale.

I rapporti economici esterni sono un potente stimolatore che facilitano i cambiamenti interni sulla via della modernizzazione economica della Russia. Nell’incoraggiare la cooperazione con l’India, come con la Cina, il Brasile, l’Indonesia, l’Iran e altri nuovi paesi influenti, la Russia può dare un forte impulso al suo stesso progresso. Persino questo è sufficiente a far capire che la visita del Primo Ministro indiano a Mosca è un evento di straordinaria importanza.

Il punto di forza delle nostre relazioni con l’India era inizialmente basato sull’unità organica tra economia e politica. È un peccato che recentemente abbiamo visto emergere problemi politici, che la parte russa diplomaticamente chiama imprecisioni. Penso che tutto ciò cominciò 10-12 anni fa.

Al tempo della prima visita di V. Putin in India all’inizio di ottobre 2000, ho avuto la possibilità di partecipare ad una conferenza accademica internazionale dedicata alla regione asiatica e a quella pacifica. La conferenza si svolse a Delhi sotto l’auspicio di un influente Consiglio Indiano di Ricerca nelle Scienze Sociali. Fu difficile ignorare l’attiva partecipazione di coloro che rappresentavano la comunità indiana negli Stati Uniti, i quali asserivano che l’America era il maggiore alleato strategico dell’India. A quei tempi pensavo che questo tipo di mossa “non-accademica” fosse uno sforzo risoluto da parte di alcuni appartenenti all’elite indiana per determinare le nuove linee guida della politica estera della “democrazia più grande del mondo”. Probabilmente, come studioso dell’India con qualche esperienza nel campo, sono alquanto incline ad essere sospettoso. Adesso, invece, ho una crescente e solida convinzione che sia in atto una deviazione “dal corso politico di Nehru”. E se ci vediamo ancora come amici, è chiaro che i problemi di ‘natura delicata’ dovrebbero essere discussi in modo franco.

Davvero, non stiamo assistendo ad un graduale rifiuto dell’idea del mondo multi-polare? Non è che l’establishment della politica estera indiana (o la sua fazione più influente) utilizza i vigorosi progressi economici della Cina come giustificazione ideologica del suo allontanamento da orientamenti indipendenti nello spazio mondiale? Questa non è una domanda inutile. Ecco perché.

L’India è sempre stata irremovibile nella sua determinazione a rafforzare la sicurezza nella regione che gli americani chiamano la “Grande Asia Centrale”. Questo spazio geo-politico comprende: l’Asia Centrale, l’Asia meridionale, l’Afganistan e l’Iran. Fino a poco tempo fa Delhi è stata una forte sostenitrice dell’idea che i paesi della regione erano i responsabili nel trovare soluzioni ai complessi problemi regionali.

Inoltre, l’approccio ha concluso il climax logico in relazione allo stabilizzarsi della situazione in Afganistan al tempo in cui Pechino continuava a basarsi sull’autorità del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. A me sembra che, al giorno d’oggi, l’approccio indiano sta attraversando una metamorfosi difficile da spiegare: la diplomazia indiana ha sostenuto in qualche modo l’idea americana della “nuova via della seta” nel recente forum ad Istanbul (2 novembre 2011). L’essenza celata dietro a questa idea è la salvaguardia “dell’equilibrio” delle forze esterne nella “Grande Asia Centrale”. Naturalmente sorge una domanda: contro chi le così dette forze esterne nella regione creeranno un equilibrio (Cina, Russia) e, considerando le evidenti attività geo-politiche, quale ruolo strategico giocherà l’India?

Procedendo con il discorso, è importante sottolineare che stanno aumentando le agenzie di media asiatici (e molto spesso anche quelle mondiali) che raccontano sovente ai lettori del “riarmo’” su larga scala e dei programmi di modernizzazione delle forze armate in India. Non ci sono dubbi riguardo l’idea di questa modernizzazione, specialmente se si considerano le recenti azioni intraprese dall’Occidente nel Medio Oriente arabo che compromettono l’equilibrio dell’esistente sistema delle relazioni internazionali ed incoraggiano la corsa agli armamenti. La diversificazione delle risorse per ricavare materiali ed armamenti di difesa può essere giustificata. Ma esiste un altro punto di vista.

In primo luogo, il ravvivarsi del concetto “dell’alleanza delle quattro democrazie” (Stati Uniti, Giappone, Australia ed India) attraverso un “dialogo strategico” tra Stati Uniti, Giappone ed India nella fase iniziale, comincia ad essere considerato come una faccenda che sta seriamente preoccupando la Cina, la quale non può definire questa alleanza in altro modo se non la “NATO orientale”.

Alcuni cinesi studiosi di politica hanno già consigliato il loro governo di “rispondere” a questa alleanza attraverso l’intensificazione degli sforzi di politica estera, incoraggiando anche i rapporti economici esterni con l’Asia meridionale, una regione sensibile per l’India.

In secondo luogo, certe tendenze tra alcuni rappresentanti dell’establishment della politica estera indiana riportano alla mente un imperativo politico una volta definito dal Primo Ministro Manmohan Singh: nei prossimi dieci anni il tasso di crescita dell’economia del paese non dovrebbe essere inferiore al 9%. (Lasciatemi aggiungere che prendendo in considerazione la complessità della situazione interna, che comprende anche l’aumento della generazione dei giovani – cioè il numero di giovani sotto i 35 anni ovvero il 70% dell’intera popolazione, la crescita economica del paese non dovrebbe essere inferiore ad almeno il 7%). Come si possono associare l’assenza di alternative alla forte crescita economica e l’intensivo riarmo nelle attuali condizioni dell’India? Questa è la domanda che non ha ancora una risposta convincente.

Terzo, le nuove tendenze di pensiero della politica estera da parte di alcuni che fanno parte dell’elite indiana, evocano giustificata perplessità tra quelli dei circoli russi di alto livello, che vedono il posto della Russia nel mondo basato su di in un concetto di diplomazia multivettoriale. Mettendolo in parole semplici, questa traiettoria di pensiero può essere definita come: “L’amore non può essere forzato”. Se gli Stati Uniti sono il miglior amico, partner e alleato per l’India, allora intensificheremo la nostra relazione con la Cina.

A maggior ragione, come credono i sostenitori di questa corrente di pensiero, il Celeste Impero non ha meno problemi della Russia, e gli sforzi comuni delle due immense entità potrebbero innescare un “effetto moltiplicatore” per lo sviluppo della Russia.

Qualcuno che conosco del Ministero degli Affari Esteri ha provato a farsi un’idea della logica che i partner indiani utilizzano riguardo alle politiche verso l’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione. Costui, in modo confidenziale, mi ha detto: «Non riesco a capire i nostri colleghi indiani. Facciamo di tutto per incontrarli a metà via, ma sembra che in qualche modo ci spingano leggermente da parte. Hanno forse già fatto la loro scelta strategica in favore degli Stati Uniti?». Per la verità, non potevo replicare al diplomatico diversamente. Forse, in virtù del fatto che non tutte le nostre iniziative relative alla direzione della politica estera indiana sono capite, la Russia dovrebbe dare una pausa ai colleghi di Delhi e allo stesso tempo continuare nello sviluppo delle relazioni con la Cina e l’Asia meridionale per soddisfare i nostri interessi strategici.

Penso che la vitalità del “nehruismo” sia spiegabile con il fatto che il primo capo del governo indiano l’ha sempre spuntata difendendo gli interessi nazionali. Come dimostra il tempo, solo questo tipo di “gioco” può farti vincere. Forse questa riflessione era impercettibilmente presente nel testo dei recenti auguri di compleanno del Presidente russo a Sonia Gandhi, leader del Congresso Nazionale Indiano.

Ma il “nehruismo” non è solo un successo in politica estera. Come ha notato uno degli eminenti economisti mondiali contemporanei, l’indiano Sukhamoy Chakravarty, “il nehruismo” è una strategia a lungo termine di progresso sociale ed economico. I suoi principi fondamentali permettono la costante perfezione degli strumenti per influenzare la società rendendola maggiormente attenta verso la modernizzazione. Aggiungerei che la constante aspirazione per la trasformazione della società, complessa ed in grande misura polarizzata, ha reso leader mondiale la scuola economica indiana. Guardando in modo critico all’esperienza raccolta dai nostri colleghi indiani, questa potrebbe diventare un’importante componente della nostra relazione.

(Traduzione di Serena Bonato)

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Тиберио Грациани в Форуме Инновации Италия –Россия

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14 декабря 2011
Тиберио Грациани – президент Института Высшей Школы Геополитики и Прикладных Наук (IsAG) – принял участие в Форуме InnovazioniItaliaRussia.

Форум, организованный Центром российских исследований римского университета Ла Сапиенца при содействии Фонда Русский мир и EURISPES был проведен 12-13 декабря в зале Академического сената во Дворце ректората римского университета Ла Сапиенца, находящемся на площади Альдо Моро 5.

Президент Грациани выступил в последнем тематическом круглом столе во вторник 13 декабря в зале Академического сената с 18.30 до 19.30 по теме «Италия и Россия в новом геополитическом порядке». При председательстве профессора Антонио Фолко Бьяджини в дискуссии участвовали Татьяна Мозель (проректор московской Академии дипломатов), Антон Ильин (представитель Русского мира в Европе), Алексей Турбин (PJSC «Омега», Транснефть) и Габриеле Наталиция (Ла Сапиенца).

Ниже приводится текст выступления президентаТиберио Грациани.

Для Италии Россия является партнером первостепенного значения по двум пунктам: энергетическому и дипломатическому. Для краткости опускаем здесь менее крупные, но не менее важные для двухсторонних отношений секторы, такие как коммерция, туризм, культурный обмен и т.д.

 

С точки зрения энергетики связь очевидна: с одной стороны есть большая страна производитель, с другой стороны – территориально гораздо меньшая, но экономически сильная, являющаяся потребителем. Россия владеет одним из наиболее крупных запасов нефти, являясь среди первых производителей и одним из первых мировых экспортеров этого товара. Италия же – среди пятнадцати самых крупных потребителей и седьмая крупнейшая страна-импортер в мире. Что же касается природного газа, то Россия владеет одной четвертой его установленных мировых запасов, соперничая с США за пальму первенства в его производстве и в то же время возглавляя список его экспортеров. Италия – четвертый импортер газа в мире, уступающий лишь США, Японии и Германии.

Это известные статистические данные, к которым можно добавить и другие. Россия владеет 15% мировых запасов угля и является его третьим по величине экспортером. В Европе только Германия и Великобритания импортируют большее количество угля по сравнению с Италией. Россия является также четвертым производителем электричества из возобновляемых источников, и лишь США во всем мире приобретают его больше нас. И все это несмотря на то, что у Италии потребление электричества на человека довольно низкое: мы на уровне Ливии, за сороковым местом в мировой классификации.

Фактически Италия отстоит от России на пару тысяч километров и усердиями последних поколений это пространство на сегодняшний день пронизано нефте- и газопроводами. Около 30% природного газа потребляемого в Италии поступает из России: имеется в виду из 35% импортируемого газа в целом.

Некоторые недавние факты говорят об увеличении зависимость итальянской экономики от энергетического снабжения поступающего из России. Имеются в виду:

  • отказ от ядерной энергии: в результате эмоциональной волны, вызванной аварией на Фукушиме итальянцы во второй раз проголосовали против производства в Италии атомной энергии;
  • трудности в развитии возобновляемых источников: для развития новейших технологий нужна не только изобретательность, но и денежные средства. Наша экономическая система базирующаяся на НМТ имеет много достоинств, но и много слабых сторон: малый и средний бизнес обладают меньшими возможностями инвестирования в исследования и инновации по сравнению с большими корпорациями. Бремя исследований следовательно лежит на государстве, которое однако не не имеет возможности осуществлять большие инвестиции в этих областях;
  • ливийский конфликт: другой наш крупнейший поставщик энергии находится в драмматической ситуации и глубокой нестабильности. В зависимости от будущего развития политики привилегированные отношения с Италией могут продолжиться или же прерваться, возможно в пользу главных спонсоров войны. Кроме того разрушения спровоцированные конфликтом дают о себе знать на производстве страны: многие аналисты скептически относятся к перспективе заявленной ливийским правительством о возвращении к концу 2012 года на довоенный уровень производства и экспортирования;
  • дестабилизация MEНA: не только Ливия, но в целом и вся эта зона, называемая англосаксонцами MEНA, иначе говоря Северная Африка, страны Ближнего Востока и Средний Восток, являщаяся еще одной крупной зоной энергетических ресурсов находится в фазе переворотов и нестабильности. Чередуются восстания и смены власти или режимов, растет межэтническое и межрелигиозное напряжение, нарастает ветер войны между Эмиратами Залива и Ираном, Турцией и Сирией, Израилем и другими странами, На сегодняшний день велика опасность тяжелого столкновения, которое может спровоцировать сильное уменьшение экспортирования нефти.

Вышесказанное должно заставить нас задуматься о европейской политике, находящейся – по вполне понятным геополитическим причинам – под покровительством Вашингтона дифференциации импортирования энергии. Эта картина некоторым может показаться хорошим поводом для упорствования в этой политике и даже обладающей высокой приоритетностью. Но можно также интерпретировать ее и иначе: с одной стороны у нас есть Россия, которая уже десятилетия гарантирует гарантированную и непрерывную поставку. С другой стороны дестабилизированный, раздробленный регион, находящияся на пороге войны, в эндемическом состоянии восстания; и футуристические перспективы новых технологий, которые однако, на данный момент совсем не дают ощущения безопасности.

В то время как немцам уже обеспечены поставки благодаря строительству NordStream, зеркальный проект SouthStream, из которого должна получить пользу в основном Италия, продвигается медленно. Реализация этого проекта, который увеличил бы поставки газа из России и сделал бы их более безопасными, должна была бы восприниматься как стратегически проритетной для Италии. И следовательно она должна была стать одним из приоритетов внешней политики нашего правительства. Нужно было бы также иметь смелость признать что Nabuccoне является выгодным проектом: ни экономически – и это знают все операторы, ни стратегически, по крайней мере для Италии. Брать большие объемы газа у Туркменистана, вероятно у Ирака, или может быть у Египта, а в перспективе может быть даже и у Ирана, переправлять его через сердце Ближнего и Среднего Востока, могло бы быть хорошей альтернативой для страны большой а не средней политической силы как Италия . Нужно раз и навсегда признать, что не достаточно всего лишь размечать линию поставки и развивать необходимые инфраструктуры и экономические соглашения. После проложения курса нужно уметь его защищать. А какое влияние, какие возможности показа своей мощи имеет Италия в отношении таких регионов как Ближний Восток, Кавказ, зона Каспийского моря или Центральная Азия? Ответ заключается в том, что мы могли бы полагаться на США, на их возможности и желание массового вмешательства в эти сложные регионы, которые уже в настоящее время с трудом подвергаются подавлению. Оказывать предпочтение Nabucco в ущерб SouthStreamбыло бы большим риском, очень опасным для Италии.

Поговорим вкратце о втором аспекте, из-за которого Россия является стратегически очень важной страной для Италии – дипломатическом. Постоянной и характерной чертой внешней политики Италии всегда являлась некоторая подчиненность. Объединение Италии было осуществлено маленьким государством Королевство Сардинии, благодаря поддержке Франции при Наполеоне III (для завоевания Ломбардии и Центральной части полуострова), Великобритании (для завоевания Юга) и Пруссии (для присоединения северо-востока и региона Лацио). Да, Объединенная Италия была признана в качестве государства с большой политической силой, но была «последней среди сильных». Поэтому она всегда искала поддержки более сильного союзника. Вначале союзником была Вторая французская империя; потом, после Седана и неудавшихся авансов Великобритании, союзником стал Второй Рейх Германии. В Первой мировой войне Италия заключила союз с Парижем и Лондоном, а потом перешла к Берлину в 30-ые годы; после поражения во Второй мировой войне союзником/покровителем Италии стали США, состояния, продолжающееся до сих пор.

Все эти дипломатические отношения характеризовалсь более или менее заметной толикой подчиненности Италии по отношению к союзнику. И традиционно Рим всегда пытался уравновесить этот дисбаланс, одновременно строя солидные отношения с другими партнерами, равными по политической мощи или по крайней мере сопоставимыми с союзником. Королевство Сардиния уравновешивает влияние союзника Франции с английской дружбой; Италия, заключившая союз с Германией позволяла себе «кружиться в вальсе» с Великобританией и Францией; Итальянская Республика в какой-то мере постаралась уравновесить слишком сильное влияние США опираясь на фрако-германскую ось, а также на протяжении неоатлантизма в частности, на СССР. Россия сохраняет эту основную функцию дипломатической опоры, к которой можно прибегнуть для уравновешивания безусловно ассиметрического и несбалансированного союза с Вашингтоном.

Перевод с итальянсого Элизео Бертолази

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Il ruolo degli USA nel traffico mondiale di droga – Intervista a Sandro Donati

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Sandro Donati, esperto di problematiche legate al narcotraffico (è consulente della WADA, agenzia internazionale anti-doping, ed è stato consulente del Ministero della Solidarietà Sociale), è direttore scientifico del progetto Narcoleaks, che raccoglie un gruppo di ricercatori volontari italiani impegnati nel monitoraggio dei dati relativi alla produzione e al commercio di cocaina a livello globale. Pochi giorni fa abbiamo dedicato un pezzo a Narcoleaks, in merito all’apprensione suscitata presso la Casa Bianca dalla diffusione di un documento redatto dal gruppo, eloquentemente intitolato “Le bugie di Obama sul traffico internazionale di cocaina”. Ora Giacomo Guarini ha incontrato ed intervistato per noi il direttore Donati.

Può farci una breve presentazione del progetto Narcoleaks, che lei anima in veste di Direttore Scientifico?

Narcoleaks nasce da un’idea di Giovanni Augello, giornalista del Redattore Sociale, che partecipò assieme ad altri giornalisti ad una conferenza stampa che io e don Ciotti [presidente dell’associazione Libera ndr] facemmo nel gennaio del 2009, in cui rendemmo noti i primi risultati dello studio che stavo realizzando sulla produzione e sui traffici mondiali di cocaina.

Narcoleaks riguarda solo una parte dello studio e si occupa del monitoraggio e della pubblicazione continuativa nel corso dell’anno dei dati relativi ai sequestri mondiali di cocaina. Abbiamo creato uno staff composto da giovani giornalisti motivati, che abbiamo addestrato anzitutto alle modalità di raccolta dei dati, le quali sono molto minuziose. Nel reperire i dati privilegiamo le fonti istituzionali (organi governativi dei vari paesi coinvolti nel traffico) e in subordine una grossa catena di media che assumiamo per credibili nel momento in cui ritroviamo le loro notizie sulle fonti istituzionali, nella stessa formulazione e riferite a un responsabile antidroga o comunque ad un’autorità del paese del sequestro.

Pur muovendovi semplicemente in ambiti ufficiali – senza evidentemente diffondere documenti ed informazioni dell’intelligence o confidenziali di vario tipo – avete pubblicato un documento lo scorso 7 dicembre, dal quale emergono dati molto interessanti e discrepanze anche forti nelle pubblicazioni dei dati sul traffico di cocaina diffusi dagli USA. Inoltre la vostra, per quanto ben organizzata, resta una piccola realtà ed il documento pubblicato ha sì avuto una certa rilevanza in Italia e all’estero ma ciononostante era ancora ben lungi dal far parlare di sé sulle pagine delle principali testate nazionali e internazionali. Ciononostante la Casa Bianca è subito intervenuta conun comunicato ufficiale di smentita delle conclusioni del vostro studio. Una reazione a dir poco anomala.

Le discrepanze nei dati che abbiamo rilevato non sono forti, sono abissali.

La risposta della Casa Bianca al nostro comunicato assume carattere inusitato, quasi incredibile per l’organismoin questione, ma si spiega in maniera chiara: il Dipartimento di Stato sa bene quale voragine viene occultata e quindi in quei dati ha visto il cuneo o il segnale premonitore o una sorta di avamposto di uno scavo che potrebbe portare lontano. Ma sono gli organi di stampa che dovrebbero chiedersi come mai il Dipartimento di Stato si è premurato di dare questa risposta.

C’è da dire che probabilmente la Casa Bianca era già in allerta su certe questioni scottanti, nella misura in cui anche sul New York Times emergevano – nei giorni immediatamente precedenti – dei rumors su gravi coinvolgimenti della DEA (agenzia antidroga USA) nel narcotraffico centro e sudamericano.

E’ evidente che il quadro è complesso e vi è tutta una serie di fattori di cui hanno tenuto conto: quello che ha scritto il New York Times in questi giorni ma anche ciò che aveva scritto tempo fa, quando parlò del fratello di Karzai – coinvolto nel narcotraffico in Afghanistan – che era sul libro paga della CIA.

E mi permetto di aggiungere un tassello particolarmente interessante: alcuni giorni dopo la pubblicazione del documento – siamo al 13 di dicembre – giunge la notizia che procuratori federali degli Stati Uniti accusano Hezbollah di coinvolgimento nel narcotraffico in Centro e Sudamerica. In sostanza gli USA rilanciano le accuse mosse nei loro confronti verso Hezbollah, che è chiaramente un avversario politico molto forte e tanto più insidioso in questa fase di destabilizzazione del Mediterraneo orientale. Vuol dirci qualcosa al riguardo?

Sono ormai abituato in questi 4 anni di ricerca giornaliera ad esaminare i loro comunicati o le loro analisi, che mirano sempre ad obiettivi di carattere politico. Mi chiedo: un organismo che nel trattamento dei dati e nella diffusione mondiale di analisi sullo stato del narcotraffico si è comportato in maniera così inaccettabile, in che modo può essere credibile nel momento in cui produce analisi specifiche ora su questo ora su quell’altro soggetto, come nel caso di Hezbollah? E’ noto che le banche statunitensi e non solo loro (anche quelle panamensi, ad esempio), sono fortemente coinvolte nel riciclaggio. E quindi quest’accusa ad Hezbollah – limitata ad una cifra di 250 milioni di dollari, mi pare – costituisce al più una goccia nel mare.

Posso fare un esempio analogo a quello appena proposto: seguo con costante attenzione quei comunicati che gli USA organizzano in simbiosi con il governo colombiano, nei quali cercano di prospettare l’idea che tutto il narcotraffico sia nelle mani delle FARC, che è un’idea assolutamente inconsistente. Le FARC sono sì uno dei gruppi che trattano il narcotraffico; non possiamo infatti negare che siano un’organizzazione di tipo ideologico, ma hanno anche forti responsabilità nel narcotraffico. Eppure c’è uno sterminato ruolo dei paramilitari nel settore, il quale viene invece sistematicamente coperto.

In una recente intervista, uscita all’indomani della pubblicazione del documento, lei fa riferimento a gravi casi di coinvolgimento di elementi degli organi statunitensi (CIA e DEA) nel narcotraffico in America Latina. Quale valore geopolitico e geoeconomico assume il narcotraffico nell’area per la superpotenza statunitense e per eventuali altri attori continentali e globali?

Purtroppo il ruolo degli USA nel narcotraffico della cocaina in Centro e Sud America è nient’altro che l’ennesimo episodio storico. Molti studiosi hanno già approfondito il loro ruolo nel conflitto in Vietnam; è con l’inizio di quel conflitto che esplose la produzione d’oppio nel triangolo d’oro (area compresa fra Myanmar, Laos e Thailandia, ndr) e soprattutto è esplosa la quota che veniva trasformata in eroina (storicamente l’oppio veniva consumato tal quale era in Asia) e che poi veniva trasportata evidentemente in Europa e negli stessi Stati Uniti.

Per quel che riguarda l’area latinoamericana, il ruolo non chiaro degli Stati Uniti emerge dalle stesse inchieste del Senato americano, come quella di fine anni ’80 condotta da John Kerry – che poi diventerà candidato alla presidenza – la quale non poté non ammettere che c’erano numerosi casi di coinvolgimento della CIA e della DEA nella vendita della cocaina per il rifornimento di armi ai contras in Nicaragua.

Vi sono, d’altro canto, le accuse che parti del governo messicano hanno mosso agli Stati Uniti anche recentemente e la stessa Chiesa Cattolica, ai vertici episcopali messicani, ha preso posizione di aperta condanna dei sordidi traffici tra gli Stati Uniti ed il Messico sullo scambio cocaina-armi.

Non dimentichiamo inoltre significativi episodi accaduti in altri paesi dell’area, come Panama, che è un crocevia importantissimo non solo del traffico di cocaina ma anche del riciclaggio di denaro. In questo paese nel 2006 è morto per avvelenamento il capo dell’antidroga, Franklin Brewster, in circostanze assolutamente sospette. C’è un ruolo molto forte dell’ambasciata americana e dell’FBI nel prospettare i risultati di un esame autoptico che – non si sa per quale ragione – non è stato effettuato a Panama, pur avendo Panama a disposizione tutte le apparecchiature necessarie. Si disse che il gascromatografo, un’apparecchiatura di analisi sofisticata, in quei giorni non funzionava a Panama, anche se poi altri testimoni smentirono tale asserzione. In ogni caso i referti autoptici della vittima furonomandati negli Stati Uniti e tornarono in una maniera assolutamente strana: su carta non intestata e con riferimenti a matricole di catalogazione che non corrispondevano a questo Franklin Brewster, bensì ad altre persone, di cui una morta a sua volta, un’altra invece viva e vegeta, entrambe allora ricoverate nello stesso ospedale. Una manipolazione incredibile dei dati.

Ed in quel periodo Panama era diventato un crocevia di passaggio non soltanto di una quantità crescente e smisurata di cocaina, ma anche di traffico di armi. Ci sono anche documenti delle stesse FARC, sequestrati in occasione dell’uccisione di Reyes, il capo di allora delle FARC, che indicano in maniera chiara che le stesse trattavano con le autorità panamensi per acquisire armi attraverso uno scambio con la cocaina. Abbiamo quindi un contesto specifico in cui erano coinvolte sia le FARC sia parti dell’intelligence americana.

Vorrei adesso spostare l’attenzione sulla massa continentale eurasiatica e confrontarmi con lei sul rapporto fra narcotraffico e guerre ‘umanitario-securitarie’, partendo dall’Afghanistan. Dati delle Nazioni Unite segnalavano nel 2001 un calo della produzione di oppio pari al 94% rispetto all’anno precedente; un calo avvenuto contestualmente all’emissionedi una fatwa che vietava simili attività. Poi è arrivata la guerra, la produzione è ripresa e più volte sono emerse notizie relative al coinvolgimento nel narcotraffico di elementi delle forze occidentali intervenute nel conflitto. Può presentarci un suo quadro della situazione?

La questione afghana è una cartina di tornasole, un qualcosa che consente di comprendere tutto ed è sconcertante come osservatori ed esperti di narcotraffico facciano finta di non vedere. Ci sono infatti una serie di elementi eclatanti che parlano con estrema chiarezza.

Anzitutto, fino a prima che iniziasse il conflitto afghano – mi riferisco al periodo precedente finanche all’invasione sovietica in Afghanistan – la produzione nel paese era una percentuale minima di quella mondiale. Diciamo che la quasi totalità della produzione mondiale era tutta quanta concentrata nel triangolo d’oro. La produzione afghana cominciò a muoversi durante l’invasione sovietica e ci sono molti riferimenti che indicano come gli Stati Uniti finanziassero i mujahidin all’epoca, proprio facilitando il traffico dell’oppio. Fatto è che l’Afghanistan cominciò a produrre una parte un po’ più consistente della produzione mondiale, portandosi intorno ad un 15-20% del totale, ma il triangolo d’oro continuava sempre ad essere dominante nel settore. Quando i sovietici si ritirarono, la produzione era ormai consolidata, e rimase tale sino a che nel 2000 intervenne un primo editto dei talebani. Questo editto provocò una prima diminuzione che mi pare si attestò attorno ad un 20-30% della produzione. L’anno successivo i talebani fecero sul serio, perché emisero un altro editto molto più duro che evidentemente spaventò i contadini; fatto sta che la produzione venne pressoché azzerata e si ridusse a circa un 7-8% di quello che era prima. Ora, nell’ottobre del 2001 arrivano gli americani e i loro alleati. Quello che è eclatante è seguire la curva con la quale da quel momento in poi aumenta annualmente la produzione di oppio. La pendenza della curva dimostra un aumento di produzione spaventosamente più elevato rispetto alla lenta crescita avuta durante il periodo dell’occupazione sovietica. La produzione arriva infatti a raddoppiare o triplicare anno per anno e si arriva ad una situazione limite intorno al 2007, anno in cui l’Afghanistan diventa pressoché il monopolista nella produzione mondiale. E quindi qui intervengono diversi fatti clamorosi che vanno osservati con attenzione: non soltanto l’Afghanistan vede esplodere la sua produzione, ma al tempo stesso crolla quella del Sud-Est asiatico. E qualcuno mi deve spiegare chi è che manovra quello che io definisco una sorta di simbolico semaforo internazionale che diventa rosso da una parte e verde dall’altra. Sul versante del triangolo d’oro, d’improvviso cominciano a funzionare tutte quelle politiche di sviluppo dell’agricoltura alternativa e la produzione di oppio si abbatte fortemente.

In Afghanistan invece assistiamo all’esplosione della produzione in uno dei paesi più controllati al mondo da satelliti, ricognizioni aeree e movimenti di truppe terrestri. Ammettiamo per un attimo di credere alla favoletta che l’oppio si produce soltanto nelle zone controllate dai talebani; dovremmo anzitutto superare la contraddizione che gli stessi talebani in precedenza avevano emesso degli editti contro la produzione. Ma anche volendo ammettere che i talebani a loro volta, accecati dal bisogno di armarsi dettato dalla guerra, abbiano cercato finanziamenti nel narcotraffico: è evidente che gli Stati Uniti hanno una capacità aerea di totale controllo del paese e che i talebani non sono certo in grado di contrastarli dal punto di vista aereo, soprattutto nei voli ad alta quota. Potendosi tutto ricostruire minuziosamente dai satelliti, vi sarebbe la possibilità di distruggere le coltivazioni come per esempio gli stessi statunitensi hanno insegnato a fare ai colombiani con le fumigazioni, cioè gettando sostanze chimiche che cadono sulle piantagioni e le distruggono. Come mai tutto questo non è stato mai attuato in Afghanistan?

Ma poi c’è una seconda domanda più stringente, che supera pure il pretesto che le coltivazioni siano solo nei territori controllati dai talebani: l’oppio coltivato deve poi essere lavorato e trasformato. Dei vari passaggi necessari il primo è la trasformazione in oppio dei fiori. Che già significa movimentare delle quantità notevoli di materia prima, che dal punto di vista di volume e peso è in rapporto di 5 a 1 rispetto all’oppio che ne verrà ricavato. La merce si sposta con camion e poi arriva nei laboratori nei quali deve essere trasformata in oppio e da oppio in eroina. Qualcuno dovrebbe spiegare alla comunità internazionale per quale motivo dai report dell’ONU emerge un numero bassissimo di laboratori di trasformazione dell’oppio in eroina in Afghanistan. Ed anche come esce questa quantità immensa di oppio ed eroina dall’Afghanistan, visto che gli americani in teoria controllerebbero tutto. Le questioni per la verità sono tante e l’esplosione di produzione in Afghanistan comporta un’altra considerazione di estrema importanza: per la prima volta in maniera eclatante si dimostra che, decidendo a migliaia di km dai mercati di consumo che si deve aumentare la produzione, si è comunque sicuri che quella produzione avrà buon fine, avrà – in sostanza – sbocco nel mercato. E questo dimostra in maniera inequivocabile che è l’offerta che determina la domanda, e quindi è almeno in parte fallace tutta quella serie di argomenti addotti soprattutto in America Latina per spiegare che la produzione è colpa dei paesi che consumano.

E’ un problema geopoliticoa monte…

Chiaramente. Non si tratta di scelte dei consumatori: i consumatori sono un branco di pecore che vanno a mettersi in fila come per ogni prodotto commerciale che viene opportunamente propagandato. Questa regola vale anche e ancor più per questo tipo di sostanze.

Lei ha parlato di consumo ed io vorrei spostarmi da un estremo ad un altro e parlare dei Balcani, che rappresentano lo sbocco ultimo dei traffici verso l’Europa. In quest’area abbiamo assistito a tragiche guerre negli anni ’90 e da ultimo l’intervento per l’indipendenza del Kosovo, nel quale si è anche sostenuta quell’UCK coinvolta poi in accuse legate al narcotraffico, al traffico d’armi e finanche d’organi. Vorrei chiederle allora di dirci qualcosa sui Balcani e sull’effetto che simili interventi militari hanno potuto avere sul narcotraffico.

Premetto che il passaggio dell’oppio dall’Afghanistan si diparte in diverse direzioni. Una di queste è il Pakistan, poi c’è un passaggio attraverso l’Iran, sbocchi immensi che vanno verso le ex-repubbliche dell’Unione Sovietica ed altri verso i Balcani. E ciò comporta una serie di conseguenze perché laddove passa la droga anzitutto lascia come scia un aumento del consumo locale. Questo per una ragione molto semplice: diverse persone implicate nel traffico della droga vengono pagate con la droga stessa e poi la rivendono e quindi fanno da moltiplicatori in loco della droga; molto spesso diventano essi stessi tossicodipendenti. E la droga si va sempre ad abbinare in maniera perfetta con altri traffici fra cui quello delle armi; questo è un punto importante. E quindi che cosa accade? Popoli o fazioni che nelle diverse zone comunque ambiscono ad armamenti possono rendersi complici del traffico della droga non soltanto perché pagati, ma anche perché in cambio ricevono accesso alle forniture di armi. Questo è un punto chiave importante da tener presente, anche per i Balcani. Tenga poi presente che in quest’area non c’è solo passaggio di oppio: per incredibile che possa essere, i Balcani stanno diventando anche snodi fondamentali per il passaggio della cocaina e recentemente c’è stato per esempio un sequestro gigantesco e senza precedenti di cocaina in Albania pari a 1 tonnellata. Vi sono degli arrivi documentati sul Mar Nero che poi ritrovano un passaggio attraverso i Balcani per portare in Europa tonnellate di cocaina senza precedenti; un numero impressionante di mulas (così sono chiamati in spagnolo i corrieri della droga) che arrivano dall’America con la cocaina per via aerea soprattutto, ma anche per via marittima, e ne sono stati censiti migliaia in diversi paesi balcanici. Ci sono degli arrivi ‘macro’ (parliamo di tonnellate) – come nell’esempio del Mar Nero e dell’Albania – e ‘micro’ attraverso questi corrieri che ingeriscono gli ovuli o li attaccano sul corpo sotto forma di cintura, etc.

Anche qui dunque possiamo registrare un drastico aumento del traffico a seguito della destabilizzazione causata all’interno e anche indotta dall’esterno di questi paesi?

Sì, dal momento che si sono creati tanti spazi di anarchia in quest’area e un fenomeno analogo è avvenuto nelle ex-repubbliche dell’Unione Sovietica caucasiche, con l’emergere di nuovi e strani poteri e forme di democrazia incompiuta.

Prima ha citato l’Iran, come uno dei canali del traffico d’oppio che parte dall’Afghanistan. In effetti fra l’area di sbocco balcanica e quella di produzione afghana l’Iran rappresenta un importante paese di transito; quest’ultimo si impegna contro il narcotraffico anche con particolare durezza (la maggior parte delle condanne a morte comminate nel paese avverrebbero per reati connessi alla droga). Quali conseguenze avrebbe secondo lei, sul piano del narcotraffico, una destabilizzazione radicale del paese persiano più volte evocata in ‘Occidente’?

L’Iran sembra opporsi con molta decisione e sembra – perché queste sono le informazioni che trapelano – che le autorità iraniane paghino anche un alto prezzo in termini di vite umane di militari e di doganieri addetti al controllo.

La destabilizzazione del paese porterebbe ad una facilitazione del narcotraffico: in qualche maniera l’Iran è una spina nel fianco, che in parte si evita seguendo altre rotte. E al riguardo non escluderei nemmeno che gli aerei militari portino con sé anche eroina…

In effetti, testate giornalistiche autorevoli hanno già riportato in questi anni casi di eroina aviotrasportata dall’Afghanistan su mezzi militari.

Appunto. Come dicevo, al momento l’Iran rappresenta una spina nel fianco ma se dovesse servire potrebbe bypassarsi completamente. Certo è che l’intera questione dei sequestri di eroina a livello mondiale è molto strana: di eroina se ne sequestra poca, mentre la produzione stimata è elevata. Chiaramente l’Iran è di gran lunga il paese che sequestra più di tutti e questo dà uno schiaffo agli altri paesi – in particolare a quelli circostanti – perché questi ultimi non sequestrano. Anche qui è un mistero: non si scoprono laboratori, non si sequestra eroina. C’è una protezione totale su questo prodotto e mi chiedo anche quanta parte di questo serva per finanziare la guerra.

Come commenta le parole dell’ex Direttore Esecutivo dell’Unodc (ufficio ONU contro la droga e il crimine) Antonio Maria Costa, il quale avrebbe dichiarato che “nel 2008 [all’apice della grande crisi finanziaria, ndr] la liquidità era il problema principale per il sistema bancario e quindi tale capitale liquido è diventato un fattore importante. Sembra che i crediti interbancari siano stati finanziati da denaro che proviene dal traffico della droga e da altre attività illecite. E’ ovviamente arduo dimostrarlo, ma ci sono indicazioni che un certo numero di banche sia stato salvato con questi mezzi”?

Io rispondo in questa maniera: Costa in origine è un economista e quindi sicuramente nel fare queste analisi ha utilizzato anche le sue competenze di economista oltre che – essendo il direttore dell’ Unodc – di conoscitore della problematica. Certo, poi trovo divertente il fatto che Costa abbia sviluppato la sua capacità di analisi solo in parte. Perché Costa è stato uno di coloro che ha gestito l’Unodc nel lungo periodo della sottostima della produzione mondiale ed è quindi singolare che denunci poi la gravità del riciclaggio. Personalmente ho avuto modo di incontrarlo alla presenza dell’allora Ministro della Solidarietà Sociale italiano – per il quale svolgevo ruolo di consulente – e alla presenza dell’Ambasciatore italiano a Vienna. E ho incontrato anche i suoi esperti, estensori dei report e quando ho chiesto loro spiegazioni sulla stranezza dei dati mi sono state date risposte assolutamente vaghe ed insoddisfacenti. Di fronte alle grosse perplessità da me espresse, Costa rispose con la proposta di assumere alcuni dei miei collaboratori nell’Agenzia per migliorare il flusso dei dati – proposta molto strana, fatta per giunta davanti alle autorità – e quando gli spiegai che avevo compiuto da solo i miei studi, fece direttamente a me la proposta. Poi cadde il Governo Prodi, lui si sentì in una botte di ferro perché questo Donati non avrebbe più potuto infastidirlo e così non seppi più nulla. Allora è buffo poi rileggere le sue considerazioni, peraltro condivisibili, sul riciclaggio: lui proprio che sa che quei dati erano sottostimati e che quindi il riciclaggio ha delle proporzioni ben più ampie!

Possiamo dunque affermare che l’attuale sistema economico-finanziario internazionale sia fortemente condizionato e sostenuto dal riciclaggio dei proventi del narcotraffico?

Le attività criminali sono molteplici, quindi non c’è soltanto la droga, ed è chiaro che il traffico della droga si tramuta sempre al dettaglio in danaro contante e quindi nella possibilità – anzi nell’urgenza – di liberarsi di questo danaro che scotta e immetterlo in un sistema che richiede liquidità. La domanda che mi sono sempre posto è: cosa provoca tutta questa massa di denaro sporco nel momento in cui viene reinvestita nelle tre branche dell’attività economica (industriale, commerciale o finanziaria)? Ed in subordine continuo a chiedermi: quale economia si continua ad insegnare agli studenti nelle facoltà di scienze economiche? Perché – mi auguro di essere smentito – non mi risulta che in queste sedi venga insegnato il risultato combinato e perverso dell’intreccio tra l’economia cosiddetta delle regole e l’economia di origine criminale.

Credo che per vigliaccheria – non voglio pensare per ottusità – i manovratori, i gestori scientifici del sapere, evitino di approfondire le analisi in tal senso.

A vent’anni dalla fine dell’era post-bipolare assistiamo all’emergere di nuovi attori globali. Ritiene che questi, singolarmente o congiuntamente, possano dare nuova linfa ad un serio impegno alla lotta al narcotraffico internazionale? A titolo di mero esempio, penso alla Cooperazione di Shanghai, un’organizzazione che vede coinvolte Russia e Cina assieme ai paesi del Centro Asia per la sicurezza e la stabilità dell’area, anche in risposta al problema del narcotraffico.

Le rispondo citandole un esempio che conosco meglio, senza addentrarmi in altri che conosco meno. L’esempio è il Brasile e le do un dato nuovo, che non si conosce, ed emergerà prossimamente proprio grazia al lavoro che abbiamo fatto con Narcoleaks. Il Brasile quest’anno ha aumentato a dismisura i sequestri di cocaina. Ormai sfioriamo le 40 tonnellate che è una quantità molto rilevante. Teniamo presente che attraverso il Brasile passa solo una parte della cocaina, quella proveniente dall’asse Perù-Bolivia. Che peraltro non trova solo sbocco attraverso il Brasile ma passa anche attraverso l’Argentina,il Cile, il Paraguay e l’Uruguay. Consideriamo poi che questi due paesi insieme hanno una produzione rilevante di cocaina, ma non sterminata come quella della Colombia, e per questo direi che quelli del Brasile sono ottimi risultati. Avendo studiato con attenzione la ripartizione dei sequestri, ho constatato che molti di questi si realizzano nelle zone di frontiera; ciò vuol dire che le frontiere brasiliane sono protette piuttosto bene. Un 40% dei sequestri si realizza invece all’interno del paese e quindi anche oltre la frontiera, all’interno del paese, c’è un forte controllo. Ora è certo che queste 40 tonnellate rappresenteranno una quota parte magari di 100-120 tonnellate che realmente circolano, ma se altri paesi realizzassero queste percentuali di sequestri direi che saremmo un pezzo avanti. In questo senso nel Brasile vedo un paese nuovo, una forza nuova, però mi chiedo: nel momento in cui questi entrerà a far parte in maniera più salda e perfusa della comunità internazionale, potrebbe l’abbraccio di qualche grosso paese vicino spingere verso altro tipo di interessi per la legge dei vasi comunicanti? Potrebbe allora darsi che magari si cominci a chiudere un occhio sul traffico. Comunque per ora devo dare una risposta affermativa; effettivamente l’impostazione della sua domanda mi sembra corretta e il Brasile ne è un esempio: un paese giovane, pulito e sinceramente responsabile. Le autorità governative, convinte della pericolosità del flagello del narcotraffico, lo combattono realmente e con impegno.

Lei giustamente si dimostra attendista per il futuro: si chiede se prevarranno logiche meno genuine nella lotta brasiliana al narcotraffico, nella misura in cui il Brasile stesso andrà ad integrarsi sempre più nell’attuale assetto internazionale. Tuttavia, assistiamo negli ultimi anni alla cauta ma decisa configurazione delle potenze globali emergenti in un vero e proprio blocco conosciuto come BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), al quale è anche dedicato l’ultimo numero della rivista dell’IsAG. I BRICS hanno già maturato posizioni comuni su questioni cruciali sul piano politico, economico, giuridico, etc. Proprio nella misura in cui i centri di potere possano andarsi a spostare e riequilibrare nel globo, e quindi il Brasile possa trovare perno e sponda in questo blocco emergente, può secondo lei tutto questo avere effetti positivi anche sulla lotta al narcotraffico?

Si, perché tutta questa situazione è legata essenzialmente agli Stati Uniti; inutile che ci giriamo intorno. Non viene detto perché c’è una paura o una complicità con gli USA. Quindi è probabile che con una redistribuzione del potere politico ed economico globale, questo problema possa essere smussato. Sono ottimista soprattutto per la droga che deriva dalle piantagioni, la cui esistenza attuale è un nonsense: le piantagioni per forza hanno bisogno della luce del sole per crescere e quindi sono visibili dall’alto. E siccome per definizione sono immobili, se non vengono distrutte è perché ci sono complicità dei paesi ospitanti. E siccome il prodotto delle piantagioni deve uscire in grosse quantità nei paesi adiacenti, queste grosse quantità possono passare solo con la complicità dei governi dei paesi di transito. Ma tutto nasce con la presenza di un collante complessivo: nel momento in cui gli Stati Uniti la smetteranno di proporsi come il gendarme dell’America centrale e meridionale nella lotta alla droga – con risultati che fino a questo momento sono quantomeno imbarazzanti – allora potrebbe anche mettersi in movimento una situazione diversa. Tra l’altro vorrei specificare che a dire che questi risultati sono imbarazzanti non sono solo io, ma una commissione del Senato nel 2005, di cui faceva parte anche Barack Obama.

Come ricordate anche nel vostro documento.

 

Esattamente. La commissione studiò attentamente la situazione colombiana dicendo che era lungi dall’essere risolta e che quindi il Plan Colombia non era servito per raggiungere gli obiettivi prefissati: non quello di abbattere la produzione di cocaina, che era rimasta inalterata, e nemmeno il problema dei conflitti e quindi del sangue che si versa in quel paese. La commissione ovviamente non è andata troppo oltre nell’inchiesta, ma con la stessa ci si era quantomeno chiesti come fossero stati impiegati quei soldi approvati dal Congresso americano. Bisognava solo approfondire altrove i risultati di quel lavoro, ma tutto il mondo ha una paura folle e finge di non vedere certe questioni.

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