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Channel: Sviluppo pacifico – Pagina 130 – eurasia-rivista.org
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L’esercito libero siriano è comandato dal governatore militare di Tripoli

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Réseau Voltaire, Damasco (Siria), 18 Dicembre 2011

 

Per quanto riguarda la “Primavera araba” e gli interventi della NATO, ufficiali o segrete, il Qatar sta cercando di imporre ovunque possa dei leader islamisti. Questa strategia ha portato non solo a finanziare i Fratelli Musulmani e a offrirgli al-Jazeera, ma anche a sostenere i mercenari di al-Qaida. Questi ultimi inquadrano l’esercito siriano ora libero. Tuttavia, tale sviluppo desta serie preoccupazioni in Israele e tra i sostenitori dello “scontro di civiltà”.

 

 I membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si confrontano sull’interpretazione di eventi che sconvolgono la Siria. Per la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti, una rivoluzione scuote il paese, seguendo la “primavera araba“, è oggetto di una repressione sanguinosa. Al contrario, per la Russia e la Cina, la Siria si trova ad affrontare bande armate estere, che combatte goffamente causando vittime collaterali tra la popolazione civile che cerca di proteggere.
L’inchiesta che Réseau Voltaire ha condotto sul posto, convalida questa seconda interpretazione [1]. Abbiamo raccolto testimonianze di sopravvissuti degli attacchi dei gruppi armati. Descrivono alcuni attaccanti come iracheni, giordani o libici, riconoscibili dal loro accento, così come anche dei pashtun.
Negli ultimi mesi, alcuni giornali arabi, favorevoli all’amministrazione al-Assad, hanno evocato l’infiltrazione in Siria da 600 a 1500 elementi del Gruppo combattente islamico in Libia (LIFG), ridenominato dal Novembre 2007 al-Qaida in Libia. Alla fine di novembre, la stampa libica ha riferito del tentativo, da parte delle milizie di Zintan, di fermare Abdelhakim Belhaj, compare di Usama bin Ladin [2], leader storico di al-Qaida in Libia, divenuto governatore militare di Tripoli per grazia della NATO [3]. La scena ha avuto luogo presso l’aeroporto di Tripoli, mentre stava andando in Turchia. Infine, i giornali turchi hanno parlato della presenza di Belhaj alla frontiera turco-siriana.
Queste accuse si scontrano con l’incredulità di tutti coloro per i quali al-Qaida e la NATO sono nemici inconciliabili, fra cui non è possibile alcuna cooperazione. Invece, rafforzano la tesi che io difendo dagli attacchi dell’11 settembre 2001, secondo cui i combattenti etichettati al-Qaida sono mercenari utilizzati dalla CIA [4].

 

Chi ha ragione?

 

Per una settimana il quotidiano monarchico in lingua spagnola ABC, ha pubblicato a episodi il documentario del fotografo Daniel Iriarte. Questo giornalista è vicino all’esercito libero siriano (ASL) appena a nord del confine turco. Ha preso la causa della “rivoluzione” e non trova mai parole abbastanza forti contro il “regime al-Assad“.
L’esercito libero siriano sarebbe formato da più di 20000 uomini, secondo il loro leader politico, il colonnello Riyad al-Asaad, di poche centinaia seconda le autorità siriane [5].
Tuttavia, nell’edizione di Sabato 17 Dicembre 2011, Daniel Iriarte testimonia di un incontro che l’ha scioccato. Mentre i suoi amici della ASL lo portavano in un nuovo nascondiglio, si trovò con degli strani ribelli: tre libici [6].
Il primo di loro era Mahdi al-Harati, un libico che ha vissuto in Irlanda prima di entrare in al-Qaida. Alla fine della guerra in Libia, è diventato il comandante della Brigata di Tripoli, il numero 2 del Consiglio militare di Tripoli guidato da Abdelhakim Belhaj. Si è dimesso da questa funzione, secondo alcuni, perché era venuto in conflitto con il Consiglio nazionale di transizione, secondo altri perché voleva tornare in Irlanda da cui proviene la moglie [7]. In realtà, ha raggiunto la Siria.
Ancora più strano: questo membro di al-Qaida era, nel giugno dello scorso anno, tra gli attivisti filo-palestinesi a bordo della nave turca Mavi Marmara. Agenti di molti servizi segreti, tra cui quegli degli Stati Uniti, si erano infiltrati nella “Freedom Flotilla” [8]. Fu ferito e tenuto prigioniero per nove giorni in Israele.
Infine, durante la Battaglia di Tripoli, Mahdi al-Harati ha comandato il gruppo di al-Qaida che ha assediato e attaccato l’hotel Rixos, dove mi trovavo con i miei compagni di Réseau Voltaire e della stampa internazionale, e i cui sotterranei erano utilizzati come ricovero per i leader della Libia, sotto la protezione della guardia di Khamis Gheddafi [9]. Secondo quest’ultimo, Mahdi al-Harati godeva della consulenza di ufficiali francesi, presenti sul terreno.
Il secondo libico incontrato dal fotografo spagnolo nell’esercito libero siriano, non è altro che Kikli Adem, un altro luogotenente di Abdelhakim Belhaj. Infine, Daniel Iriarte non è stato in grado d’identificare il terzo libico, che si chiamava Fouad.
Questa testimonianza si sovrappone a ciò che i giornali arabi anti-siriani dichiarano da diverse settimane: l’esercito libico siriano è inquadrato da almeno 600 “volontari” di al-Qaida in Libia [10]. L’intera operazione è gestita da Abdelhakim Belhaj in persona, con l’aiuto del governo Erdogan.
Come spiegare che anche un giornale anti-Assad come ABC abbia deciso di pubblicare la testimonianza del suo inviato speciale, quando mette in luce i metodi nauseanti della NATO e conferma la tesi del governo siriano della destabilizzazione armata? È che da una settimana, alcuni ideologi dello scontro delle civiltà si ribellano a questo sistema che integra gli estremisti islamici alla strategia del “mondo libero”.
Ospite del blog CNBC [11], l’ex primo ministro spagnolo José Maria Aznar ha rivelato, il 9 Dicembre 2011, che Abdelhakim Belhaj era sospettato del coinvolgimento negli attentati dell’11 marzo 2004 a Madrid [12], gli attacchi che hanno iniziato a porre fine alla carriera politica nazionale di Aznar.
L’uscita di Aznar corrisponde agli interventi dei suoi amici del Jerusalem Center for Public Affairs, il think tank guidato dall’ex ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite Dore Gold [13]. Esprimono pubblicamente i loro dubbi sulla validità della strategia attuale della CIA, di mettere al potere gli islamisti in tutto il Nord Africa. La loro critica è rivolta innanzitutto contro la Confraternita dei Fratelli musulmani, ma anche a due personalità libiche: Abelhakim Belhadj e il suo amico, lo sceicco Ali al-Salibi. Quest’ultimo è considerato il nuovo leader del paese [14]. I due uomini sono considerati essere le pedine del Qatar nella nuova Libia [15]. Questo è anche lo sceicco Salabi che ha distribuito 2 miliardi di dollari del Qatar per aiutare al-Qaida in Libia [16].
Così la contraddizione che si sta cercando di nascondere, negli ultimi dieci anni, ritorna in superficie: i mercenari, già pagati da Usama bin Ladin, non hanno mai smesso di lavorare al servizio della strategia degli Stati Uniti dalla prima guerra in Afghanistan, compreso il periodo degli attentati dell’11 settembre. Eppure vengono presentati dai leader occidentali come nemici implacabili.
E’ probabile che le obiezioni di Aznar e del Jerusalem Center for Public Affairs saranno ignorati dalla NATO come quelle del generale Carter Ham, comandante di AFRICOM. Questi era indignato, all’inizio della guerra in Libia, dalla necessità di proteggere i jihadisti che avevano appena massacrato i soldati USA in Iraq.
Lontano dalla realtà, il Comitato anti-terrorismo delle Nazioni Unite (il “Comitato d’applicazione della risoluzione 1267“) e il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, mantengono sulla loro lista nera l’organizzazione di Abdelhakim Belhaj e dello sceicco Salabi, sotto il suo vecchio nome di gruppo combattente islamico in Libia. Ed è del parere che sia dovere di ogni stato fermare questi individui se passano sul loro territorio.

 

Thierry Meyssan

 

Note

 

[1] «Mensonges et vérités sur la Syrie», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 27 novembre 2011.
[2] «Libya’s Powerful Islamist Leader», Babak Dehghanpisheh, The Daily Beast, 2 settembre 2011.
[3] «Comment les hommes d’Al-Qaida sont arrivés au pouvoir en Libye», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 6 settembre 2011.
[4] «Ennemis de l’OTAN en Irak et en Afghanistan, alliés en Libye», Webster G. Tarpley, Réseau Voltaire, 21 maggio 2011
[5] «Syria’s opposition, rebels hold talks in Turkey», Safak Timur, AFP, 1 dicembre 2011.
[6] «Islamistas libios se desplazan a Siria para “ayudar” a la revolución», Daniel Iriarte, ABC (Espagne), 17 dicembre 2011. Versione francese: «Des islamistes Libyens en Syrie pour “aider” la révolution», traduzione di Mounadil al-Djazaïri, Réseau Voltaire, 18 dicembre 2011.
[7] «Libyan-Irish commander resigns as deputy head of Tripoli military council», Mary Fitzgerald, The Irish Times, 11 ottobre 2011.
[8] «Flottille de la liberté: le détail que Netanyahu ignorait», Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 6 giugno 2010.
[9] «Thierry Meyssan et Mahdi Darius Nazemroaya menacés de mort à Tripoli», Réseau Voltaire, 22 agosto 2011.
[10] «Libyan fighters join “free Syrian army” forces», Al Bawaba , 29 novembre 2011.
[11] «Spain’s Former Prime Minister Jose Maria Aznar on the Arab Awakening and How the West Should React», CNBC.com, 9 dicembre 2011.
[12] «Attentats de Madrid : l’hypothèse atlantiste», Mathieu Miquel, Réseau Voltaire, 6 novembre 2009.
[13] «Diplomacy after the Arab uprisings», Dore Gold, The Jerusalem Post, 15 dicembre 2011.
[14] «Meet the likely architect of the new Libya», Marc Fisher, The Washington Post, 9 dicembre 2011.
[15] «Libyans wary over support from Qatar», John Thorne, The National (Emirati Arabi), 13 dicembre 2011.
[16] John Thorne, op. cit.

[Traduzione di Alessandro Lattanzio http://aurorasito.wordpress.com]

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L’Unione Eurasiatica: proiezioni e potenzialità di un nuovo polo geopolitico

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«Cercare di restaurare o di copiare ciò che è confinato nel passato è da ingenui, ma una stretta integrazione su basi economiche e su nuovi valori è un imperativo dei tempi»: così Vladimir Putin approccia il tema dell’Unione Eurasiatica, uno dei pilastri della sua campagna elettorale e del suo eventuale prossimo mandato presidenziale. L’intento dell’attuale Primo ministro appare sempre più quello di costruire un grande progetto, attraverso il quale la Federazione possa ritrovare il suo ruolo nelle relazioni internazionali, conformemente a quello spirito che da sempre contraddistingue i leader e la storia russi. Se questa volontà di essere protagonisti della storia ha segnato il passo all’indomani del crollo dell’Urss, Putin ha saputo recuperarla attraverso un’attitudine ambiziosa e realista al tempo stesso.
Quello dell’Unione Eurasiatica rappresenta l’ultimo degli strumenti di cooperazione internazionale che la Russia intende creare per non essere messa al margine tanto dalla preponderanza politica statunitense, che tenta di arginare il suo potenziale di attrazione sul resto della regione eurasiatica, quanto dalla potenza economica di Pechino, con la quale, non a caso, già è legata attraverso la Shangai Cooperation Organization.
Appare tuttavia fuorviante etichettare quello di Putin come il tentativo di ripristinare l’Unione Sovietica: nata come un’unione doganale tra Russia, Kazakistan e Bielorussia, che il prossimo gennaio si trasformerà in un unico spazio commerciale, l’Unione Eurasiatica è un progetto sottoscritto da stati indipendenti e sul quale ognuno proietta aspettative e strategie in parte differenti. Ciascuno dei soggetti coinvolti, tanto i paesi membri quanto quelli che ne stanno valutando l’adesione, ha interesse affinché si crei un sistema di cooperazione efficace ma “leggero”, ossia scevro da quei vincoli ideologici che sembrano ormai far parte di una visione geopolitica superata. Lo stesso Putin, inoltre, ha sempre votato la sua azione ad un estremo pragmatismo e lo strumento teorico-dottrinario si rivelerebbe certo meno efficiente di quello economico; d’altro canto, nonostante la consapevolezza della necessità di relazionarsi con Mosca, non si vede perché gli stati nati dal crollo dell’Urss dovrebbero rinunciare ad interpretare il ruolo di interlocutore attivo, che fino a poco più di venti anni fa gli era negato.
Tra i tre stati firmatari, la Bielorussia appare forse come l’anello debole, data la sua dipendenza economica da Mosca, tanto dal punto di vista dei flussi commerciali quanto da quello dell’approvvigionamento energetico: tuttavia, questa condivisione di vincoli culturali, economici e politici potrebbe rendere la cooperazione ancor più proficua. La presenza di Minsk, inoltre, “aggancia” il gruppo all’Occidente e può fungere da ponte per attrarre i paesi dell’Europa Orientale, Ucraina in primis.
Astana, dal canto suo, rappresenta pienamente lo spirito delle ex repubbliche sovietiche: forte delle proprie risorse e della stabilità interna raggiunta, la classe dirigente kazaka guidata da Nazarbayev da tempo promuove il raggiungimento di forme di cooperazione nell’area eurasiatica attraverso le quali interloquire con Mosca senza cadere nella subalternità. Il presidente kazako è il primo sostenitore della creazione di uno spazio economico comune nel quale non solo emarginare il ruolo del dollaro nelle transazioni, ma anche unificare le reti energetiche.
Già l’unione doganale aveva segnato una modifica quantitativa e qualitativa degli scambi: gli oltre cinquanta trattati che ne costituiscono l’ossatura prevedono l’adozione di tariffe esterne comuni, l’uniformazione delle regole in merito ai controlli e ai procedimenti doganali, ma, soprattutto, la creazione di organi esecutivi come la Commissione, al fine di prendere decisioni, verificarne il rispetto e dirimere le controversie che dovessero sorgere dalla loro applicazione.
Partendo da questa struttura, la volontà è quella di creare uno spazio nel quale merci, capitali, lavoratori e studenti possano muoversi liberamente, al fine di attrarre investimenti e innovazione; quest’area è ormai oggetto di sempre maggiore interesse da parte degli investitori occidentali e non è un segreto che il sogno di Mosca sarebbe poter estendere la cooperazione economica fino all’Unione Europea. D’altro canto, è proprio all’UE che l’Unione Eurasiatica sembra ispirarsi nel delineare le sue tappe evolutive. E dinanzi ai fallimenti di Bruxelles, le élites eurasiatiche, come dichiarato dallo stesso ministro dell’economia e del commercio russo Viktor Khristenko, dispongono anche della possibilità di integrare le loro politiche economiche e finanziarie in modo tale da evitare l’empasse in cui oggi l’Europa sembra intrappolata.
Con la creazione dello Spazio economico comune (1 gennaio 2012) si arricchisce ulteriormente la struttura cooperativa: i tre Stati, con un PIL complessivo di 2000 miliardi di dollari e un settore industriale valutato circa 600 miliardi di dollari, si assoceranno sulla base del rispetto dei principi di uguaglianza, non ingerenza negli affari interni, della sovranità e dell’inviolabilità delle frontiere nazionali. La progressiva integrazione si estrinsecherà anche attraverso la creazione di organismi sovranazionali operanti per consensus, ma soprattutto per mezzo di iniziative da parte degli imprenditori, per i quali questo processo rappresenta una grande sfida in termini di adattamento e competitività, della società civile e del mondo scientifico e culturale.
Ma l’attenzione degli analisti è centrata non tanto sullo status quo attuale, quanto piuttosto su ciò che l’Unione Eurasiatica, una volta istituzionalizzatasi (nel 2015, secondo le intenzioni russe), sarà in grado di esprimere nel contesto internazionale, soprattutto per quanto concerne le sue prospettive di allargamento.
Se l’adesione di Kirghizistan e Tagikistan sembra già vicina, uno degli snodi fondamentali sarà verificare la capacità di sottrarre l’Ucraina alla sfera di Bruxelles. Uno dei pilastri dell’Unione sarà il mercato del gas e per Kiev è di fondamentale importanza trovare accordi in merito, come hanno insegnato gli eventi degli ultimi anni. Tuttavia un suo avvicinamento al fronte orientale potrebbe essere dettato anche da altri motivi: nel popolo ucraino, e non solo nella minoranza russa, sta crescendo il malcontento nei confronti dell’Unione Europea, la quale ha appoggiato il suo distacco da Mosca per poi lasciarla sola ad affrontarne le conseguenze: basti pensare agli accordi energetici bilaterali con la Russia patrocinati da Berlino, proprio negli anni in cui le crisi del gas si inasprivano sempre di più.
Kiev, in definitiva, si troverà a dover scegliere l’opzione che meglio risponda alle sue esigenze nazionali, posto che, da un lato, il paese è guidato dal presidente filorusso Yanukovich e che, dall’altro, l’Unione Eurasiatica non intende porsi in contrasto con Bruxelles, quanto piuttosto offrire un’alternativa che non precluda il dialogo e la cooperazione con l’Europa. Non a caso, infatti, qualche mese fa il governo russo ha auspicato la creazione di una macroarea di cooperazione economica che vada da Lisbona a Vladivostok: un’idea che al momento appare prematura, ma che tuttavia evidenzia come i soggetti cui Mosca vuole contrapporsi non siano da cercare nel Vecchio Continente, quanto piuttosto nel Nuovo.
Da non sottovalutare, inoltre, il potenziale di attrazione di un paese come il Kazakistan, che negli ultimi anni ha saputo intessere una ricca tela di rapporti, tanto in Oriente quanto in Occidente. Esso, ad esempio, intrattiene ottime relazioni con la Turchia, con la quale condivide l’appartenenza al Parlamento dei paesi turcofoni, che rappresenta una delle tante questioni irrisolte dell’Unione Europea e che potrebbe per questo orientarsi verso nuove partnership.
Astana rappresenta anche un punto di riferimento per gli “Stan Countries” centroasiatici, desiderosi di confrontarsi con le potenze regionali in modo attivo, ossia cercando di massimizzare le potenzialità delle proprie risorse (idrocarburi, posizione geografica strategica, forza lavoro) senza cadere nei vecchi schemi di egemonizzazione. Sul fronte orientale, invece, si intensificano sempre più i rapporti economici con la Cina, verso la quale esporta quantità via via maggiori di idrocarburi, soprattutto attraverso il Turkestan occidentale e lo Xingjiang, aree di fondamentale importanza geopolitica.
A questo proposito, il filosofo e politologo Aleksandr Dugin ritiene fondamentale, per il successo dell’Unione Eurasiatica, la possibilità di creare due assi di cooperazione, quello UE-Eurasia e quello Cina-Eurasia. Queste tre realtà, infatti, rappresentano tre sistemi politici e valoriali profondamente diversi, che tuttavia potrebbero proficuamente interagire: per l’Unione Eurasiatica, ad esempio, significherebbe accedere più agevolmente all’alta tecnologia, al know how industriale, al processo di sviluppo tecnologico e ad un mercato di dimensioni importanti.
Dugin, inoltre, colloca l’Unione Eurasiatica all’interno di uno schema multipolare delle relazioni internazionali, differente tanto dal mondo globale, caratterizzato dall’assenza di poli, quanto dal mondo unipolare, guidato dall’egemonia statunitense. In questo nuovo scenario geopolitico, il ruolo del polo eurasiatico sarà appunto quello di interagire con Europa e Cina, al fine di limitare l’intromissione di Washington, così come la costituzione di partnership strategiche in detrimento degli interessi degli attori regionali.

* Francesca Malizia, laureata in Relazioni Internazionali presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.

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Comunicato Editoriale

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Assumo la direzione effettiva di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, periodico pubblicato dalla casa editrice che fondai nell’ormai lontano 1978

Mentre ringrazio i redattori, i collaboratori e tutti coloro che – in particolare il CPE – hanno in vario modo sostenuto “Eurasia” in questi suoi primi sette anni di attività, esprimo la mia gratitudine al dottor Tiberio Graziani per aver diretto la rivista dalla sua fondazione fino al numero 3/2011 (in distribuzione nei prossimi giorni), portandola ad un livello qualitativo che viene unanimemente riconosciuto come egregio. Ringrazio la dott.ssa Alessandra Colla per aver generosamente accettato la carica di rappresentante legale in questa nuova fase della vita di “Eurasia”.

Un memore e commosso pensiero va a Carlo Terracciano, il quale mi esortò a pubblicare una rivista di geopolitica in un’epoca in cui tale disciplina era guardata con sospetto (anche in Italia, dove ne erano stati pionieri gli studiosi facenti capo alla vecchia rivista fascista “Geopolitica”), o veniva strumentalmente volgarizzata da un gruppo editoriale oligarchico di orientamento atlantista.

Come dichiarazione d’intenti della nuova direzione, nulla di meglio che ricordare le linee guida alle quali “Eurasia” si ispira, negli stessi termini in cui esse furono presentate i nostri lettori sette anni fa:

 

Lo scopo di questa nuova rivista di studi geopolitici è quello di promuovere, stimolare e diffondere la ricerca e la scienza geopolitica nell’ambito della comunità scientifica nazionale ed internazionale, nonché di sensibilizzare sulle tematiche eurasiatiche il mondo politico, intellettuale, militare, economico e dell’informazione. La prospettiva di EURASIA non corrisponde solo a quella delle relazioni internazionali in senso stretto, ma è anche quella, più fondamentale, che concerne l’influenza esercitata sulle “rappresentazioni” geopolitiche passate e attuali, nonché sugli scenari futuri, dai rapporti culturali e spirituali tra i popoli che abitano la massa continentale eurasiatica.

Infatti, pur non rappresentando nessun particolare indirizzo accademico, né adottando alcuno specifico e preferenziale approccio metodologico per l’indagine e l’interpretazione degli avvenimenti geopolitici, la rivista EURASIA ha l’ambizione di porre all’attenzione degli addetti ai lavori l’importanza della riscoperta dell’unità spirituale dell’Eurasia, così come essa da sempre si esprime nelle molteplici e variegate forme culturali. Il riconoscimento di tale realtà costituisce infatti un fattore innovativo e decisivo per l’avanzamento della scienza geopolitica del XXI secolo, in alternativa alle pilotate, restrittive, “ideologiche”, e dunque a-scientifiche, teorie dello “scontro di civiltà” o del “melting-pot”, che tanta confusione e danno hanno ingenerato sia nell’ambito della indagine scientifica che in quello delle applicazioni pratiche.

 

Sic Deus me adjuvet!

Claudio Mutti


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Il 2012 potrebbe anche essere un trauma

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La premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi ci racconta che il 2012  sarà l’anno della ricerca di un nuovo equilibrio, in un mondo che è spinto verso modelli economici più consapevoli e rivaluta concetti come rispetto e frugalità. Se davvero così fosse, gli americani, i francesi e i russi prima di ogni altra cosa dovrebbero decidere se avviare la ricerca con gli attuali inquilini di Casa Bianca, Eliseo e Cremlino, o se sarebbe più opportuno cambiarli.  Molto più difficile lo sarà per i cittadini di un Egitto che non si riesce ancora ad intravvedere chi lo governerà, come pure per gli abitanti dei paesi percorsi da quel che rimane delle primavere arabe.

Sicché l’unica cosa certa è che il nuovo anno che è stato giudicato con largo anticipo nero, parte dichiaratamente all’insegna delle difficoltà, e quindi saremo costretti a prendere delle decisioni, personali e collettive che potrebbero scatenare nuovi e devastanti conflitti. Perché oggi le  contraddizioni sono molto più forti a causa della globalizzazione che vuole azzerare la distanza tra universalismo e localismo  mortificando l’ identità. Pertanto, viviamo ormai da tempo, in modo schizofrenico due livelli di identità, la prima  che s’identifica col mondialismo, la seconda che rivendica invece la sua specificità. Il fondamentalismo prospera su questo conflitto esaltato dall’accanimento multimediale che si limita a riprendere i fatti senza spiegarne con obiettività l’origine. Eppure per schiarirsi le idee, basterebbe rileggersi Gilles Kepel quando scrive che gli odierni movimenti fondamentalisti sono «per eccellenza figli del nostro tempo: creature non desiderate, bastardi dell’informatica e della disoccupazione o dell’esplosione demografica e dell’alfabetizzazione; le loro grida e i loro lamenti incitano a ricercarne le origini, a rintracciarne la genealogia inconfessata. Come il movimento operaio di ieri, così i movimenti religiosi odierni hanno la particolare capacità di indicare le disfunzioni della società, che classificano secondo le proprie categorie interpretative».

Naturalmente, a differenza di quanto accadeva prima, i nuovi poveri  sono tutti coloro che se ne stanno incolonnati davanti all’ingresso della grande festa consumista, senza potervi entrare. Essi vivono nel continuo e logorante sospetto di non essere all’altezza dei tempi che impongono nuovi standard, nuove regole di vita e di lavoro. Cosicché il fondamentalismo diventa, accogliendo tra le sue fila gli esclusi, il solo rimedio radicale contro le regole imposte dalla società consumista basate sul libero mercato. Pertanto in un mondo dove tutti i modi di vivere sono consentiti, ma nessuno è garantito il fondamentalismo riesce ad infondere conforto e certezza poiché esso dice a chi l’abbraccia che cosa fare, anche se il prezzo da pagare è la limitazione delle libertà democratiche. Certamente nei periodi di crisi come questo che stiamo vivendo, il fondamentalismo è il solo segmento  che  combatte la mondializzazione in maniera forte, spesso ricorrendo al terrorismo, e scatenando così la repressione più dura, la guerra preventiva. Ragion per cui la tentazione di desumere il futuro del mondo dal presente e dal passato che ci circonda diventa ancora più grande in questo bilancio di fine d’anno.

Il tentativo è di capire se ci attende un anno nero shocking, o un futuro di pacifica coesistenza come auspica la premio Nobel birmana Aung San Suu Kyi. Naturalmente la sua è  una visione suggestiva che non va respinta, dato che a volte certe previsioni poi finiscono con l’avverarsi. Ragion per cui, nel breve volgere dell’anno che si chiude e del nuovo che si apre torniamo a scrutare la scala dei valori – fra cui il primato della coscienza, il pluralismo, l’etica della responsabilità – per vedere se sono stati compiuti passi in avanti o all’indietro mentre si scontrano gli interessi particolari degli individui, delle lobby, del governo dei banchieri, del Bilderberg club e della  Goldman-Sachs, insomma dei costruttori dell’impero economico. Quale sarà il futuro comune della coesistenza? Prevarrà la cultura del rispetto dei diritti umani o quella dell’human security con la quale si limiteranno gli spazi democratici e si privilegeranno  le leggi coercitive che ben conosciamo? Prevarranno le libertà civili o le leggi di sicurezza, gli imperativi dei sacri testi? Non mi sembrano delle domande retoriche. Perché lo squilibro geopolitico che s’è creato con la crisi economica che stravolge l’Occidente, le primavere arabe, le sanzioni e la minaccia di invasione dell’Iran, l’impiego sempre più diffuso dei droni (i bombardieri senza pilota), lo spread e gli squassi provocati dalle oscillazioni delle monete, hanno riacceso la discussione storica sul senso della vita coinvolgendo la politica, le ideologie, le fedi. Accade nello scenario dell’economia globale nel quale, «le persone non solo sono sempre meno necessarie, ma le loro richieste di un salario sufficiente a vivere sono una fonte primaria di inefficienza economica. Le multinazionali globali si stanno purgando da questo peso indesiderato. Stiamo creando un sistema che ha meno posti per le persone», sentenzia  David Korten, economista, già professore alla Harvard Business School.

Da questi squilibri nasce un desiderio ansioso di interrogarsi che ha avviato una ricerca profonda sui valori che accomunano gli uomini, sui criteri che li regolano, sui perché le regole tradizionali si scontrano con le nuove con effetti  laceranti, e infine sul senso stesso dell’esistenza. Con una velocità di analisi che non ha precedenti nella storia. Infatti, da quando – vent’anni fa – è implosa l’Unione sovietica, si è avviato il mutamento strutturale dei sistemi economico-produttivi che ha rivoluzionato la natura e la regolazione del lavoro così come rapporti sociali. Con risultati spesso traumatizzanti, perché il capitalismo-postfordista si poggia sul  “capitalismo flessibile”, il nuovo regime di accumulazione basato sulla flessibilità del rapporto di lavoro. Flessibilità che sta – l’abbiamo imparato in fretta – per precarietà in un mondo postindustriale dove da tre lustri a questa parte, non si parla più – secondo il sociologo U. Beck  – di divisione del lavoro, ma di “divisione della disoccupazione”, (nell’area Ocse a luglio 2011 c’erano ancora 44,5 milioni di senza lavoro, 13,4 milioni in più rispetto al periodo pre-crisi), il che significa, come sostiene Beck, che la società del lavoro diventa sempre più precaria e che parti sempre più grandi delle popolazioni hanno “pseudo-posti di lavoro” sempre più insicuri.

Infatti, sempre secondo David Korten:« Il sistema globale sta armonizzando gli standard paese dopo paese verso il minimo comune denominatore. Alcune imprese socialmente responsabili cercano di opporsi alla marea con qualche limitato successo, ma la loro non è una lotta facile. Non dobbiamo ingannarci», avverte Korten, «La responsabilità sociale è “inefficiente” in un mercato libero globale, e il mercato non perdonerà coloro che non approfittano di tutte le opportunità per liberarsi dell’inefficiente».  Insomma, quanto sta accadendo e non ci vuole poi molto per capirlo, provoca nei lavoratori un senso di fallimento – alimentato dall’incapacità di rispondere adeguatamente alle nuove sfide – che mina alle radici la percezione di continuità dell’esistenza e della tradizione, scollega definitivamente il già mal conciliato tempo di lavoro e il tempo libero, creando così le condizioni di un conflitto permanente tra la personalità dell’individuo e la sua quotidiana esperienza di vita all’interno della comunità.

Il sociologo americano R. Sennet già quindici anni fa rilevava nel lavoratore precario, (in Italia il 46,7 per cento delle persone tra i 15 e i 24 anni che lavorano ha un impiego temporaneo), una progressiva corrosione del carattere, le cui caratteristiche di stabilità sono in contrasto con la dinamicità, la frammentarietà e la mutevolezza del capitalismo flessibile. Stando così le cose il liberismo conservatore americano, come dimostra Sennet, è caduto «in una profonda contraddizione: lo stesso libero mercato che esso propugna ha finito col minare profondamente il carattere morale individuale, la cui esaltazione è un elemento imprescindibile del pensiero conservatore e liberista». Ma i costruttori dell’impero economico non sembrano preoccuparsene, come informa Korten. Eppure la democrazia è nata in Europa e negli Usa come “ democrazia del lavoro “, cioè del lavoro salariato, se questo viene meno si rompe l’alleanza storica tra il capitalismo, stato sociale e democrazia e viene meno anche un certo modo di percepire il mondo così come fino all’altro ieri eravamo abituati. Infatti, è già nata – l’abbiamo vista – una nuova sensibilità nell’interpretazione della miseria umana e in questa interpretazione la religione, qualunque sia, gioca un ruolo determinante, perché essa possiede la straordinaria capacità di mettere a nudo le disfunzioni della società, senza avere  l’onere di realizzare con concretezza il rimedio.

Le condizioni, per molti versi sono favorevoli ai ministri del culto di ciascuna fede, perché il crollo del muro di Berlino, e con esso quello delle ideologie, ha prodotto in vent’anni, una frammentazione senza precedenti tra imperi-Stato, nazioni-Stato, nazionalità, così come risulta evidente dall’atlante del XXI secolo formato da centinaia di frammenti alla deriva sospettosi nei confronti dell’America perché «è un grosso cane amichevole in una stanza troppo piccola. Ogni volta che scodinzola, fa cadere una sedia», come scriveva Arnold Toynbee (Il mondo e l’occidente 1953), scatenando non poche polemiche. Egli credeva che per le civiltà valga un meccanismo di “sfida e di risposta”, poiché una civiltà nasce quando un gruppo umano è in grado di rispondere ad una sfida che gli viene posta dall’ambiente naturale o sociale e muore quando la civiltà non riesce più a rispondere vittoriosamente alle sfide che incontra. Toynbee riteneva possibile l’incontro e lo scontro, l’intrecciarsi di una pluralità di civiltà. Egli era per molti versi un ottimista, come oggi potrebbe apparire  Aung San Suu Kyi quando parla di ricerca di un nuovo equilibrio del mondo.

Dopo tutto, per spingersi verso “modelli economici più consapevoli” è indispensabile favorire il dialogo, la conoscenza, fare in modo che i diritti fondamentali dell’uomo non appaiano più come prodotti occidentali, ma radicati nell’orizzonte culturale e spirituale proprio dell’universo culturale che va riscoperto e sostenuto. Questo implica però l’accettazione da parte di tutte le culture di quel quadro di valori fondamentali e cioè i diritti dell’uomo, i principi di democrazia, la distinzione tra Stato, confessioni religiose e società che sono elementi ineludibili e non sono negoziabili. Dopotutto anche noi europei abbiamo bisogno di ricompattarci per non soggiacere all’ideologia e con essa agli interessi dei banchieri e della superpotenza imperiale. Infatti, l’esaltazione del consumismo senza il quale non c’è qualità di vita, ha prodotto l’atomizzazione degli interessi, delle culture, l’allontanamento nei fatti di ogni etica, ha stemperato il desiderio di aggregazione. Molto, anzi moltissimo, vi contribuisce quell’arma di distrazione di massa che è la televisione, la quale  tutto traduce in tragedia del mero presente, del nudo accadimento, senza offrire un minimo spunto di approfondimento che non sia strumentalizzato, distorto dai grandi gruppi di interesse e dai grandi ricchi che ne fanno parte.

Se poi si tiene a mente l’avvertimento di Neil Postman, secondo il quale «la televisione è un mezzo individualizzante. La si sperimenta e si reagisce ad essa, in un isolamento dagli altri che è tanto psicologico quanto fisico» , meglio si capisce come essa possa incidere più di chiunque altro sulle interpretazioni dei valori, stravolgendoli. La tolleranza, per esempio, che ora viene ritenuta una debolezza nell’incontro con l’altro, poiché – si sostiene –  si può tollerare soltanto ciò che “non” si reputa vero. Dimenticando che, come insegna Pico della Mirandola , la tolleranza è interconnessa all’amore. Che è l’unico sentimento che può garantire nel confronto con l’altro quell’armonia che il mistico Mullah Shah Badakhshi raffigurava  con un’immagine tenera: «Tu eri me e io non lo sapevo», parlando ai suoi allievi nel giardino di un tempietto appena fuori Lahore,  milleseicento e passa anni dopo Cristo, in piena èra Moghul.

 

Vincenzo Maddaloni

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Verso un mondo incerto?

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Il 2011 è appena finito, e per cominciare questa rubrica auguro un felice 2012 ai lettori di RIA Novosti. L’agenzia ha pubblicato le impressioni personali dei commentatori di RIA Novosti e volevo portare il mio modesto contributo su questo argomento. Che dire dell’anno passato e di quello appena iniziato? I presidenti dei due paesi che mi stanno più a cuore, cioè la Russia e la Francia, hanno avuto parole in realtà molto simili, nei loro discorsi di fine anno, definendo il 2011 un anno assai difficile. Il mondo prima della crisi sembra ormai lontano, ma la somiglianza della tonalità dei discorsi presidenziali non dovrebbe oscurare il fatto che le situazioni in Francia e in Russia sono significativamente differenti.
Le condizioni economiche si stanno deteriorando in Francia, mentre il 2011 è stato l’anno della crisi per la Russia. Secondo un sondaggio pubblicato dal portale interinale Superjob.ru, il 16% dei russi si aspettano cambiamenti positivi per il 2012, l’8% ritiene che il 2012 sarà stabile in tutte i campi, il 7% prevede un aumento di stipendio e il 6 % ritiene che accadrà qualcosa di speciale il prossimo anno. I pessimisti, che credono che il 2012 sarà caratterizzato da un peggioramento delle condizioni di vita e dai prezzi alle stelle, sono solo il 9%. Nel complesso, l’indagine mostra così un cauto ottimismo che contrasta con il tradizionale fatalismo russo, che probabilmente  dovuto alla salute economica del paese, relativamente buona, e alle prospettive per il 2012.
L’incertezza economica che colpisce l’area dell’euro può colpire il morale dei cittadini. Il 1 gennaio 2012 ha segnato il 10° anniversario dell’Euro, e come ha sottolineato l’ottimo commentatore Vlad Grinkevitch, “l’area dell’euro attraversa certamente non il suo periodo migliore.” “La crisi del debito che ha colpito Grecia, Portogallo, Italia e Spagna potrebbe degenerare in un grave disastro finanziario e causare una nuova recessione”. Così, l’81% dei francesi pensano che il 2012 sarà un anno difficile. Tuttavia,  un’ansia comprensibile mentre la Francia potrebbe dover affrontare, nel 2012, la perdita della sua tripla A, e probabilmente avanzare un po’ di più verso una situazione di recessione economica. Gli irlandesi, gli austriaci e i belgi, sono rispettivamente secondo, terzo e quarto posto nella classifica del pessimismo, dopo i francesi, secondo un sondaggio in 51 paesi. I cittadini più pessimisti si trovano così, chiaramente, nella parte dei paesi ritenuti più ricchi e più sviluppati. Probabilmente perché hanno molto da perdere e le prospettive economiche globali per il 2012, sono particolarmente pessime nella maggior parte dei paesi ricchi dell’OCSE.
Logicamente, i dieci paesi in cui il futuro viene visto più buio, si trovano sul continente europeo. Sei di essi sono anche membri dell’Unione europea. Il primo ministro greco, Lucas Papademos, ha chiesto un ulteriore “sforzo (…) affinché la crisi non porti a una bancarotta disordinata e disastrosa”. Per il presidente francese Nicolas Sarkozy, “il destino della Francia può vacillare” nel 2012. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha avvertito che il 2012 sarebbe “più difficile” rispetto all’anno passato. Mentre il Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, ha chiesto ai suoi concittadini di accettare i sacrifici per evitare “il collasso delle finanze del paese.” In misura minore, il Nord America – Stati Uniti e Canada – si trova anch’essa in questo gruppo di paesi che entrano nel futuro indietreggiando. Tuttavia, quattro paesi dei dieci più ottimisti del mondo, si trovano in Africa. In testa, la Nigeria, ma anche Ghana, Tunisia e Sud Sudan. In Asia, anche Vietnam e Uzbekistan, affronteranno il 2012 con ottimismo.
Ma non solo per l’economia, il 2012 sarà anche un anno cruciale nella politica, in quanto è un anno di elezioni in tre grandi paesi, come Francia, Stati Uniti e Russia. Sul fronte politico, come sul fronte economico, il futuro prossimo della Russia sembra chiaro: la crescita economica e la continuità del potere politico russo sono praticamente assicurate. Questo è ben lungi dall’essere il caso di Francia e Stati Uniti. Barack Obama e Nicolas Sarkozy portano sulle loro spalle di leader, delle responsabilità molto pesanti per la crisi economica e monetaria che continua a crescere.   Possibile effetto perverso, una vittoria repubblicana negli USA e dei socialisti in Francia , potrebbe cambiare significativamente i rapporti politici tra le grandi potenze, e creare impulsi politici in nuove direzioni, con conseguenze ad oggi senz’altro imprevedibili.
Mentre guardo le immagini cicliche dei festeggiamenti di Capodanno, riprese da Russia Today, e queste folle che sembrano spensierate, mi chiedo a cosa assomiglierà il mondo che si trova in una fase di riorganizzazione così veloce, il mondo in cui i nostri figli e i nostri nipoti vivranno.
La primavera araba si trasforma in inverno e l’economia dei paesi occidentali entra in un autunno sempre più inquietante. Per alcuni analisti come Olivier Delamarche, il crollo del sistema finanziario potrebbe causare uno o più guerre. Se questo scenario apocalittico viene evitato, i grandi cambiamenti in atto continueranno: il BRIC (Brasile-Russia-India-Cina) avanza dalla crisi del 2008, preparandosi al suo ruolo di futuro gigante economico, e il centro di gravità del mondo continua a muoversi verso l’Asia. La crisi finanziaria ed economica in corso, dovrebbe portare a un indebolimento relativo dell’Occidente, soprattutto al suo modello politico, economico e morale sempre meno credibile. Altrove, altre potenze come Malesia, Messico, Turchia e Iran si preparano a diventare potenze regionali da prendere in considerazione.
Questo “nuovo mondo”, che sarà sicuramente multipolare, dovrebbe vedere l’emergere di nuove potenze e di nuovi modelli politici ed economici. La domanda è se questa transizione sarà pacifica.  futuro che sta emergendo sembra incerto.

 

*Alexandre Latsa è un giornalista francese che vive in Russia e gestisce il sito DISSONANCE, volto a fornire una “visione diversa della Russia.” Collabora inoltre con l’Istituto per le relazioni internazionali e strategiche (IRIS) e partecipa a varie altre pubblicazioni.

 

Fonte:http://fr.rian.ru/tribune/20120104/192946690.html
Traduzione di: Alessandro Lattanzio

 

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Che cosa sta realmente succedendo in Ungheria?

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Pubblichiamo qui di seguito un documento del Munkaspart, un minuscolo partito comunista ungherese che si richiama al periodo precedente il 1989. Qualora sia in grado di prescindere dalle inevitabili astrazioni ideologiche, dai criteri sociopolitici condizionati da un rozzo schematismo classista e dalla pilatesca posizione di neutralità che il partito assume di fronte allo scontro in atto, il lettore potrà apprezzare il significato di questo documento, che fornisce qualche buona informazione sull’attuale situazione ungherese.
Il 1° gennaio 2012 una nuova costituzione è entrata in vigore in Ungheria. In connessione con ciò, la stampa occidentale ha pubblicato molti materiali che affermano che quello che sta accadendo oggi in Ungheria, “porta all’impoverimento del popolo” e “minaccia la democrazia e stringe la presa del governo sui media e la magistratura, nonostante le critiche provenienti da Europa e Stati Uniti”.Il 2 di gennaio una grande manifestazione ha avuto luogo al Teatro dell’Opera di Budapest. L’organizzatore ufficiale della manifestazione, il movimento di nuova formazione Solidarietà, ha un paio di dozzine di membri. Il suo leader è l’ex presidente del sindacato dei militari dell’esercito e della polizia, egli stesso è un ex ufficiale dell’esercito addestrato, tra l’altro, in uno degli istituti militari degli USA.
Dietro la manifestazione si può trovare il Partito socialista ungherese, le forze liberali e anche le organizzazioni “civili”, formate da essi. In questa manifestazione non partecipa alcuna organizzazione civile che per davvero lotta contro la povertà, per proteggere le famiglie, contro gli sfratti, ecc., o per esempio le tradizionali organizzazioni studentesche? Né i movimenti dei lavoratori agricoli, né sindacati, si erano presenti. Tra gli slogan di quella manifestazione non si può trovare nulla sul nuovo codice del lavoro, nessuna protesta contro la pressione e l’intervento del FMI. La reazione dei media occidentali a questi eventi, deriva dalle stesse fonti che in precedenza avevano sostenuto l’ex governo social-liberale e la sua politica di austerità.

Ma che cosa sta davvero succedendo in Ungheria?
1. Nell’aprile 2010 il partito conservatore Fidesz – Unione Civica Ungherese – ha vinto le elezioni parlamentari e ha sostituito il precedente governo socialista-liberale guidato dal Partito Socialista Ungherese (MSZP).
I partiti parlamentari considerano le elezioni del 2010 come un punto di svolta nella storia ungherese. Il Fidesz dichiara che era “l’inizio di una nuova rivoluzione”. I socialisti ed i loro alleati le considerano come “l’inizio dell’autocrazia e della dittatura”.

2. Il Partito Comunista dei Lavoratori Ungherese è del parere che il vero cambiamento storico non ha avuto luogo nel 2010, ma nel 1989-1990, quando fu distrutto il socialismo in Ungheria. E’ stata una controrivoluzione capitalista. Il potere della classe operaia è stato sostituito dal potere delle forze capitalistiche. Le industrie e le banche di proprietà statale, e le aziende agricole collettive furono privatizzate. L’Ungheria ha aderito alla NATO nel 1999 ed è entrata nell’UE nel 2004. Il sistema capitalista basato sull’economia privata e della democrazia borghese fu stabilizzato.
Fu il passaggio dal socialismo al capitalismo che portò all’impoverimento generale del popolo ungherese. L’Ungheria ha una popolazione di 10 milioni di abitanti. 1,5 milioni di ungheresi vivono sotto la soglia di povertà, il che significa che vivono con un reddito inferiore ai 200 euro al mese. Quasi 4 milioni vivono con un reddito di 250 euro al mese. Il numero ufficiale dei disoccupati è pari a 0,5, in realtà c’è circa 1 milione di persone senza alcuna possibilità di trovare un lavoro.
La limitazione della democrazia non è iniziata nel 2010, ma nel 1989-1990. le forze politiche che lottavano contro il sistema capitalistico, primo fra tutti il partito comunista dei lavoratori ungherese non ha accesso ai media pubblici. La Stella rossa e la falce e martello – “come simboli della tirannia” – sono stati vietati nel 1993. Nel 2007 tutta la dirigenza del PCLU fu accusata di “pubblica diffamazione”. Le campagne anticomuniste ebbero luogo a prescindere da quale partito borghese fosse al potere.

3. La classe capitalista ungherese ha diversi parti per esprimere i propri interessi. Da un lato c’è il Fidesz – Unione Civica Ungherese, che esprime gli interessi dei conservatori, parte dalla mentalità nazionale della classe capitalista. È tradizionalmente orientato verso la Germania.
D’altra parte ci sono il Partito Socialista Ungherese e il Partito de “La politica può essere diversa”, che rappresentano la parte liberale e socialdemocratica della classe capitalista. Sono più vicini agli Stati Uniti e ad Israele.
La lotta tra i due partiti della classe capitalista ungherese ha radici storiche profonde. Prima del 1989 c’erano due correnti principali del movimento anti-socialista all’opposizione, la linea conservatrice dalla mentalità nazionale e la tendenza liberale. Nel 1990, il primo governo capitalista è stato formato dai conservatori. Allo stesso tempo, i liberali decisero una cooperazione a lungo termine con il Partito Socialista Ungherese, un partito socialdemocratico di destra. Molti dei leader di questo partito provengono dal periodo ex socialista, ma hanno completamente cambiato la loro posizione e molti di loro divennero ricchi capitalisti.
Dopo aver distrutto il sistema socialista, le forze capitalistiche crearono una nuova struttura politica, che è esistita fino al 2010. Era basata sui seguenti principi:
Le forze conservatrici dalla mentalità nazionale e i liberali insieme ai socialisti, si avvicendavano al potere. Nessuno di loro poté avere il potere assoluto. Impedivano alle forze anticapitaliste di entrare nel parlamento.
Tutti loro rispettarono gli obblighi verso la NATO e l’UE, e non ci furono discussioni sulla politica estera.
Tutte le elezioni parlamentari tra il 1990 e il 2006 hanno dimostrato un chiaro equilibrio tra i due gruppi di partiti. La situazione cambiò drasticamente dopo il 2006. Era diventato chiaro che il capitalismo ungherese era in crisi profonda. E per tre ragioni principali. In primo luogo, l’economia ungherese dipende completamente dal capitale straniero. In secondo luogo, il popolo ungherese è povero, ha esaurito le proprie riserve. In terzo luogo, la corruzione è diventata un problema serio, paralizzando il normale funzionamento dello Stato.
Nel 2010 le forze capitalistiche si resero conto che le forze socialiste-liberali non potevano garantire la stabilità interna del capitalismo, non essendo in grado di prevenire esplosioni sociali. Ecco perché hanno deciso di cambiare la coalizione socialista-liberale e per aprire la strada al Fidesz.
Il compito principale del conservatore Fidesz, e il suo governo guidato da Viktor Orban è stato quello di impedire eventuali sviluppi simili agli eventi in Grecia. Il Fidesz ha vinto le elezioni con slogan sociale (piena occupazione, sicurezza sociale ecc.) La maggior parte delle persone erano profondamente insoddisfatte del governo socialista-liberale. Il Fidesz potè facilmente manipolarle e ottenere una maggioranza dei due terzi nel nuovo parlamento.

4. Il governo conservatore ha avviato cambiamenti in diverse direzioni:
Ha rafforzato la propria base di classe. Il Fidesz ha messo la propria gente in tutte le posizioni nella politica, nei media e nella cultura. Ha dichiarato l’idea di creare una nuova classe media.
Ha soddisfatto le forze nazionaliste in Ungheria, con l’introduzione della doppia cittadinanza per le persone di nazionalità ungherese che vivono all’estero, introducendo nuovi eventi della memoria collegata con il trattato di pace di Trianon, del 1920.
Ha chiaramente svoltato verso la tradizione conservatrice e nazionalista in politica, cultura e istruzione.
Hanno deciso di evitare una esplosione sociale, con diversi mezzi. In primo luogo, ha introdotto un nuovo codice del lavoro che dà diritti molti ampi ai proprietari capitalisti e trasforma i lavoratori praticamente in schiavi. In secondo luogo, dividono le masse operaie assegnando salari maggiori ai lavoratori della ferrovia e innalzando il salario minimo. In terzo luogo, hanno concluso un accordo con le principali confederazioni sindacali. Hanno potuto salvare i loro privilegi e, al tempo stesso, hanno rinunciato a una reale lotta di classe.
Il nuovo governo ha lanciato una generale campagna anti-comunista. Nel 2010 il codice penale è stato modificato. Hanno dichiarato che il comunismo e il fascismo sono uguali e coloro che rifiutano i “crimini del comunismo e del fascismo” possono essere condannati fino a 3 anni di reclusione. (Fino ad ora non ci sono state condanne.)
Negli ultimi giorni del 2011 una nuova legge è stata approvata, volta a regolare il processo di transizione verso la nuova costituzione. Tra l’altro dichiara che il periodo del socialismo (1948-1990) era illegittimo, criminale. Personalità di spicco del periodo socialista possono essere accusate e condannate. Le loro pensioni possono essere ridotte. La legge contiene una dichiarazione generale: l’attuale Partito Socialista Ungherese, quale successore legale del partito al governo del periodo socialista, ha la responsabilità di tutto quello che era successo in quel periodo. Non è ancora chiaro a quali conseguenze ciò possa portare.

5. Le forze socialista-liberalo hanno lanciato un serio contrattacco contro il governo.
Il Partito Socialista ha adottato molti slogan sociali e richieste del Partito Comunista dei Lavoratori Ungherese. Ha cominciato a usare il colore rosso che il colore tradizionale dei comunisti.
I socialisti e liberali hanno cominciato a creare nuove organizzazioni e movimenti civici. Nell’ottobre 2011 il movimento di solidarietà è stato creato con un chiaro orientamento filo-socialista.
Hanno introdotto una nuova richiesta: abbasso il governo Orban! Il loro programma è creare un nuovo governo socialista-liberale.

6. Gli Stati Uniti d’America hanno apertamente interferito negli affari interni di Ungheria. L’ambasciatore statunitense a Budapest critica apertamente il governo ufficiale e sostiene la posizione delle forze liberal-socialiste. La segretaria di Stata Clinton ha fatto lo stesso nella sua lettera del 23 dicembre 2011. La lettera è stata pubblicata dalla stampa liberale.

7. Partito Comunista dei Lavoratori Ungherese ritiene che:
Il capitalismo ungherese è in crisi. La crisi generale del capitalismo in Europa, rende la situazione ungherese ancora peggiore e imprevedibile.
La classe capitalista ungherese capisce che se il sistema euro o la stessa UE crollassero, ciò porterebbe a esplosioni sociali ancora più drammatiche di quelle in Grecia. Capiscono che le persone sono insoddisfatte e molte di loro considerano che il socialismo fosse meglio del capitalismo reale.
Sia i gruppi della classe capitalista conservatori che socialisti-liberalo vogliono impedire una qualsiasi esplosione sociale. Non sono diversi nei loro sforzi principali, ma nei metodi che vogliono utilizzare.
Ciò che è attualmente in corso in Ungheria è, da un lato, la lotta comune della classe capitalista contro le masse lavoratrici, dall’altra, la lotta tra due gruppi della classe capitalista. Ancor più si tratta di una lotta tra le potenze capitalistiche, gli Stati Uniti e la Germania, per dominare l’Europa.

Il Partito Comunista dei Lavoratori Ungherese non supporta nessuno dei partiti borghesi. Dichiara che i principali problemi del popolo lavoratore sono la disoccupazione, i bassi salari, i prezzi alti, lo sfruttamento e il futuro incerto. Questi problemi sono le conseguenze del capitalismo. I governi capitalistici non possono e non vogliono risolverli.

L’unica soluzione dei problemi del popolo lavoratore è la lotta conseguente contro il capitalismo e la lotta per la prospettiva socialista.

Il Partito Comunista dei Lavoratori Ungherese non supporta le dimostrazioni di massa delle forze socialiste e liberali. Il loro scopo non è quello di cambiare il capitalismo. Il loro scopo è quello di cambiare il governo conservatore capitalista con un governo capitalista socialista-liberale.
Il Partito Comunista dei Lavoratori Ungherese non supporta neanche il Fidesz. Il suo scopo non è quello di creare una società socialista, ma riformare e rafforzare il capitalismo.
Il Partito Comunista dei Lavoratori Ungherese ritiene suo obbligo di spiegare al popolo che c’è un solo modo per risolvere il loro problema. Dobbiamo lottare contro il capitalismo.
Vogliamo essere presenti ovunque ci siano lavoratori. Vogliamo aiutarli nelle piccole cose al fine di ottenere la loro fiducia per le cose grandi.

Sveleremo tutti gli sforzi delle forze revisioniste e opportuniste che vogliono manipolare i lavoratori e portarle alla democrazia sociale.
Non c’è nessuna situazione rivoluzionaria in Ungheria. Ma le cose possono andare male in Europa e in Ungheria. È per questo che prepariamo il partito, i nostri membri e le unità per le future radicali lotte di classe, che possono avverarsi in qualsiasi momento.
Siamo convinti che ciò corrisponda alla nostra posizione comune adottata al 13° Incontro Internazionale dei Partiti Comunisti e Operai.

Traduzione di: Alessandro Lattanzio
Fonte: http://www.solidnet.org/hungary-hungarian-communist-workers-party/2467-hungarian-cwp-what-is-really-going-on-in-hungary-en?tmpl=component&print=1&page=
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Kazakhstan. Il nuovo “ponte” geopolitico fra Europa e Asia

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Possedendo circa il 60% delle risorse minerarie dell’ex Unione Sovietica, il Kazakhstan può considerarsi il Paese con la maggiore ricchezza pro capite al mondo. Oltre ai principali partner privati, come l’Eni e la Chevron Corporation, lo Stato kazako dal 2005 ha attirato l’attenzione della Turchia, concretatasi con la realizzazione di un accordo “energetico – militare” fra i due Paesi. L’importanza del ruolo internazionale del Kazakhstan si è, inoltre, incrementata con l’assunzione della presidenza dell’O.S.C.E., avvenuta nel 2010. Nel frattempo, il Parlamento kazako ha approvato una legge che intende contribuire alla difesa contro il terrorismo, dopo che alcuni attentati hanno fortemente turbato la popolazione.

Dal comunismo al capitalismo

Nel dicembre 1991 il Kazakhstan si è dichiarato indipendente dall’Unione Sovietica, aderendo alla C.S.I. e, nello stesso anno, Nursultan Abishevich Nazarbayev è stato eletto dal Parlamento kazako come Presidente della Repubblica. Nel 1994 si sono svolte le elezioni legislative che hanno registrato la vittoria del Partito d’Unità Nazionale, fondato dallo stesso Presidente. Nel 1995 è stata adottata la nuova costituzione che aumentava i poteri presidenziali e, inoltre, è stato firmato un importante trattato con Uzbekistan e Kyrgyzstan volto a istituire uno spazio economico comune. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, il Kazakhstan ha dovuto affrontare problemi comuni alle altre ex repubbliche sovietiche, come il crollo dei sistemi di commercio, l’enorme aumento del tasso di inflazione e il crollo della produzione. La politica governativa per la rivitalizzazione dell’economia si è basata sulla privatizzazione, sulla liberalizzazione dei prezzi e sull’apertura agli investimenti stranieri. In particolare, durante gli Anni Novanta è possibile rintracciare l’origine dei rapporti commerciali fra il Kazakhstan e l’Italia. Stringendo ottimi rapporti commerciali dal 1992, la compagnia italiana Eni può considerarsi uno dei più importanti partner privati del Kazakhstan.

L’asse “energetico – militare” tra il Kazakhstan e la Turchia

Il Kazakhstan, con le proprie riserve di petrolio, gas e uranio, ha attirato anche l’attenzione della Turchia, realizzando importanti accordi in ambito energetico. In seguito ad una serie di trattative avviate nel 2005, è stata siglata un’intesa di partenariato strategico-militare fra i due Paesi, che permette tuttora lo svolgimento di esercitazioni militari congiunte. L’asse turco-kazako ha consentito al Kazakhstan di creare partenariati energetici e militari più efficaci con la N.A.T.O. e con i Paesi dell’Unione Europea, mentre alla Turchia di stringere forti legami sia in ambito militare in quello energetico con gli Stati vicini. Grazie all’asse turco-kazako, il ruolo internazionale del Kazakhstan è notevolmente aumentato e, prossimamente, potrebbe riservare conseguenze inaspettate. Inoltre, nel 2010 il Kazakhstan è stato il primo Stato post-sovietico ad assumere la presidenza dell’O.S.C.E. Nonostante le riserve di alcuni Stati europei, la scelta di affidare al governo di Astana la presidenza dell’organizzazione è apparsa evidentemente strategica: si trattava, infatti, del più grande Paese dell’Asia Centrale, in altre parole del nuovo “ponte” geopolitico eurasiatico. [1]

L’eredità di Elbasy e l’emergente terrorismo islamico

Nel 2011, il Parlamento kazako, ha conferito a Nazarbayev il titolo di “capo della nazione” (Elbasy) ma, in seguito all’ennesima vittoria elettorale, avvenuta nell’aprile dello stesso anno, il Presidente è stato severamente criticato dagli osservatori internazionali dell’O.S.C.E., a parere dei quali vi sarebbero state mancanza di trasparenza nella competizione e limitazione alla libertà di stampa. Nonostante tali critiche, Nazarbayev sembra intenzionato a proseguire nella sua funzione di governo. A succedergli potrebbe essere Timur Askarovich Kulibayev che, secondo le fonti di WikiLeaks, già detiene il 90% dell’economia del Paese, essendo a capo della compagnia petrolifera KazMunayGas e di quella nucleare Kazatomprom. [2]

In questi mesi, lo Stato kazako ha appoggiato le truppe della N.A.T.O. di stanza in Afghanistan, inviando un contingente militare e consentendo il libero accesso sul proprio territorio ai mezzi della stessa N.A.T.O. e degli Stati Uniti per il trasporto di carichi militari e di truppe verso l’Afghanistan. Pare sia stata proprio questa scelta a scatenare la successiva ondata di atti terroristici che hanno turbato la popolazione kazaka: infatti, nonostante il Kazakhstan abbia saputo mantenere una convivenza pacifica fra musulmani e cristiani, dalla primavera del 2011 si sono registrati diversi attentati riconducibili al terrorismo islamista. Tentando di limitare tale minaccia, il Senato del Kazakhstan ha approvato una legge che limita l’accesso dei predicatori stranieri nel Paese e istituisce un registro delle organizzazioni religiose locali.

* Giacomo Morabito, dottore in Scienze delle Relazioni Internazionali (Università degli Studi di Messina)

Note:
[1] (F. De Renzi, Turchia e Kazakistan: la nuova alleanza, temi.repubblica.it/limes – 15/02/2010)
[2] (Autore anonimo, Kazakistan, Nazarbaiev presidente fino alla morte. Avanza il genero, www.peacereporter.net – 19/04/2011)

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Conferenza: “La via del denaro”

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Segnaliamo l’incontro che avrà luogo a Modena, sabato 25 Febbraio, alle ore 15.30, presso la sala conferenze “Circoscrizione centro storico”, in p.zle Redecocca 1, di presentazione del libro di Salvatore Tamburro “La via del denaro”. Interviene Paolo Bogni, di Altrostile.

Il tema che attraversa tutta la conferenza è il legame tra il problema del signoraggio bancario e il sistema capitalista nel suo complesso.

Il gruppo che ha preparato intellettualmente questa conferenza è Anticapitalismo.it, che prende il nome dal sito omonimo.
La conferenza è strutturata su un unico relatore, Paolo Bogni e un coadiuvatore alle slide e filmati (Simone Boscali).

La relazione dura circa un’ora e mezza e si sviluppa su una scaletta di 18 slide con l’inserto di 3 filmati.

Per informazioni ci si può rivolgere a pensierinazione@yahoo.it

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Il doppio veto che impedisce la guerra imperiale contro la Siria. Il GCC e la NATO stanno perdendo la loro leadership

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Réseau Voltaire, Damasco (Siria), 5 febbraio 2012

Contrariamente a quello che era successo durante l’attacco contro l’Iraq, la Francia non ha difeso i principi del diritto internazionale nel caso della Siria, ma si è unita al campo imperiale e alle sue menzogne. Con il Regno Unito e Stati Uniti, ha subito una storica sconfitta diplomatica, mentre la Russia e la Cina sono diventate i campioni della sovranità dei popoli e della pace. Il nuovo equilibrio del potere internazionale non è solo una conseguenza del declino delle forze armate statunitensi, ma sanziona anche il declino del loro prestigio. In definitiva, gli occidentali hanno perso la leadership che hanno condiviso per tutto il ventesimo secolo, perché hanno abbandonato ogni legittimità, tradendo i propri valori.

Due volte, il 4 ottobre 2011 e il 4 Febbraio 2012, i membri permanenti di Sicurezza delle Nazioni Unite hanno respinto le proposte di risoluzione sulla situazione in Siria. Questo scontro ha opposto i membri del Gulf Cooperation Council (GCC) e dell’Organizzazione del Trattato del Nord-Atlantico (NATO) a quelli della Shanghai Cooperation Organization (SCO).

La fine del mondo unipolare

Questo quadruplo veto sigilla la fine di un periodo delle relazioni internazionali che ha avuto inizio con il crollo dell’Unione Sovietica, ed è stato marcato dal dominio completo degli Stati Uniti sul mondo. Ciò non significa un ritorno al precedente sistema bipolare, ma l’emergere di un nuovo modello i cui contorni restano indefiniti. Nessuno dei progetti del Nuovo Ordine Mondiale si è concretizzato. Washington e Tel Aviv non sono riusciti a istituzionalizzare l’operazione unipolare che volevano stabilire come paradigma intangibile, mentre il BRICS non è riuscito a creare un sistema multipolare che avrebbe permesso ai suoi membri di raggiungere un livello più alto.

Come anticipato giustamente dallo stratega siriano Imad Fawzi Shueibi, è la crisi siriana che ha cristallizzato un nuovo equilibrio di potere, e da lì, una ridistribuzione del potere che nessuno ha pensato o voluto, ma che ora è vincolante per tutti [1].

In retrospettiva, la dottrina di Hillary Clinton della “leadership da dietro” appare come un tentativo degli Stati Uniti di testare i limiti che non possono superare, facendo sopportare la responsabilità e le conseguenze ai loro alleati inglesi e soprattutto francesi. Sono questi ultimi che si sono messi in prima fila come leader politici e militari, durante il rovesciamento della Jamahiriya araba libica, e che aspiravano ad esservi di nuovo, nel rovesciare la Repubblica araba siriana, anche se agivano da vassalli e mercenari dell’impero statunitense. Sono quindi Londra e Parigi, più che Washington, che hanno subito una sconfitta diplomatica e ne sopporteranno le conseguenze in termini di perdita di influenza.

Gli Stati del Terzo Mondo non mancheranno di trarre le loro conclusioni dagli avvenimenti recenti: coloro che cercano di servire gli Stati Uniti, come Saddam Hussein, o di negoziare con essi, come Muammar el-Gheddafi, possono essere eliminati dalle truppe imperiali e il loro paese potrà essere distrutto. Al contrario, coloro che resistono, come Assad e costruiscono alleanze con la Russia e la Cina sopravviveranno.

Trionfo nel mondo virtuale, sconfitta nel mondo reale.

Lo scacco del GCC e della NATO mostra un rapporto di potere che molti sospettavano, ma nessuno poteva verificare: l’Occidente ha vinto la guerra mediatica e ha dovuto rinunciare alla guerra militare. Parafrasando Mao Zedong: è diventata una tigre virtuale.

Durante questa crisi, e ancora oggi, i leader occidentali e i monarchi arabi sono riusciti ad avvelenare non solo i loro popoli, ma una gran parte dell’opinione pubblica internazionale. Sono riusciti a far credere che la popolazione siriana si fosse ribellata al loro governo e che questo reprimesse la protesta politica nel sangue. Le reti satellitari non solo hanno creato dei falsi per ingannare il pubblico, ma hanno anche ripreso immagini fabbricate negli studi, ai fini della loro propaganda. In definitiva, il GCC e la NATO hanno inventato e fatto vivere mediaticamente per dieci mesi una rivoluzione che esisteva solo nelle immagini, mentre sul terreno, la Siria si trovava ad affrontare solo una guerra a bassa intensità condotta dalla Legione wahhabita supportata dalla NATO.

Tuttavia, la Russia e la Cina avendo fatto uso, per la prima volta, del loro diritto di veto, e l’Iran avendo annunciato l’intenzione di combattere a fianco della Siria, se necessario, gli Stati Uniti e i loro vassalli hanno dovuto ammettere che se continuavano nel loro piano, sarebbero stati assorbiti in una guerra mondiale. Dopo mesi di estrema tensione, gli Stati Uniti hanno ammesso che stavano bluffando e che non avevano delle buone carte per il loro gioco.

Nonostante un bilancio militare di oltre 800 miliardi di dollari, gli Stati Uniti sono un colosso dai piedi d’argilla. Infatti, se le forze armate sono in grado di distruggere gli Stati in via di sviluppo, sfiniti da guerre precedenti o da embarghi di lunga data, come Serbia, Iraq o Libia, non possono occuparne il territorio, né possono misurarsi con Stati in grado di reagirgli e di portare la guerra in America.

Nonostante le certezze del passato, gli Stati Uniti non sono mai stati una significativa potenza militare. Non sono che intervenuti un paio di settimane dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, contro un nemico già esaurito dall’Armata Rossa, e sono stati sconfitti in Corea del Nord e Vietnam, non sono stati in grado di controllare nulla in Afghanistan e sono stati costretti a fuggire dall’Iraq, per paura di esservi schiacciati.

Nel corso degli ultimi due decenni, l’impero statunitense ha cancellato la realtà umana delle sue guerre e ha comunicato equiparando la guerra ai videogiochi. Su questa base ha condotto campagne di reclutamento, e sempre su tale base ha addestrato i suoi soldati. Oggi, ha centinaia di migliaia di videogiocatori camuffati da soldati. Pertanto, al minimo contatto con la realtà, le loro forze armate vengono demoralizzate. Secondo le proprie statistiche, la maggior parte dei loro morti non cade in battaglia, ma si suicida, mentre un terzo del personale delle proprie forze armate, è affetto da disturbi psichiatrici che li rendono inadatti al combattimento. Lo smisurato bilancio militare del Pentagono non è in grado di compensare le risorse umane al collasso.

I nuovi valori: l’onestà e la sovranità

Il fallimento degli Stati del GCC e della NATO è anche quello dei loro valori. Si presentarono come i difensori dei diritti umani e della democrazia, mentre hanno fatto delle torture un sistema di governo, e la maggior parte di essi sono contrari al principio della sovranità popolare.

Anche se l’opinione pubblica in Occidente e nel Golfo è disinformata su questo argomento, gli Stati Uniti e i loro vassalli hanno avviato dal 2001 una vasta rete di prigioni e centri di tortura segreti, anche sul territorio dell’Unione Europea. Con il pretesto della guerra contro il terrorismo, hanno diffuso terrore sequestrando e torturando più di 80.000 persone. Nello stesso periodo, hanno creato unità per operazioni speciali dotate di un budget di quasi 10 miliardi dollari ogni anno, compiendo omicidi politici in almeno 75 paesi, secondo i propri rapporti.

Per quanto riguarda la democrazia, gli Stati Uniti di oggi non fanno mistero di ciò che non significa ai loro occhi “governo del popolo, dal popolo, per il popolo” nelle parole di Abraham Lincoln, ma solo la soggezione dei popoli alla loro volontà, come dimostrano le parole e le guerre del presidente Bush. Inoltre, la loro costituzione respinge il principio della sovranità popolare e hanno sospeso le libertà costituzionali fondamentali nella creazione di uno stato permanente di emergenza con il Patriot Act. Quanto ai loro vassalli del Golfo, non è necessario ricordare che si tratta di monarchie assolute.

Questo modello, che combina sfacciatamente crimini di massa e discorso umanitario, è stato sconfitto dalla Russia e dalla Cina; gli Stati, il cui bilancio sui diritti umani e la democrazia, per quanto sia molto discutibile, è comunque infinitamente superiore a quelli del GCC e della NATO.

Facendo uso del loro diritto di veto, Mosca e Pechino hanno difeso due principi: il rispetto per la verità, senza la quale la giustizia e la pace sono impossibili, e il rispetto per la sovranità dei popoli e degli stati, senza cui nessuna democrazia è possibile.
E’ tempo di lottare per ricostruire la società umana dopo il periodo di barbarie.

Thierry Meyssan

NOTE:
[1] “Russia and China in the Balance of the Middle East: Syria and other countries (http://www.voltairenet.org/article172518.html)”, Imad Fawzi Shueibi, Voltaire Network, 27 gennaio 2012.

FONTE:
http://www.voltairenet.org/Le-CCG-et-l-OTAN-perdent-leur

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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Discorso di Obama sullo stato dell’Unione

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Attesissimo da amici e nemici, in patria e fuori, l’annuale discorso sullo stato dell’Unione è stato pronunciato dal presidente Obama la sera del 24 gennaio. (Come sempre, per leggerlo in versione integrale è necessaria la conoscenza della lingua inglese: che si faccia parte delle colonie oppure no, la dictamórbida del linguaggio unipolare assume sempre più i connotati di un’autentica dictadura semantica — l’idioma angloamericano ormai è diventato un must, altro che optional…).

A onor del vero, il senso generale e (si potrebbe quasi dire) essoterico dell’allocuzione presidenziale emerge con chiarezza dagli stralci e dai riassunti riportati in italiano da pressoché tutti i giornali: ma, parafrasando McLuhan, la forma è la sostanza — e in questo caso non c’è neanche bisogno di affannarsi troppo a leggere tra le righe: è tutto lì, sotto gli occhi di chi sappia vedere.

A paragone di quello tenuto un anno fa, il discorso del 24 gennaio dimostra chiaramente che Barack Obama ha deciso di cambiare registro — o che il cambiamento gli è stato imposto in qualche modo, con tutta probabilità anche in vista del prossimo appuntamento elettorale. Il nuovo orientamento dello spirito presidenziale si rivela fin dal titolo del discorso: «An America Built to Last», “un’America costruita per durare” — dove è proprio built la parola chiave del messaggio di Obama, perché “costruire” è un verbo molto meno asettico di quanto sembra (e perfino meno innocuo, come vedremo), che ricorre nel documento quattordici volte compreso il titolo.

“Costruire”, etimologicamente parlando, significa “comporre unendo insieme più cose convenientemente”, e, in senso figurato, “ordinare, stabilire” — come dice l’antico Pianigiani: e in questo senso si costruiscono edifici e macchine, o si analizza il costrutto di una frase. Ma esiste un’altra accezione del verbo: ed è quella che attribuisce al termine il senso di “fondare, creare” — ovvero di dar vita a qualcosa che prima non esisteva. Il che naturalmente è implicito nell’atto del costruire, ma non è sempre immediatamente evidente.

E infatti il messaggio presidenziale è ambiguo: si sta parlando di un’America già costruita in modo tale da durare, e nella quale bisogna confidare senza farsi prendere dallo scoramento per una crisi globale ma momentanea; o si sta chiamando a raccolta per costruire un’America destinata a durare, sottintendendo che l’attuale, così com’è messa, rischia di non avere vita lunga?

Probabilmente entrambe le cose, dal momento che tutto questo discorso presidenziale è veramente costruito — e ancora una volta ci soccorre il vocabolario, che alla voce “costruito” recita testualmente: «agg. 1. Nel linguaggio della critica letteraria, di lavoro, libro, romanzo, ecc., non nato tutto d’un getto ma messo insieme pezzo per pezzo, per lo più senza ispirazione, con impegno puramente esterno, di mestiere: romanzo, racconto costruito. 2. fig. Di persona o atteggiamento, innaturale, artificioso, affettato: è una persona c.; ragazzo con un comportamento c.; le sue reazioni erano troppo c. per essere vere.». Come volevasi dimostrare, chioserebbe un matematico.

Non manca proprio niente, nel discorso di Obama: l’elogio delle valorose forze armate, custodi del bene ed esportatrici di democrazia; il ricordo del dopoguerra — quella mondiale finita nel 1945, dico, quando le truppe trionfanti tornate in patria misero da parte le armi per dedicarsi appunto alla ricostruzione (non già delle loro, intatte, bensì delle altrui città ridotte a cumuli di macerie nel resto del mondo: la nazione sotto Dio con una mano dà e con l’altra toglie); l’evocazione dei nonni — sì, anche i presidenti sono stati bambini; l’esempio vivente dei Veri Valori Americani nelle persone di Jackie Bray, mamma single del North Carolina, e Bryan Ritterby, operaio del Michigan — alle prese con le difficoltà, grazie al Vero Spirito Americano e alla saggia amministrazione del presidente in carica sono riusciti a cavarsela brillantemente. E poi l’attacco ai ricchi — “può un milionario pagare le stesse tasse della sua segretaria?”; la rievocazione dei successi nella lotta al terrorismo — l’eliminazione di Osama bin Laden, la “morte” (traduco: “il vergognoso assassinio a sangue freddo”) di Muhammar Gheddafi, l’auspicio per il rinnovamento in Siria, la volontà di bloccare il nucleare iraniano, la messa a punto di misure protettive contro il cyber-terrorismo; la promessa di un futuro migliore per tutti, “cristiani, musulmani ed ebrei”…

Manca la classica torta di mele (l’apple pie) e poi c’è veramente tutto quanto serve per girare un film, con tanti flash-back e la solenne voce narrante mentre sullo schermo scorrono immagini sapientemente evocative dello Spirito della Frontiera e del Sogno Americano, fino all’immancabile happy end: «Ogni volta che guardo quella bandiera, mi ricordo che il nostro destino è cucito insieme, come quelle cinquanta stelle e quelle tredici strisce. Nessuno ha costruito questo paese da solo. Questa Nazione è grande perché l’abbiamo costruita insieme. Questa Nazione è grande perché abbiamo lavorato come una squadra. Questa Nazione è grande perché ci guardiamo vicendevolmente le spalle. … in questo momento che ci mette alla prova, non c’è sfida troppo grande, né missione troppo difficile. Finché resteremo uniti in uno scopo comune, finché manterremo la nostra comune determinazione, il nostro viaggio continuerà, il nostro futuro sarà pieno di speranza, e lo stato della nostra Unione sarà sempre forte».

Poco importa se la frontiera ha valicato da tempo i limiti geografici dell’isola del mondo, e se il sogno americano è diventato ormai un incubo per il resto del pianeta e per una quota crescente di quell’“American people” sempre meno protagonista della vita civile e sempre più vittima del suo governo: come dice un antico proverbio navajo, “stai attento quando parli, perché le tue parole creano un mondo attorno a te” — ed è esattamente questo il senso dell’affabulazione presidenziale, perfettamente in linea col sentire tipico dell’americano medio.

Perché sono gli Americani a stabilire chi è buono e chi è cattivo; sono loro a plasmare il mondo, a dare il nome alle cose, proprio come fece Jahvé e come, a sua immagine e somiglianza, fece Adamo nell’Eden: «Dio chiamò la luce “giorno” e le tenebre “notte”. […] Poi Dio disse: “Vi sia una distesa tra le acque, che separi le acque dalle acque”. Dio fece la distesa e separò le acque che erano sotto la distesa dalle acque che erano sopra la distesa. E così fu. Dio chiamò la distesa “cielo”. […] Poi Dio disse: “Le acque che sono sotto il cielo siano raccolte in un unico luogo e appaia l’asciutto”. E così fu. Dio chiamò l’asciutto “terra”, e chiamò la raccolta delle acque “mari”» (Genesi 1:5-10). «Dio il SIGNORE, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l’uomo gli avrebbe dato. L’uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi» (Genesi 2:19-20).

Chi nomina crea, perché il nome evoca, chiama alla realtà, trae l’ordine dal caos — come si può leggere in qualsiasi testo non già di magia bensì di etnologia, antropologia culturale o storia delle religioni. E sta in questo, forse, il senso delle infinite proclamazioni che tutti i presidenti americani hanno fatto nel corso dei secoli: «in virtù dell’autorità conferita[gli] dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti» (questa è la formula) qualunque presidente americano ha potuto, durante il suo mandato, “ribattezzare” un qualsiasi giorno dell’anno attribuendogli qualità e valenze specifiche che lo risucchiassero dalla quotidianità di un calendario comune, laico per così dire, al fine di proiettarlo in un tempo nuovo, santificato dalla scelta operata in nome e per conto della “nazione sotto Dio”.

Se il leit-motiv del discorso 2011 era “il futuro non è un dono, ma bisogna lottare per conquistarselo”, quello di quest’anno sembra dunque essere “il momento è critico, ma se restiamo uniti possiamo farcela”. Che, con tutta evidenza, non è una dichiarazione d’intenti buona soltanto per gli Stati Uniti: anzi è soltanto questa, forse, la lezione che potrebbe trarne il resto del mondo — se soltanto riuscisse a individuare, una buona volta, il nemico principale.

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Intervista a Sergei Martynov, Ministro degli Affari Esteri della Repubblica di Bielorussia

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Il nostro redattore Stefano Vernole ha intervistato per “Eurasia” il Ministro degli Affari Esteri della Bielorussia, Sergei Martynov, che ringraziamo per la disponibilità e la cordialità mostrate nel rispondere alle nostre domande.

Le domande dell’intervistatore sono in grassetto

Dopo la rielezione del Presidente bielorusso, Alexander Lukashenko, Stati Uniti e Unione Europea hanno adottato all’inizio del 2011 una serie di sanzioni contro la Bielorussia per colpire 157 persone vicine al Capo dello Stato. Addirittura 12 giornalisti bielorussi sono stati inclusi dal Consiglio dell’Unione Europea nella lista delle persone cui è vietato entrare negli Stati membri dell’UE. L’11 agosto 2011 l’Ufficio del Controllo dei Beni Stranieri del Ministero delle Finanze degli Stati Uniti d’America ha imposto sanzioni nei riguardi di quattro aziende bielorusse, violando il Memorandum di Budapest del 1994 (non applicabilità di sanzioni da parte di Washington in cambio dell’impegno di Minsk ad abbandonare volontariamente le armi nucleari). Quali misure ha adottato la vostra nazione per fronteggiare queste sanzioni e quali danni le ritorsioni occidentali hanno provocato all’economia bielorussa?

Infatti, le restrizioni imposte dall’UE e dagli Stati Uniti si trovano sempre in maggiore contrasto con i loro impegni nell’ambito OSCE, a partire dall’Atto Finale di Helsinki del 1975, con gli accordi internazionali vigenti e persino con gli stessi obiettivi dichiarati delle citate restrizioni. Secondo quanto stabilito dal Memorandum di Budapest che ora viene palesemente violato, non solo gli Stati Uniti, ma anche alcuni Paesi comunitari (come, ad esempio, il Regno Unito) si impegnarono di astenersi dalle pressioni nei confronti del nostro Paese.

Va notato che solo un anno fa gli USA confermarono ufficialmente nella dichiarazione congiunta dei capi dei dicasteri di politica estera dei nostri Paesi il loro impegno assunto nell’ambito del Memorandum. Quindi, l’imposizione delle sanzioni nei confronti della Bielorussia è in contrasto con gli obblighi internazionali degli Stati Uniti. Con gli atti del genere gli USA dimostrano un valore reale delle loro garanzie. Probabilmente una simile violazione delle garanzie nei confronti di uno Stato che fu un modello di rinuncia all’arsenale nucleare in suo possesso possa comunicare un segnale profondamente sbagliato ai Paesi che non hanno finora compiuto una simile scelta antinucleare.

Per quanto riguarda le ripercussioni delle sanzioni sull’economia bielorussa, qui si tratta di alcuni elementi semplicemente fastidiosi, piuttosto che di problemi seri. E non solo per la Bielorussia, ma anche per le aziende negli Stati Uniti che avevano un business redditizio con il nostro Paese. Perciò noi consideriamo le sanzioni non solo una leva di pressione economica d’ispirazione politica, ma anche un elemento di concorrenza sleale. Limitando l’accesso di specifici prodotti bielorussi al mercato statunitense, si liberano, pur con metodi amministrativi, le nicchie per i prodotti di altri produttori.
Nell’Unione Europea la situazione è diversa. A prescindere dall’elemento di tensioni politiche, a livello del business si percepisce una netta comprensione. Penso che da questo punto di vista i Governi dell’UE siano molto pragmatici. Tanto più, quando è in atto un’evidente crescita reciprocamente vantaggiosa del commercio bilaterale.

A proposito, durante la crisi finanziaria globale del 2008-2010 non riducemmo il tasso dei nostri programmi d’investimento, anzi, continuammo in modo attivo ad acquistare macchinari europei per la modernizzazione delle nostre imprese, il che fu una delle cause del successivo squilibrio dei nostri scambi commerciali con l’estero e problemi finanziari verificatisi nel 2011. Naturalmente, per l’UE nel suo insieme le vendite in Bielorussia non sono di gran importanza, ma grazie a quei contratti alcune aziende riuscivano a campare. Mentre negli Stati Uniti le aziende che avevano lavorato con noi durante la crisi furono colpiti, per colpa delle sanzioni, da un’ ulteriore scossa.

Noi rispondiamo alle sanzioni come lo farebbe qualsiasi altro Stato che rispetti la propria sovranità e indipendenza. Eppure le nostre risposte non rivestono un carattere ritorsivo, rimanendo comunque nei limiti della legge ed essendo tese a proteggere i nostri interessi anche dall’ingerenza negli affari interni.

Nonostante le sanzioni, lo scorso 31 maggio il Governo e la Banca Nazionale di Belarus hanno lanciato un appello al Fondo Monetario Internazionale per ottenere un prestito. Non vi sembra contraddittorio, alla luce del comportamento degli Stati Uniti, storicamente determinanti nella nomina dei dirigenti e nell’adozione delle linee guida del FMI? Quali sono allo stato attuale i rapporti finanziari tra Minsk, Washington e Fondo Monetario Internazionale?

Si può essere d’accordo sul fatto che storicamente gli Stati Uniti siano determinanti nella nomina dei dirigenti e l’adozione delle linee guida del Fondo. Tuttavia, le decisioni sulla cooperazione del FMI con quel o quell’altro Stato si assumono a livello dei direttori esecutivi espressi dai Paesi-membri. I funzionari con i quali comunichiamo concentrano la loro attenzione soprattutto sulle problematiche professionali e agiscono in conformità con lo Statuto del Fondo.

Per ottenere un prestito, lo Stato deve concordare con il FMI un programma di azione teso al conseguimento degli scopi per i quali si assegnano i fondi. Quindi la Bielorussia, per quanto membro del Fondo, ha il diritto di ricevere un prestito se la situazione economica lo rendesse necessario e se la Bielorussia e il FMI concordassero le condizioni del rispettivo programma.

In via di principio l’ottenimento di un prestito era e rimane possibile per la Bielorussia. Probabilmente, per motivi politici gli Stati Uniti e vari Paesi occidentali, attraverso i loro direttori esecutivi nel Fondo, potrebbero rendere il processo di ottenimento del prestito più faticoso per la Bielorussia. Ma questo costituirebbe una violazione delle disposizioni statutarie del Fondo Monetario Internazionale. Ed è proprio contro simili approcci controproducenti che screditano sia il FMI sia la posizione dei singoli Stati che noi ci stiamo pronunciando in modo coerente.

Mi permetta di ricordare, inoltre, che le sanzioni degli Stati Uniti che a nostro avviso non solo sono ingiuste, ma anche illegali dal punto di vista del diritto internazionale, purtroppo, non sono una novità per la Bielorussia. Nel 2008, sotto le sanzioni degli Stati Uniti che avevano quasi lo stesso raggio di adesso, la Bielorussia e il FMI concordarono comunque con successo l’erogazione di un prestito.
Nel rispondere alla domanda sullo stato attuale delle relazioni finanziarie tra Minsk, Washington e il FMI, vorrei tracciare una distinzione tra i rapporti tra la Bielorussia e il Fondo e quelli tra la Bielorussia e gli Stati Uniti.

Le relazioni dei Paesi con il Fondo, a loro volta, non si limitano alla percezione dei prestiti. Il FMI fornisce anche l’assistenza tecnica – quella meno apparente, ma non meno importante e utile – sotto forma di consulenze al Governo della Bielorussia sui temi di attualità che ci interessano. Insieme al FMI si realizzano vari progetti che portano all’introduzione nelle attività del Governo bielorusso dei metodi e principi più moderni – essi possono essere assai lontani dai concetti generici di “capitalismo/socialismo”, essendo più comprensibili per gli esperti. Per quanto sappiamo, sono proprio gli esperti che valutano la nostra interazione con il Fondo come intensa, efficace, importante e utile per la Bielorussia.

Se vogliamo parlare delle relazioni bielorusso-americane, è ovvio che esse siano molto complicate a causa delle sanzioni. Questa posizione degli USA ci costrinse a reindirizzare le nostre esportazioni verso altri mercati internazionali. Come risultato, ne soffrirono oltre 30 imprese statunitensi che prima avevano lavorato con successo grazie alle importazioni e l’uso dei prodotti provenienti dalla Bielorussia. Ricordiamo che queste sanzioni furono introdotte nel 2007-2008, quando negli Stati Uniti era maturato e scoppiò una crisi economica di tipo sistemico. Come sa, all’epoca il Governo federale degli Stati Uniti versava generosamente miliardi di dollari dei contribuenti americani per salvare gli speculatori finanziari di Wall Street falliti, ma nello stesso tempo con la propria decisione metteva sull’orlo del fallimento alcune imprese americane che grazie alla collaborazione con imprese bielorusse fiorivano, creando posti di lavoro per gli americani, e non avevano mai chiesto a Washington un salvataggio finanziario.

Allo stesso tempo gli uomini d’affari sia in Bielorussia sia negli Stati Uniti hanno un serio interesse reciproco. Nel 2010 fu istituito un Business Council bielorusso-americano, al quale aderirono alcune aziende americane importanti: Caterpillar, Honeywell, Microsoft, Cisco Systems, Navistar. L’interesse per la Bielorussia viene manifestano anche da talune aziende americane – leader mondiali nei loro settori: John Deere (macchine agricoli, industriali e da cantiere) e Allison Transmission (trasmissioni e sistemi di propulsione ibrida per veicoli commerciali). Il software per la borsa londinese o i siti web noti a qualsiasi americano, come Expedia.com o Edmunds.com, si sviluppa ormai non negli Stati Uniti né in India, bensì nel Parco di Alta Tecnologia in Bielorussia. Gli uomini d’affari e gli investitori americani sono interessati alla collaborazione con la Bielorussia e la considerano vantaggiosa.

Il nostro Paese, a sua volta, offre una vasta gamma di condizioni vantaggiose e dei benefici ed è pronto ad allargare la cooperazione con il business americano.

E, naturalmente, i politici a Washington non dovrebbero ostacolare questo processo reciprocamente benefico.

I rapporti tra Mosca e Minsk hanno conosciuto negli anni fasi alterne, condizionati spesso dagli obiettivi differenti dei leader politici dei due paesi, aldilà del legame di fratellanza culturale tra i popoli rimasto sempre forte. Alla luce della probabile rielezione di Vladimir Putin al Cremlino con le consultazioni presidenziali del marzo 2012, come valuta i tentativi dell’attuale Capo del Governo russo di unificare Russia, Kazakhstan e Bielorussia in un’unica entità, l’Unione Euroasiatica? L’Unione Slava, tra Russia e Bielorussia è ancora attiva?

Lo sviluppo della cooperazione con la Russia in ogni settore è una priorità della nostra politica estera, dovuta non solo ai fattori geografici, geopolitici, culturali e storici, ma anche alla complementarità delle due economie e agli stretti rapporti di collaborazione tra le imprese bielorusse e russe. In dieci anni di edificazione della nostra struttura d’integrazione – Stato Alleato – la Bielorussia e la Russia hanno compiuto notevoli progressi nella formazione di uno spazio economico e umanitario comune, unificazione delle legislazioni nazionali, assicurazione della parità dei diritti dei cittadini, coordinamento nei settori della politica estera e sociale, di difesa e di sicurezza.

In effetti, non sempre le relazioni bilaterali tra la Bielorussia e la Russia erano lisce. Eppure non si è mai parlato delle differenze negli obiettivi politici. Le asprezze che talvolta si verificavano nel nostro dialogo erano per lo più causate da alcune questioni irrisolte di tipo economico, il che rappresenta una “retrofaccia” dello stretto legame tra i due Paesi e della natura complessa e multiforme della loro integrazione.

Per quanto riguarda la creazione dello Spazio economico comune, si tratta di un passo logico nello sviluppo dei processi d’integrazione. Nell’ambito dello Spazio economico comune si prevede, ora a livello trilaterale, il coordinamento delle politiche macroeconomiche basate sui principi e sulle regole di concorrenza comuni, la disciplina dei monopoli naturali, gli approcci comuni all’attuazione degli appalti pubblici e al sostegno dell’industria e dell’agricoltura.

In connessione al “lancio”, dal 1° gennaio 2012, dello Spazio economico comune nei media appaiono molti commenti contrastanti circa il futuro delle relazioni di alleanza bilaterale tra la Bielorussia e la Russia.

Voglio sottolineare: noi non abbiamo dubbi circa la sopravvivenza dello Stato Alleato. I Presidenti bielorusso e russo hanno più volte espresso in modo chiaro una loro posizione su quel tema. Il progetto “a due” non è né promozionale né astratto. È un progetto assolutamente pragmatico dal punto di vista degli interessi dei nostri popoli, un progetto che porta i risultati. Nell’ambito dello Stato Alleato vi sono una serie di punti importanti che non sono inclusi nel formato dello Spazio economico comune e sono molto più “avanzati” rispetto alla soluzione “a tre”.

Così, i temi centrali della costruzione dello Stato Alleato sono il rafforzamento della sicurezza e le garanzie della parità dei diritti dei nostri cittadini. Finora i raggiungimenti in queste aree non hanno uguali in altri formati d’integrazione regionale.

La cooperazione militare con la Russia riveste un carattere strategico e svolge un ruolo decisivo nel sistema di garanzie della sicurezza nazionale. La politica di difesa comune, il coordinamento delle attività di sviluppo militare, l’accrescimento efficace della cooperazione tecnico-militare sono fattori importanti nel mantenimento della pace e della stabilità nella regione.

I bielorussi e i russi hanno in pratica le stesse opportunità per l’occupazione, la scelta di residenza, l’istruzione, il che rende il progetto dello Stato Alleato attraente per i cittadini di entrambi gli Stati.
Nel settore economico le direttrici più promettenti sono l’attuazione dei programmi e progetti comuni finalizzati, in primo luogo, all’ammodernamento e alla transizione verso lo sviluppo innovativo delle nostre economie. Qui i settori prioritari sono l’efficienza energetica, le tecnologie dell’informazione, l’aerospaziale e la medicina, nonché lo sviluppo della cooperazione regionale. Il nostro compito è quello di raggiungere le forme ottimali d’integrazione industriale, scientifica e tecnologica, utilizzare il potenziale esistente per la realizzazione dei prodotti competitivi ad alto contenuto tecnologico.

Penso che l’esperienza e i meccanismi di edificazione dello Stato Alleato possano essere molto richiesti in un formato multilaterale. È importante che in futuro lo Stato Alleato e lo Spazio economico comune possano arricchirsi e completarsi a vicenda, operando in modo armonioso per il bene dei nostri popoli.

Nonostante già appartenga alla CSI, alla Comunità Economica Eurasiatica e al Trattato per la Sicurezza Collettiva (CSTO) la Bielorussia è attualmente solo uno Stato interlocutore dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai; intende presto divenirne membro? Il Governo di Minsk ritiene che la SCO possa divenire in futuro un’Organizzazione alternativa alla NATO?

Nell’aderire nel 2009 all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO) come un partner di dialogo, la Bielorussia è ora l’unico paese europeo che faccia parte di questa associazione d’integrazione regionale.

La Bielorussia presta una grande attenzione alla cooperazione con la SCO, sul territorio dei Paesi membri della quale oggi vive oltre un quarto della popolazione mondiale, mentre l’economia del suo maggiore “player” – la Cina – è diventata la seconda al mondo. Stiamo collaborando con la SCO in tutte le principali destinazioni, mentre nel modo più attivo – con le sue agenzie, quali la Struttura antiterroristica regionale, l’Associazione bancaria, il Business Council, il Club energetico, il Forum, il Consiglio dei giovani e l’Università della SCO. La cooperazione tra la Bielorussia e i Paesi membri della SCO si basa sui principi di eguaglianza, reciproca fiducia, rispetto della diversità culturale e il perseguimento di uno sviluppo comune.

La natura dei nostri rapporti è definita nel Memorandum di concessione alla Bielorussia dello status di un partner nel dialogo nell’ambito della SCO.

Il tema di rafforzamento del nostro status nella SCO non è al momento in agenda. Durante le ultime due riunioni del Consiglio dei Capi di Stato della SCO furono firmati i documenti che disciplinano le modalità di ammissione dei nuovi membri. In particolare, gli Stati membri della SCO ritengono che la Bielorussia debba prima acquisire l’esperienza nello status di un partner del dialogo, e solo allora potrà chiedere di essere trasferita verso una nuova qualità. Credo che una simile impostazione sia giustificata. Tuttavia, in futuro la Bielorussia prevede di rafforzare il suo status nella SCO fino al livello dell’osservatore e applicherà a questo fine gli sforzi necessari.

Il confronto tra la SCO e la NATO non è corretto. L’istituzione della SCO fu dovuta alla necessità di contrastare il terrorismo, il separatismo e l’estremismo. Oggi, circa dieci anni dopo la nascita dell’Organizzazione, queste minacce rimangono, anzi, vi si aggiungono altre quali il narcotraffico e la criminalità organizzata transnazionale. Tutto ciò impone ai Paesi membri della SCO un bisogno di rafforzare ulteriormente la cooperazione al fine di consolidare la sicurezza regionale.

Vorrei anche sottolineare come a differenza dalla NATO al momento l’impegno principale della SCO sia concentrato sul versante economico. Infatti, il programma di cooperazione economica multilaterale firmato dai Paesi membri nel 2003 e studiato per 20 anni, prevede come obiettivo a lungo termine l’istituzione di una zona di libero scambio nello spazio SCO, mentre nel breve termine – una significativa intensificazione della concessione delle condizioni favorevoli per lo sviluppo del commercio e della cooperazione nel campo degli investimenti.

Anche se l’Italia ha seguito il resto dell’Europa nell’adozione delle sanzioni contro la Bielorussia, i rapporti economici tra i nostri due paesi stanno leggermente aumentando, anche grazie ad alcuni accordi intergovernativi firmati il 30 novembre 2009 tra l’ex premier Berlusconi e il Presidente Lukashenko. Come valuta le relazioni tra Roma e Minsk con l’avvento del Governo Monti? Quali passi bisognerebbe compiere per poterle allargare e migliorare? I progetti di cooperazione riguardanti l’accoglimento in Italia dei bambini provenienti dalla zona radioattiva di Chernobyl proseguiranno senza problemi?

Gli accordi intergovernativi stipulati il 30 novembre 2009 diedero un impulso determinante alle dinamiche delle relazioni bilaterali tra la Bielorussia e l’Italia che negli ultimi anni si stanno notevolmente accelerando. Grazie a questi accordi fino ad oggi abbiamo quasi completato la formazione di un quadro giuridico importante per la nostra interazione nei settori come la cooperazione economica e umanitaria, l’istruzione, la cultura, la scienza e la tecnologia; siamo riusciti a stabilire una collaborazione costruttiva tra gli organi doganali e di tutela dell’ordine pubblico, nonché tra i dicasteri per la gestione delle emergenze.

Per quanto riguarda la cooperazione economica, negli ultimi anni essa si è sviluppata molto rapidamente. Se nel periodo pre-crisi – dal 2003 al 2008 – il giro d’affari del commercio bielorusso-italiano era più che raddoppiato, ora stiamo rapidamente superando le conseguenze dell’anno di crisi 2009: nel 2011 il nostro giro d’affari è aumentato del 57,2%, raggiungendo $ 1,5 miliardi, le esportazioni bielorusse verso l’Italia sono aumentate di quasi 2,8 volte, mentre la forniture dei prodotti italiani verso la Bielorussia sono accresciute di quasi un quarto. Faccio notare che la Bielorussia rappresenta da sempre un particolare interesse per le aziende italiane: con l’eccezione dell’anno di crisi 2009 le forniture dei prodotti italiani verso la Bielorussia crescevano ogni anno con i tempi a due cifre.

Vorrei porre l’accento: l’interesse di Roma per l’intensificazione della cooperazione con Minsk, in particolare nel contesto della partecipazione del nostro Paese all’Unione doganale e allo Spazio economico comune tra la Bielorussia, il Kazakhstan e la Russia è in armonia con il nostro interesse per il rafforzamento della cooperazione economica con i paesi dell’Unione Europea. Grazie agli accordi politici raggiunti nel 2009 oggi stiamo lavorando intensamente per creare per il business italiano una piattaforma stabile in Bielorussia che possa aiutare la sua espansione sull’intero spazio dell’emergente struttura d’integrazione eurasiatica. A tal fine nel giugno 2011 da me e dal Ministro dello Sviluppo Economico italiano Paolo Romani fu firmato un Memorandum d’intesa sullo sviluppo del distretto industriale italiano sul territorio della Regione di Brest in Bielorussia e nel 2012 Brest ospiterà un ennesimo Forum economico bielorusso-italiano.

Sono convinto che l’espansione della cooperazione tra la Bielorussia e l’Italia sia nell’interesse di entrambi i popoli.

Credo che questa linea possa essere continuata anche nel contatto con il neonominato Governo Monti – da parte nostra siamo pronti per un dialogo reciprocamente rispettoso con i nostri partner italiani su tutto lo spettro dei temi. La parte bielorussa è convinta che anche con l’attuale approccio restrittivo dell’’UE verso la Bielorussia il potenziale per un ulteriore ampliamento della cooperazione tra i nostri due Paesi sia lungi dall’essere esaurito.

Per quanto riguarda i progetti per migliorare la salute in Italia dei bambini bielorussi provenienti dalle zone colpite dall’incidente di Chernobyl, faccio notare che dopo la firma, il 10 maggio 2007, dell’accordo intergovernativo tra la Bielorussia e l’Italia sulle condizioni di risanamento in basse all’assistenza gratuita dei cittadini minorenni bielorussi in Italia gli organismi statali dei due Paesi hanno predisposto tutte le condizioni organizzative e giuridiche necessarie perché questo tipo di cooperazione umanitaria possa continuare a svilupparsi in modo florido.


Almeno fino alla crisi mondiale del 2008, la Bielorussia si collocava tra i Paesi della CSI al secondo posto dopo la Russia quanto a livello di PIL pro-capite e indici del livello di vita, risultati ottenuti grazie al sapiente intervento dello Stato nell’economia, sicuramente molto più efficace delle ricette monetariste adottate da alcune nazioni vicine. A partire dal 2009, però, la bilancia commerciale della Bielorussia ha registrato un grave disavanzo; come intende l’attuale guida del vostro Paese uscire da questa situazione di stallo, aggravata dalla congiunte pressioni che Bruxelles e Washington esercitano affinché l’economia bielorussa conosca una maggiore apertura in senso liberale e privatistico? Il ruolo dello Stato rimarrà prioritario per garantire l’occupazione e l’assistenza sociale?

L’economia bielorussa è orientata verso l’esportazione. Secondo il grado della sua apertura siamo tra i primi dieci Paesi in Europa. Pertanto la crisi finanziaria globale non poteva mancarci. Una situazione instabile sulle piazze finanziarie globali, l’inasprimento della lotta politica interna in alcuni Paesi – nostri partner commerciali, le politiche protezionistiche di alcuni di essi – ecco un elenco di ostacoli, lungi dall’essere completo, che dobbiamo superare insieme con attuali problemi economici interni.

Le ricette su come ripristinare l’equilibrio della bilancia del commercio estero sono da tempo ben note a tutti: inasprire la politica monetaria e creditizia come quella fiscale e di bilancio, aumentare le esportazioni, effettuare privatizzazioni e attrarre investimenti dall’estero.

Non bisogna, però, definire la situazione economica in Bielorussia come “una via senza uscita”, piuttosto si tratta di un’instabilità temporanea, tanto più che l’andamento del commercio estero dimostra una tendenza positiva.

Nel 2011 le esportazioni di merci e servizi bielorussi aumentarono del 54,2%, cioè di 16,2 miliardi di dollari (innanzitutto grazie all’aumento dei volumi fisici delle vendite). Le forniture dei beni dalla Bielorussia al mercato dell’UE salirono della metà (di 8,1 miliardi di dollari), mentre il surplus degli scambi con i paesi comunitari era pari a 7 miliardi di dollari (nel 2010 – 50 milioni di dollari).

In generale si registra la riduzione del disavanzo del commercio estero dei beni e servizi. Nel 2011 esso diminuì rispetto all’anno 2010 di 5,3 miliardi di dollari ed era pari a 2,2 miliardi di dollari.

Nel 2012 la Bielorussia prevede di raggiungere un saldo positivo nel commercio estero dei beni e servizi, modificando la struttura delle esportazioni – aumenteremo le vendite dei prodotti innovativi e science-intensive ad alto valore aggiunto. A tal fine sarà condotta la modernizzazione accelerata dell’economia nazionale. Dobbiamo garantire la strada innovativa di sviluppo della nostra economia non solo attraverso la partecipazione degli investitori strategici al processo della privatizzazione, ma anche attraverso la creazione delle nuove industrie che coinvolgeranno le multinazionali con i brand globali. Per uno sviluppo equilibrato ci vuole una maggiore efficienza della spesa di bilancio e dei finanziamenti per l’economia, la corrispondenza tra i tempi di crescita dei salari e quelli di aumento di produttività del lavoro.

In Bielorussia sono in corso ampie riforme volte alla liberalizzazione dell’economia e a una sua maggiore attrattività per gli investimenti. Negli ultimi cinque anni la Bielorussia è stata uno dei Paesi-riformatori più attivi al mondo e fa parte dei tre Paesi guida a livello mondiale per l’effetto cumulativo prodotto dalla liberalizzazione sulle condizioni per le attività d’affari.

Nel 2012 si prevede di completare la trasformazione in società per azioni di tutti gli enti a socio unico nazionali e comunali, la vendita al popolo delle quote di minoranza in aziende bielorusse, l’armonizzazione degli standard nazionali con quelli internazionali ed europei. Continuerà inoltre il processo di perfezionamento della legislazione fiscale – tra l’altro, già dal 1° gennaio 2012 il tasso dell’imposta sugli utili è stato ridotto dal 24 al 18%.

Per quanto riguarda il ruolo dello Stato nel garantire l’occupazione e la previdenza sociale per la popolazione, naturalmente, esso resterà prioritario. Ciò è previsto, in particolare, dal Programma di sviluppo socio-economico della Bielorussia per il periodo 2011-2015, il cui obiettivo principale è aumentare la prosperità e migliorare le condizioni della vita dei nostri cittadini.

Nella sua politica socio-economica la Bielorussia si basa sul principio della continuità delle priorità che hanno lavorato bene negli ultimi 15 anni. Pertanto lo Stato continuerà a garantire un’occupazione efficace della popolazione. Alla sua base ci sarà la modernizzazione dei posti di lavoro esistenti e creazione di quelli nuovi, il miglioramento della qualità e le garanzie di accessibilità dei servizi sociali, un avvicinamento graduale della Bielorussia ai livelli dei Paesi europei sviluppati per quanto riguarda il livello dei salari.

La guerra alla Libia di Gheddafi e le sanzioni contro la Siria confermano che Stati Uniti ed Unione Europea tendono a voler “normalizzare” tutte quelle situazioni geopolitiche che sembrano sfuggire al controllo dell’Occidente e dell’Alleanza Atlantica. La Bielorussia continuerà anche nei prossimi anni a “battersi” nell’arena internazionale per l’affermazione di un mondo multipolare, basato sul dialogo e sulla cooperazione tra le civiltà?

La Sua stessa domanda già contiene in sé un’affermazione importante. Quella era proprio una guerra contro la Libia di Gheddafi – sostanzialmente contro un leader politico che aveva condotto una politica interna ed estera troppo indipendente dall’Occidente. Una guerra sanguinosa e brutale, senza tener conto di numerose vittime tra la popolazione civile, con molteplici violazioni del diritto umanitario internazionale. Cioè dalla parte dell’Occidente mancava appunto l’umanismo e la tutela della gente. Mentre la guerra stessa iniziò con un trucco diplomatico-militare studiato per ingannare il pubblico mondiale. Perché non era segreto che la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU “caldeggiata” dall’Occidente fosse solo una copertura per i bombardamenti della NATO, comprese quelle delle città e obiettivi civili.
Spero davvero che gli eventi in Siria non siano altrettanto drammatici e devastanti.

Questi esempi dimostrano come l’affermazione pratica del principio del mondo multipolare, infatti, possa contribuire allo sviluppo sostenibile della comunità internazionale nel rispetto del diritto internazionale e in condizioni di una giustizia relativa. Sono convinto che la maggioranza dei Paesi stia appoggiando proprio questo sistema di relazioni internazionali. Perché lì non vi è posto per chi cerca di svolgere il ruolo di un poliziotto internazionale. Inoltre, nelle condizioni instabili di un mondo unipolare l’umanità è semplicemente incapace di far fronte alle sfide globali di oggi. Esse possono essere risolte solo attraverso partenariati globali – con uno sforzo congiunto, tutti insieme, con un’agenda che unisce e non divide né provoca scontri. La Bielorussia sostiene la formazione proprio di quel modello policentrico del mondo, in cui non vi sia luogo per una dominazione di qualsiasi Stato singolo o di un piccolo gruppo di Stati che perseguono i propri obiettivi ristretti.

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Aggiornamenti sulla situzione in Siria – 9 febbraio 2012

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I gruppi terroristici armati proseguono nelle loro azioni criminali ad Homs, tese a colpire civili e militari, ad attaccare le istituzioni economiche e le proprietà pubbliche e private e a terrorizzare i cittadini.
Ieri è stata oggetto di colpi di mortaio l’azienda pubblica della raffineria di Homs, dove alcuni serbatoi di carburante hanno preso fuoco. Anche l’Università Baath della città è stata attaccata con colpi di mortaio, che hanno per fortuna causato solo danni materiali, mentre l’esplosione di un’autobomba, nel quartiere di Bayada, ha causato la morte di alcuni civili e di membri delle forze dell’ordine e il ferimento di altri.
Altri civili e membri delle forze dell’ordine sono morti in seguito all’esplosione di alcuni ordigni nel quartiere di Baba Amro e ai colpi di mortaio e RPG sparati sia nel quartiere che in quelli circostanti.
In varie zone della città le bande criminali hanno depredato molte case, distruggendo i mobili e portando via quello che potevano, mentre diverse auto sono state rubate.
A Telkalkh è stata invece saccheggiata la scuola del villaggio di al-Nauura, da cui sono stati portati via dieci computer, mentre un’altra banda ha aggredito le forze dell’ordine nel quartiere di al-Nazhen, uccidendo un agente e ferendone altri quattro.
Gli abitanti di Homs hanno raccontato le atrocità commesse contro la loro città dai terroristi, affermando che costringono le persone ad abbandonare le proprie case, uccidono bambini, donne, uomini e vecchi e prendono di mira le panetterie, gli enti per i servizi e le istituzioni economiche, oltre a riempire di esplosivo gli edifici per farli poi esplodere, lanciando colpi di mortaio e RPG sui quartieri e sparando con le mitragliatrici.
Gli abitanti hanno chiesto l’intervento dell’esercito e delle forze di sicurezza per assicurare la protezione dei civili e catturare i membri dei gruppi terroristici, che impediscono loro di muoversi e vivere normalmente.

Le autorità hanno sequestrato, dopo aver inseguito alcuini terroristi nel quiartiere di Baba Amro, fucili ad alta precisione e velocità di fabbricazione americana e israeliana, oltre a bombe a mano, cariche esplosive, razzi RPG e di mortaio a media gittata e razzi di tipo LAU di fabbricazione israeliana.

In seguito ad un attacco contro le forze dell’ordine a Maarat al-Naaman, le autorità si sono scontrate con le bande armate, uccidendo Abdul-Aziz al-Basha, Jamil Qusra e Samer Saidfra, che erano fra i più pericolosi terroristi ricercati per reati di omicidio, aggressione e sabotaggio nella regione.

Ad al-Rastan, in provincia di Homs, un gruppo armato ha fatto esplodere la palestra cittadina, senza causare vittime, mentre la cittadina Rula Ibrahim Khalf è rimasta ferita a causa dei colpi di arma da fuoco sparati contro la sua auto nel villaggio di al-Hawash, sempre in provincia di Homs.

Nella periferia di Idleb, ad Ariha, alcuni membri delle forze dell’ordine sono rimasti feriti dai colpi sparati da una banda armata contro il centro di reclutamento della regione. Una fonte della provincia ha dichiarato che le autorità sono intervenute ingaggiando uno scontro a fuoco con i terroristi, alcuni dei quali sono stati uccisi o feriti, mentre altri sono riusciti a fuggire.
La stessa fonte ha anche aggiunto che un altro gruppo armato ha sequestrato ieri 36 veicoli che venivano trasportati su locomotive a Maarat al-Naaman, bloccando le locomotive con la minaccia delle armi e portando le auto in un luogo sconosciuto.

Una fonte ufficiale ha smentito quanto trasmesso dai media che partecipano allo spargimento di sangue siriano, secondo cui le città di Idleb e Ariha sarebbero state oggetto di bombardamenti da parte dell’esercito, assicurando che tali notizie sono assolutamente false e sono state piuttosto le bande di terroristi armate ad aprire il fuoco sui cittadini e aggredirli, bloccando le strade e prendendo di mira le proprietà private e pubbliche, come nel caso del centro di reclutamento di Ariha. La fonte ha aggiunto che le autorità ad Idleb sono invece impegnate a garantire la sicurezza dei cittadini e a fermare le aggressioni dei terroristi, dando loro la caccia.

Gli artificieri hanno disinnescato diversi ordigni collocati dalle bande armate fra le case e lungo la strada fra al-Zabadani e Madaya.
A Latakia è stato disinnescato un altro ordigno di un chilo e mezzo che era stato collocato sotto la macchina dell’insegnante Gheda Jablawi, direttrice della scuola femminile del lungomare meridionale. La bomba era stata riempita con C4 altamente esplosivo, una sostanza notoriamente prodotta all’estero, ma non in Siria, e il cui maggiore produttore nella regione è l’entità di occupazione israeliana.
L’insegnante ha dichiarato che i terroristi cercano di sabotare il Paese, impedendo il cammino del progresso e dello sviluppo, impedendo ai bambini di andare a scuola.

In provincia di Daraa i terroristi hanno rapito ieri diversi cittadini nel villaggio di Tseil. Le autorità sono riuscite a liberarli in collaborazione con i residenti della regione solo diverse ore dopo il rapimento.
Nel villaggio di Nahte è stata invece bruciata la casa del cittadino Abd AlHamid Tah, contro cui erano prima stati sparati alcuni colpi di arma da fuoco, causando gravi danni materiali a ciò che c’era all’interno. L’intervento delle forze dell’ordine e la loro risposta ai gruppi terroristici, secondo quanto affermato dal proprietario dell’abitazione, è stato ciò che ha salvato i suoi sei figli dalla morte nell’incendio.

In provincia di Homs le bande di terroristi hanno preso d’assalto l’ospedale al-Naimi, depredandolo delle attrezzature mediche e dei mobili. Il Ministero della Salute ha diffuso un comunicato in cui condanna fortemente tale atto terroristico, che ha il solo scopo di togliere ai cittadini, specialmente a quelli malati di Homs e Hama, il diritto ai servizi sanitari gratuiti, e ha chiesto una condanna anche da parte di tutte le organizzazioni umanitarie e internazionali che lavorano nel settore sanitario, perchè rifiutino tali atti criminali che prendono di mira gli enti sanitari e i quadri medici.
Il Ministero inoltre ritiene responsabile di tali azioni tutti coloro che, dall’estero, forniscono finanziamenti, incitamento e armi ai gruppi terroristici armati, dando loro ogni tipo di supporto per colpire le infrastrutture, compresi gli ospedali pubblici e privati, i centri sanitari, il sistema di ambulanze e i quadri medici.

Fonte: Ambasciata siriana a Roma

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Pechino scopre in Berlino un alleato vulnerabile

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La visita di due giorni della Cancelliera tedesca Angela Merkel in Cina la scorsa settimana è coincisa con notevoli progressi nella cooperazione bilaterale nonostante la persistente divergenza relativa a diverse questioni, tra cui l’Iran.

Come ha dichiarato il Presidente Hu Jintao durante l’incontro dello scorso venerdì con la Merkel, la visita di quest’ultima cementa “la fiducia e la sintonia” tra i due Paesi.

I tempi della visita della Merkel rendono bene l’idea di come i due Paesi prestino grande attenzione alla cura delle relazioni bilaterali. La Cina è il primo Paese extraeuropeo che la Merkel visita quest’anno, e la Merkel stessa è in assoluto il primo leader straniero che i dirigenti cinesi hanno incontrato nell’Anno del Dragone.

Nel corso del suo incontro con Hu la Merkel non ha mancato di sottolineare come in Germania questo sia l’Anno della Cultura Cinese e come la Cina sia l’ospite d’onore dell’annuale fiera espositiva Hannover Messe.

In occasione di un incontro separato tenuto giovedì con la Merkel, il Premier cinese Wen Jiabao ha reso noto che la Cina potrebbe decidere di contribuire al fondo europeo salva-Stati, anche se non ha fornito le cifre esatte del contributo economico. “La Cina sta analizzando e sta valutando attraverso il Fondo Monetario Internazionale (FMI) le vie più indicate per essere coinvolta più profondamente nella soluzione definitiva della crisi dei debiti sovrani europei usando i canali preposti dal Meccanismo Europeo di Stabilità/Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria”, ha detto Wen nel corso di una conferenza stampa congiunta con la Merkel.
La visita cinese della Merkel è solo l’ultima di una lunga serie negli ultimi due anni. La frequenza con cui i rappresentanti ufficiali dei due Paesi fanno la spola tra Pechino e Berlino mette bene in luce come i legami tra le due maggiori Nazioni esportatrici al mondo non siano mai stati tanto stretti, e come i due Stati non abbiano mai avuto tanti interessi strategici in comune come oggi.

Apparentemente Pechino considera il miglioramento delle proprie relazioni con la Germania, leader economico dell’eurozona, come la chiave di volta per intensificare i rapporti con l’UE. Il fatto che Wen abbia annunciato il possibile soccorso cinese all’Europa proprio in occasione della visita della Merkel non è certo una semplice coincidenza.

Prima di lasciare la Cina la Merkel ha poi osservato come la sua amministrazione stesse attualmente adoperandosi per implementare gli accordi di cooperazione strategica tra i due Paesi in una serie di campi che vanno dallo sviluppo tecnico, all’economia, al sistema legale fino alla tecnologia agricola. Presso l’Accademia Cinese delle Scienze Sociali ha dichiarato: “Oggi possiamo parlare a pieno titolo di una partnership di cooperazione strategica, vista la nostra stretta collaborazione in diversi settori. Oggi arrivo qui proprio nella speranza di consolidare ulteriormente tale cooperazione”.

Soltanto tre mesi prima del viaggio della Merkel in Cina (il quinto da quando ha assunto la carica istituzionale nel 2005), il Ministro degli Esteri cinese Yang Jiechi si trovava a Berlino per il secondo appuntamento del dialogo strategico sino-tedesco tra i rispettivi Ministri degli Esteri. In quell’occasione ha dichiarato:

“Il Mondo Moderno sta vivendo un periodo di profondi cambiamenti. La comunità internazionale deve prestare sempre maggiore attenzione nei confronti di temi quali cooperazione e sviluppo. Sebbene l’Europa stia attualmente vivendo dei momenti difficili, essa rappresenta ancora uno degli attori più importanti sulla scena internazionale. Cina e Germania rafforzano i loro rapporti di cooperazione bilaterale, e la loro rispettiva influenza sugli eventi globali è in continua crescita. Entrambi i Paesi dovrebbero sfruttare la situazione globale e le occasioni uniche che ci si presentano per il futuro sviluppo delle relazioni bilaterali per promuovere senza sosta l’accrescimento stabile e a lungo termine della partnership strategica tra i due Stati”.

Il dialogo strategico, la cui prima tornata si è svolta lo scorso aprile a Pechino, rappresenta solo la punta della fitta e profonda serie di scambi di visite ufficiali in corso tra i due Paesi.

Nel gennaio 2011, il Vice Primo Ministro cinese Li Keqiang, favorito per succedere a Wen Jiabao nella veste di premier a inizio 2013, è stato in visita a Berlino. Il Vice Cancelliere e Ministro degli Esteri Guido Westerwelle ha visitato Pechino tra marzo e aprile dell’anno passato. E’ di tutta evidenza come le relazioni sino-tedesche vivano uno stato di salute decisamente buono dopo avere toccato il punto più basso nel corso del 2008.

I rapporti tra Cina e Germania avevano raggiunto la massima freddezza nel 2008, dopo che la Merkel nel 2007 aveva incontrato il Dalai Lama (la massima autorità spirituale del Tibet attualmente in esilio). Berlino aveva anche offerto il suo sostegno indiretto al Movimento per il Tibet Libero e aveva deciso di boicottare la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici Estivi di Pechino nel 2008 adducendo a motivazione il sostegno cinese al regime del Sudan, che Berlino accusava di genocidio.

La crisi era giunta dopo che la Merkel si era recata in visita ufficiale in Cina nel 2007, facendo sorgere la speranza di un roseo futuro per le relazioni sino-tedesche sulla scia dell’operato dei suoi predecessori, Helmut Kohl e Gerhard Schroeder. Questo però non le impedì di virare ben presto verso una diplomazia “orientata dai valori” come esplicitato nella relazione strategica sull’Asia presentata dal suo partito nel 2007.

Pechino giudicò mosse ostili l’incontro della Merkel col Dalai Lama e le iniziative prese dall’amministrazione tedesca; in risposta rimandò o cancellò del tutto una serie di visite ufficiali, incontri e forum di cooperazione bilaterale. Le relazioni non ritornarono a livelli normali fino a quando la Merkel non rilasciò alcune dichiarazioni che correggevano il tiro a margine del summit Asia-Europa tenutosi nell’ottobre del 2008 a Pechino.

Le relazioni sino-tedesche ritornarono gradualmente ai livelli standard, tanto che oggi Berlino appare l’alleato informale di Pechino in Europa (specialmente per quel che riguarda gli affari internazionali), e Pechino sembra dal canto suo l’alleato strategico di Berlino nel continente asiatico.

Questa evoluzione nei rapporti tra i due Paesi è arrivata senza alcun cambio delle rispettive classi dirigenti ai vertici, a dimostrazione che i due Stati hanno trovato un terreno d’incontro comune sebbene Berlino non abbia abbandonato la sua Strategia Asiatica “orientata dai valori”.

Ci sono diversi elementi concreti alla base dei passi in avanti della “partnership strategica” tra Cina e Germania.

Il più importante è probabilmente quello dei legami economici e degli interessi finanziari in comune. Si stima che il volume di interscambio commerciale tra Cina e Germania sia destinato a raggiungere i 160 miliardi di dollari quest’anno, in crescita rispetto ai 142 dell’anno passato, e pari a un terzo del volume totale del commercio della Cina con l’Unione Europea. Ciò mette chiaramente in luce come i due Paesi siano diventati ancora più dipendenti dai mercati dell’altro, in particolare in un periodo di recessione economica globale come quello presente in cui poi l’UE è sottoposta alla forte pressione della crisi interna dei debiti sovrani.

Dal momento che l’UE assorbe il 60% delle esportazioni tedesche, la Germania (in quanto economia fondamentalmente basata sull’export) ha dovuto sondare il terreno alla ricerca di nuovi mercati. La Cina è divenuta naturalmente la destinazione ideale per i prodotti tedeschi. Anche la Germania da parte sua costituisce un importante mercato di riferimento per la Cina, nonché partner di rilievo nel settore della cooperazione tecnologica.

Pechino e Berlino hanno inoltre posizioni simili in tema di affari economici internazionali. Sia la Cina che la Germania si oppongono a forme di protezionismo, in costante crescita per via dei dazi doganali diretti o indiretti che diversi Paesi adottano per “tutelare” i propri mercati interni.

I due Stati sono accomunati anche da visioni comuni in politica estera. Nel marzo del 2011 sia Pechino che Berlino si sono astenute dal votare la Risoluzione 1973 delle Nazioni Unite che sosteneva l’imposizione di una no-fly zone sulla Libia. Atteggiamento analogo tenuto anche nelle settimane seguenti nei confronti dell’azione militare intrapresa contro il regime di Tripoli dalla North Atlantic Treaty Organization (NATO) col sostegno degli Stati Uniti d’America.

Punti di vista simili sui maggiori temi internazionali hanno anche indotto i rappresentanti diplomatici dei due Paesi ad esprimere apprezzamento e sostegno reciproco nei loro confronti, nonostante tali prese di posizione siano fondate su concezioni ideologiche totalmente differenti. E’ interessante notare a tal riguardo come il Cancelliere tedesco Merkel abbia ricevuto la nomina come candidata al premio Confucio per la Pace (riconoscimento nato dall’iniziativa di un privato in risposta al Premio Nobel per la Pace) per essersi opposta all’attacco aereo della NATO in Libia.

Lo scorso giovedì Wen ha affermato che Cina e Germania dovrebbero operare congiuntamente in risposta ai temi della crisi finanziaria internazionale e dei debiti sovrani europei. Se l’offerta di aiuto della Cina in merito alla crisi del debito europeo potrebbe essere più retorica che concreta (Wen ha fatto notare come spetti all’Europa risolvere la propria crisi interna, anche se la Cina continuerà a sostenere la stabilità dell’Euro), resta il fatto che l’annuncio del sostegno cinese al piano di salvataggio è rilevante per lo sviluppo della partnership strategica.

E’ fondamentale che la Germania, in quanto leader di punta dell’economia dell’eurozona, cerchi il sostegno di altri Paesi per la risoluzione della crisi attuale, dal momento che ogni successo in tal senso andrebbe a rafforzare la leadership di Berlino all’interno della UE. Ciò ha un suo significato particolare anche perché Pechino non si affida più alla tattica del “divide et impera” nel suo approccio alla politica europea (cosa che faceva quando raffreddava i rapporti con uno Stato stringendo contemporaneamente quelli con un altro).

Per la Cina intrattenere oggi buoni rapporti con la Germania significa intrattenerli con l’Unione Europea, che considera attore di vitale importanza nella lotta per arrivare a un mondo multipolare e alla fine dell’egemonia statunitense.

Mentre gli USA procedono nella loro strategia di “ritorno in Asia” e la Cina viene messa sotto pressione dai Paesi confinanti alleati di Washington, garantirsi buone relazioni con l’UE attraverso buone relazioni con la Germania può contribuire in maniera positiva a sconfiggere i disegni statunitensi per isolare la Cina sullo scenario globale.

Se da un lato Berlino può beneficiare del mercato cinese in costante crescita e della cooperazione economica, dall’altro la Cina può beneficiare della Germania e dell’Europa sul piano economico e su quello politico. In altre parole: una Cina in rapido sviluppo e un’Europa forte e unita hanno potenzialmente diversi interessi in comune.

Questo matrimonio apparentemente sereno non è comunque costruito unicamente su basi solide, se si considera il rischio legato a scontri valoriali e ideologici.

Una volta che la crisi del debito nella UE sarà stato risolto e l’Occidente si sarà risollevato dalla sua crisi odierna, potrebbe riemergere e tornare in primissimo piano il “vecchio” spirito di critica dell’Europa verso Pechino su diritti umani, protezionismo commerciale e diritti sulla proprietà intellettuale. Ritornerà prepotentemente sulla scena l’obiettivo strategico dell’Europa di “allineare” o “normalizzare” (leggasi “occidentalizzare”) la Cina. Va poi detto anche che le relazioni atlantiche tra Stati Uniti ed Europa resteranno sempre più salde rispetto a quelle di quest’ultima con la Cina.

A questo scenario generale si aggiunga poi il conflitto di interessi euro-cinese per quanto attiene tre settori di competenza principali: l’alta tecnologia (la Cina sta velocemente colmando il divario che la separa dall’Occidente), l’export su scala globale e il mercato delle risorse naturali (soprattutto provenienti dai Paesi in via di sviluppo). Questo significa di non doversi aspettare che la Cina possa in futuro continuare a mantenere una partnership accomodante e priva di problemi con la Germania e l’Europa senza ostacoli di alcun tipo. I punti di vista condivisi e gli interessi in comune tra le parti sono tante quante le loro divergenze.

Per questa ragione Cina e Germania devono necessariamente stabilire i propri legami per lo sviluppo nel lungo termine sulla base di considerazioni pragmatiche e razionali. Lasciare che l’emotività abbia la meglio sulla diplomazia può avere potenzialmente ricadute pesanti in uno scenario internazionale complesso come quello attuale.

Dottor Jian Junbo, ricercatore universitario dell’Istituto di Studi Internazionali dell’Università di Fudan, in Cina, attualmente assistente accademico in visita presso la London School of Economico and Political Sciente nel Regno Unito.

(Copyright 2011 Asia Times Online (Holdings) Ltd.).

Traduzione di Alessandro Iacobellis

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Aleksandr Dugin, Russia segreta

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Sotto il titolo “Russia segreta” si trovano riuniti quattro saggi del prof. Aleksandr Dugin, del Comitato Scientifico di “Eurasia”.

Nel primo saggio, “Il fattore metafisico nel paganesimo”, viene mostrato come la contrapposizione fra monoteismo e paganesimo sia relativa, poiché il paganesimo, in molte sue manifestazioni, non esclude né la dottrina dell’unità divina né la trascendenza.

Il secondo saggio, “Il complotto ideologico del cosmismo russo”, prende in esame una “ideologia occulta” che fece la sua apparizione in Russia nella prima metà dell’Ottocento ed ebbe una parte importante nella genesi della mentalità sovietica.

Nel terzo saggio, “L’Isola del Tramonto”, l’autore applica i criteri del simbolismo geografico al continente americano.

Nell’ultimo, infine, viene delineato il ruolo della Siberia in relazione al destino dell’Eurasia.

http://www.insegnadelveltro.it/libreria/?p=1806

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Marilina Veca, “Cuore di lupo”, Kimerik, 2011

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La nuova edizione di Cuore di lupo, meritoria opera della giornalista italiana Marilina Veca, forse troverà maggior fortuna della prima, grazie all’eco mediatico suscitato recentemente dai crimini commessi in Kosovo e Metohija dal “gruppo di Drenica” dell’UCK.
Il testo conta anche sulla traduzione in serbo, compiuta dall’attuale Ambasciatrice in Italia, Ana Markovic.
La luce su questa vergognosa pagina delle guerre balcaniche è stata accesa, finalmente, dal Rapporto sulla violazione dei diritti umani in Kosmet, presentato dal coraggioso senatore svizzero Dick Marty al Consiglio d’Europa nel 2011.
Come giustamente sottolinea nella prefazione l’ex Ambasciatrice serba a Roma, Sanda Raskovic-Ivic, “era noto che in Kosovo e Metohija sparirono, dalla primavera del 1998 (cioè ben prima che Slobodan Milosevic inviasse nella provincia serba la polizia per mettere fine alle violenze dell’UCK e ben prima che si riaccendesse il conflitto che servì da pretesto per i bombardamenti della NATO sulla Federazione Jugoslava n.d.r.) all’inverno 2001 (cioè quando le forze della coalizione internazionale avrebbero dovuto far rispettare l’ordine pubblico n.d.r.), 1.300 serbi e non albanesi”.
Dei rapimenti, testimoniati da diversi rapporti internazionali, scrivemmo parecchio tempo fa in pochissimi (tra questi proprio Marilina Veca) (1).
A distanza di 10 anni conosciamo la sorte di quelle povere persone: “Purtroppo, all’orrore del commercio degli organi umani non partecipano solamente terroristi e psicopatici appartenenti al cosiddetto Esercito di Liberazione del Kosovo. Sono coinvolti anche medici, infermieri, e altre persone rinomate, insomma gente perbene”, sottolinea giustamente la Raskovic (2).
Per questa ragione “lo stesso titolo Cuore di lupo è simbolico! Sappiamo da tante storie e leggende che uno dei principali animali totemici per i serbi è il lupo, Vuk! Ecco perché, anche ai propri figli, i serbi danno il nome di quest’animale. Perché sopravvivano”.
Lo straziante libro di Marilina Veca, utilizzando nomi di fantasia, ci narra le storie vere di quattro famiglie serbe e della loro disperazione: i loro uomini, Dragan, Dejan, Milan, Srdjan sono stati rapiti e usati come cavie da laboratorio, i loro organi sono stati espiantati e venduti al mercato nero.
Daniel, un ragazzino la cui famiglia appartiene alla più classica borghesia francese, attende, apatico, un nuovo cuore che gli permetta di avere una vita “normale”.
In mezzo, l’impotenza delle donne serbe che invano chiedono aiuto alla miriade di organizzazioni internazionali e ai militari che affollano ancora oggi il Kosovo e Metohija alla ricerca di un facile stipendio, l’imbarazzo e la vergogna dei tanti albanesi che vorrebbero aiutarle ma che si trovano anch’essi prigionieri a casa propria.
Migliaia di soldati della KFOR che non riescono a controllare una regione grande quanto l’Abruzzo, con l’evidente scopo di punire chi ha osato sfidare l’Alleanza Atlantica, gendarme del mondo a stelle e strisce.
Ma anche perché le complicità occidentali sono tante: nel 2002 la tv dell’Iraq occupato dagli atlantici ci ha mostrato “un certo sceicco Behramin che si vantava del suo nuovo cuore trapiantatogli in Turchia. Lo sceicco disse sorridendo che gli dispiaceva una cosa sola: il cuore che batteva nel suo petto era serbo… D’altro canto non era necessario avere a disposizione un grande centro chirurgico per l’espianto, per strappare il cuore ad un giovane serbo e metterlo nell’apposito trasportatore. Bastava una baracca dietro una certa casa gialla e bastava un elicottero con i motori accesi. Tutto il resto si svolgeva altrove …” (3).
Dopo il rapporto Marty nessuno può far finta di non sapere”, scrive Falco Accame, ma in quello che si autodefinisce il “migliore dei mondi possibili” non crediamo sia possibile avere giustizia e riteniamo che gli esponenti della “comunità internazionale” si apprestino a chiudere la vicenda con il minor clamore possibile.
Costoro farebbero però bene a tenere a mente le parole del grande San Sava, primo arcivescovo ortodosso e primo scrittore della letteratura serba, rappresentante di questo popolo presso il Signore nella tradizione: “Perdoniamo, ma non dimentichiamo!”.
I serbi perdonano ma non dimenticano”, ribadisce Dragan Mraovic nel libro; noi sicuramente non dimenticheremo, ma non essendo serbi, allo stesso tempo, non perdoneremo.

1) Marilina Veca, Il Kosovo perduto, Edizioni Interculturali, Roma, 2003. Stefano Vernole, La questione serba e la crisi del Kosovo, Noctua, Molfetta, 2008, pp. 144-145.
2)Sui coinvolgimenti internazionali si legga: Steve Brady, Kosovo, dietro il traffico di organi spunta l’ombra di Israele, www.statopotenza.eu 24 dicembre 2011.
3) Dragan Mraovic, Cuore di lupo, pp. 96 e 104

 

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Siria. Guerra mediatica

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Prima parte

Come si usano i neonati di Homs.

La tempesta mediatica imperversa sulla Siria. I cosiddetti Comitati di coordinamento locale (Lcc), appartenenti all’opposizione, hanno detto alla tivù del Qatar Al Jazeera che almeno 18 neonati sarebbero morti nelle incubatrici dell’ospedale pediatrico al Walid perché i colpi di artiglieria pesante dell’esercito siriano contro il centro di Homs avrebbero causato un black-out elettrico, togliendo l’alimentazione agli apparecchi. Il governo nega e sostiene che gli ospedali funzionano correttamente; anzi insieme a molte altre denunce circa atti di violenza e sabotaggio compiuti da gruppi armati, riferisce che l’ospedale al Naimi in provincia è stato preso di mira da gruppi armati che l’hanno saccheggiato.

La notizia sui 384 bambini uccisi in Siria era già stata diffusa dall’agenzia Reuters il 27 gennaio (http://blogs.reuters.com/stephanienebehay) ma – curiosamente – è esplosa sui massa media solo il 7 febbraio, cioè dodici giorni dopo, ovvero quando l’escalation politico-mediatica sulla Siria aveva trovato una doppia difficoltà con l’occultamento del rapporto degli Osservatori della Lega Araba che era venuto alla luce e con Russia e Cina che avevano posto il veto al Consiglio di Sicurezza sulla risoluzione contro la Siria. Inoltre nel report ufficiale delle Nazioni Unite, la responsabile dell’Unicef Marixie Mercado riporta testualmente qual è la fonte delle sue informazioni e cioè che “secondo le organizzazioni siriane dei diritti umani oltre 400 bambini sono stati uccisi e altri 400 sono in custodia”. Vedi:(http://www.unog.ch/unog/website/news_media.nsf/%28httpNewsByYear_en%29/36191A0CEBA1AED2C125799D0037EF1F?OpenDocument)

Ma la notizia dei neonati di Homs ha avuto grande risonanza soprattutto in Italia. E’ lecito sollevare più di un dubbio. E non solo perché nemmeno i regimi più brutali avrebbero interesse a colpire neonati e ospedali (per la verità ad eccezione di Israele che gli ospedali palestinesi o libanesi li ha sempre colpiti e sempre ne è uscita impunita)-

La fonte (gli Lcc) è di parte e non dà alcuna prova. Oltretutto, tutti gli ospedali hanno generatori; se c’è un black-out elettrico funzionano quelli. Succedeva perfino nell’Iraq e nella Libia sotto le bombe, dove l’elettricità andava a singhiozzo.

Poi l’accusa di tagliare la spina alle incubatrici ha più di un precedente e non solo in Siria. Sempre smentito. La scorsa estate i social network (twitter a partire dal 30 luglio) diffondono l’atroce notizia: tutti i bambini prematuri sono morti nelle incubatrici ad Hama perché gli shabiba (milizie di stato) hanno tagliato l’elettricità durante l’assalto alla città. Si parla di qaranta in un solo ospedale; senza precisare quanti sarebbero negli altri. Il 7 agosto la Cnn riferisce: l’Osservatorio siriano per i diritti umani di Londra (sempre quello) denuncia l’assassinio di otto bambini prematuri, “martiri” nell’ospedale al Hurani, sempre a causa dei black-out. Ovviamente nessuna notizia circa il lavoro dei generatori….Una foto corredava la denuncia: un gruppo di neonati, arrossati, tutti insieme in un unico lettuccio. Dopo qualche tempo viene fuori che la foto era stata pubblicata mesi prima sul giornale egiziano al Badil al Jadid e si riferiva a un problema meno grave, ed egiziano: un ospedale sovraffollato di Alessandria. I bambini erano rossi e vivi, anche se in spazi ristretti.

Del resto, chi non ricorda l’altro falso, datato 1990? Gli invasori iracheni avevano rubato le incubatrici negli ospedali pediatrici, causando la morte di diversi bambini prematuri. Venne poi fuori che il tutto era stato orchestrato dall’ambasciata kuwaitiana negli Usa, che agiva sotto le mentite spoglie del Comitato “Citizens for a Free Kuwait” e con l’assistenza da parte dell’agenzia di public relations Hill & Knowlton – per la modica cifra di 1 milione di dollari.

Del resto anche l’ultima denuncia dell’Unicef riguardo alla Siria (400 fra i minori – in inglese children) è molto vaga quanto alle fonti; si riferisce a “media presenti a Homs” e a “rapporti” (all’Unicef internazionale abbiamo chiesto più dettagli, finora invano). Il non avere avuto riscontro ci fa supporre, e ovviamente sperare, che la notizia sia falsa. Ma la sua diffusione sarà utilizzata per convince tanti pacifisti della giustezza di un’azione di guerra che di vittime bambine ne vedrà ben più di 400.

Seconda parte

Notizie sulla fonte principale delle notizie (anche recenti) sui morti in Siria: L’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani. Due “Osservatori” in contrasto tra loro . Una decostruzione dei dati della prima settimana di febbraio.

Le ultime denunce diffuse da tutti i media sono provenienti come sempre da fonti dell’opposizione siriana (la Reuters almeno dice di non poter verificare): l’Osservatorio siriano per i diritti umani di Londra (Sohr), i Comitati di coordinamento locale, il Cns (Consiglio nazionale siriano) e i Fratelli musulmani parlano di un “massacro di civili” a Homs venerdì sera, con oltre duecento morti e centinaia di feriti, vittime dei colpi di artiglieria e mortaio dell’esercito nei quartieri presi dagli insorti, soprattutto Khalidya; si riportano le voci di alcuni “residenti”. L’agenzia nazionale Sana nega i bombardamenti e afferma che i video di corpi morti sono di gente uccisa dalle squadre armate, le stesse che compiono rapimenti di civili e attentati contro infrastrutture civili.

Il fatto certo sono gli scontri fra armati dell’opposizione e l’esercito. Un contesto di guerriglia urbana dove certamente la popolazione è esposta. In conferenza stampa il capo degli osservatori della Lega Araba, il generale sudanese al-Dhabi, ha affermato che soprattutto a Homs “la violenza delle forze dell’ordine è una risposta agli attacchi dell’opposizione”.

Ma quel che è interessante è la lotta intestina nel principale informatore dei media occidentali e arabi in materia di morti in Siria: il già citato Sohr di Londra.

Un’inchiesta pubblicata sulla versione inglese di Al Akhbar rivela l’inattendibilità di quella che è la fonte principale dei media rispetto alla “conta dei morti e degli assassini” in Siria. Il famoso Osservatorio siriano per i diritti umani Sohr ha infatti due teste ora platealmente in lotta fra loro e due siti con “notizie” divergenti. I due siti sono www.syriahr.org e www.syriahr.net (o anche syriahr.com). Il primo si definisce “sito ufficiale dell’Osservatorio”. Il secondo…anche, precisando di essere “l’unico sito ufficiale”.

Su www.syriahr.org è in bella evidenza dal 17 gennaio una lettera collettiva firmata da siriani dell’opposizione che “sconfessa” Rami Abdul Rahman (alias Osama Ali Suleiman), “direttore” dell’Osservatorio stesso, con accuse anche piuttosto classiste (è “poco istruito”). Scusandosi con i lettori per la possibile “confusione”, i firmatari capitanati da un medico residente a Londra, Azzawi, affermano di aver chiesto tempo fa allo stesso “direttore” di lasciare perché egli scriveva anche di vittime fra le forze di sicurezza nazionali e altre notizie “non verificabili” oltre a non dare i nomi dei morti. Hanno poi aperto un loro sito, il syriahr.org.

Dietro la rottura c’è il fatto che Suleiman è vicino all’opposizione del Ncb (National Coordination Body for Democratic Change in Syria) di al-Manna che vuole una soluzione interna e negoziale alla crisi e condanna la lotta armata, mentre gli altri sono del Cns di Gharioun, filo-Occidente, finanziati dai paesi del Golfo e collaboratori del cosiddetto Esercito libero siriano che conta parecchi arruolati da altri paesi. Ovviamente i media e i governi occidentali e arabi danno molta più eco al Cns.

Suleiman ha denunciato le pressioni da parte degli altri membri (quelli pro-Cns) i quali gli hanno intimato di schierarsi per un intervento Nato e di non parlare dei morti fra i soldati siriani. Entrambi gli “Osservatorio siriano” sostengono di avere centinaia di “attivisti” in Siria dai quali ricevono video e notizie. Ma le verifiche?

Le notizie più efficaci propagate dalle due teste del Sohr sono quelle sui “martiri bambini” e sulle famiglie massacrate. Mère Agnès-Mariam de la Croix, superiora palestinese del monastero siriano di San Giacomo, che sta diffondendo dal canto suo liste di vittime delle bande armate, ha fatto ricerche su caso recente che ha fatto il giro del mondo: la mattanza nel quartiere Nasihine di Homs di dodici membri della famiglia Bahadour fra cui vari bambini. Gli assassini, ha raccontato a Le Monde un vicino che avrebbe visto tutto…praticando un buco fra i muri, sarebbero “sette uomini in divisa, lealisti del regime, che poi protetti dai cecchini dell’esercito sono saliti su un blindato”. Giorni dopo la storia è ripetuta dalla Cnn. Ma la religiosa si è messa in contatto con la famiglia: “Abdel Ghani Bahader era fratello di Ghazouan Bahader, autista dell’ufficio del governatore di Homs. Egli ci ha riferito quanto segue: ‘Siamo una famiglia sunnita che lavora per lo stato. Vogliamo essere neutri. Ma gli insorti ci hanno attaccati più volte tanto che mio fratello voleva spostarsi altrove dopo aver rifiutato l’invito a unirsi all’Esercito siriano libero. Ma non ha fatto in tempo”.

Terza parte

La conta dei morti che nessuno fa: gli uccisi da bande armate (metà gennaio).

Il monastero di San Giacomo di Qara sta diffondendo le liste di “civili morti e feriti per opera di bande armate e non nel corso di proteste”, frutto della “violenza cieca di un’insurrezione sempre più manipolata”. Nomi, cognomi, età, indirizzo e circostanze. Le fonti sono gli ospedali, le famiglie e la Mezzaluna siriana (il cui segretario generale Abd al-Razzaq Jbeiro è stato ucciso mercoledì scorso). Ecco i numeri. Fra marzo e inizi di ottobre, la lista dei morti civili comprende 372 nomi, fra cui diversi bambini (il più piccolo era Moutasim al-Yusef di tre anni, morto ad Haslah il 6 settembre), donne (fra le quali Sama Omar, incinta, uccisa a Tiftenaz il settembre). La lista dei feriti per il solo mese di ottobre e per la sola provincia di Homs vede 390 nomi fra cui diversi bambini; il più piccolo, Ala Al Sheikh di Qosseir aveva un anno e mezzo). Fra gli ultimi uccisi, il curato greco ortodosso del villaggio di Kafarbohom. I cristiani starebbero abbandonando interi quartieri soprattutto a Homs e Hama.

Fra la pittura delle icone per la sopravvivenza del monastero, l’aiuto a famiglie in difficoltà e le preghiere quotidiane, la superiora madre Agnès-Mariam de la Croix sta pensando a un “bollettino settimanale che risponda con fatti e nomi di vittime alle false liste di propaganda dell’Osservatorio siriano dei diritti umani basato a Londra”. Quest’ultimo per la conta dei morti è – insieme ai Cosiddetti Comitati di coordinamento locale – la fonte quasi unica della stampa internazionale e dello stesso Commissariato Onu per i diritti umani, che diffonde la cifra di cinquemila morti attribuendoli alla repressione governativa. Qualcuno comincia a dubitare dell’Osservatorio londinese che, dice la Madre, “spesso non dà nomi e quando li dà non precisa che si tratta di uccisi da bande armate”. Secondo le cifre governative, sono stati uccisi duemila fra poliziotti e soldati.

Palestinese di nazionalità libanese, Agnès-Mariam de la Croix si è attirata gli strali della stampa francese (lei è francofona) che la accusa di essere pro-regime. Vede l’urgenza della verità, per contrastare “un piano di destabilizzazione che vuole portare a uno scontro confessionale e alla guerra civile, gli uni contro gli altri, in un paese che è sempre andato fiero della convivenza”. Nei mesi, il conflitto sembra essere passato “da una rivendicazione popolare di riforme e democrazia a una rivoluzione islamista con bande armate” (sostenuta dall’esterno, petromonarchie, Occidente, Turchia). La Madre ha ospitato nel monastero una riunione di oppositori disponibili a un dialogo nazionale, e ha anche mediato con l’esercito perché allentasse la pressione sugli abitanti di un villaggio.

Un gruppo di giovani siriani ha iniziato un analogo lavoro di indagine e “controinformazione”. Hanno creato un “Osservatorio siriano sulle vittime della violenza e del terrorismo” (Sovvt) e faranno indagini sul campo per preparare dossier e documenti.

Fanno strage, oltre ai colpi di arma da fuoco, gli ordigni esplosivi. Come quello che tra Ariha e Al Mastouma (provincia di Idlib) ha ucciso sei operi tessili ferendone altre sedici mentre viaggiavano sull’autobus aziendale. Vari altri cittadini sono rimasti vittime di un ordigno vicino a Majarez. Colpita alla testa su un altro bus aziendale una ingegnere di Maharda è morta per le ferite. Undici passeggeri sono morti e tre sono rimasti feriti su un autobus civile a Homs, attaccato da armati.

L’agenzia stampa ufficiale Sana riferisce quotidianamente di agenti uccisi o feriti, rapimenti, esplosioni di ordigni che prendono di mira infrastrutture pubbliche (treni, linee elettriche, strade), disinnesco di esplosivi e sequestri di armi pesanti.

Fonte: http://www.forumpalestina.org/news/2012/Febbraio12/10-02-12GuerraMediatica.htm

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Siria: la prossima guerra “umanitaria” della NATO?

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Prof. Michel Chossudovsky, Global Research, 11 febbraio 2012

Introduzione

“Al fine di facilitare l’azione delle forze di liberazione (sic), … uno sforzo particolare dovrebbe essere fatto per eliminare alcuni individui chiave. … deve essere fatto al più presto, nel corso della rivolta e dell’intervento, …

Una volta che una decisione politica è presa nel procedere con i disordini interni in Siria, la CIA è preparata e il SIS (MI6) tenterà di montare dei piccoli sabotaggi e degli assalti (sic) all’interno della Siria, utilizzando i contatti individuali. … Gli incidenti … non dovrebbero essere limitati a Damasco…

Inoltre: “un necessario grado di paura … incidenti di frontiera e scontri di confine (inscenati)”, dovrebbero “fornire un pretesto per l’intervento … la CIA e il SIS [MI6] dovrebbero usare … mezzi sia psicologici che operativi per aumentare la tensione.” (Joint US-UK leaked Intelligence Document, London and Washington, 1957)

In questo I-book on-line interattivo, portiamo all’attenzione dei nostri lettori una selezione di articoli sulla crisi siriana.
Il nostro obiettivo è quello di dissipare l’ondata di menzogne mediatiche e di propaganda governativa, che presenta gli avvenimenti in Siria come un “movimento di protesta pacifica”.

Le “proteste” non promanano da divisioni politiche interne, come descritto dai media mainstream. Fin dall’inizio, sono il risultato di un’operazione di intelligence segreta USA-NATO orientata ad innescare il caos sociale, al fine di screditare il governo siriano di Bashar al-Assad e destabilizzante la Siria come Stato-nazione.

Dalla metà di marzo 2011, i gruppi islamisti armati – sostenuti dai servizi segreti occidentali e israeliani – , hanno condotto attacchi terroristici diretti contro edifici governativi, compresi incendi dolosi. Come ampiamente documentato, uomini armati e cecchini addestrati, tra cui mercenari, hanno preso di mira polizia, forze armate e civili disarmati. Questi gruppi armati sono sostenuti dai servizi segreti stranieri che, secondo quanto riferito, hanno integrato le fila dei ribelli:

“Con il crescendo di disordini e uccisioni nel travagliato stato arabo, agenti di MI6 e CIA sono già in Siria per valutare la situazione, ha rivelato un ufficiale della sicurezza. Le forze speciali parlano anche con i soldati dissidenti siriani. Vogliono sapere di quante armi e apparati di comunicazione le forze ribelli avranno bisogno, se il governo decide di aiutarli.

“MI6 e CIA sono in Siria per infiltrarsi e sapere la verità”, ha detto la fonte ben piazzata. “Abbiamo SAS e SBS non lontane, che vogliono sapere cosa sta succedendo e scoprire di che kit i soldati dissidenti hanno bisogno.” “Syria will be bloodiest yet”, Daily Star).

L’obiettivo di questa insurrezione armata è innescare la risposta della polizia e delle forze armate, compreso il dispiegamento di carri armati e veicoli blindati, al fine di giustificare un eventuale intervento militare, ai sensi del mandato della “responsabilità di proteggere” della NATO.

L’intervento della NATO è sul tavolo. Fu redatto prima dell’inizio del movimento di protesta nel marzo 2011. Secondo fonti militari e di intelligence, la NATO, la Turchia e l’Arabia Saudita hanno discusso “la forma che questo intervento avrebbe preso”.

Operatori statunitensi, britannici e turchi stanno fornendo armi ai ribelli. Il ministero della difesa britannico conferma che “sta elaborando piani segreti per una no-fly zone sponsorizzata dalla NATO [in coordinamento con i suoi alleati]”, ma prima ha bisogno del sostegno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.” (Syria will be bloodiest yet, “Daily Star”) Secondo questi piani segreti: “combattere in Siria potrebbe essere più grave e sanguinoso della battaglia contro Gheddafi”. (Syria will be bloodiest yet, “Daily Star”).

Viene contemplato un intervento militare umanitario modellato sulla Libia. Le Forze Speciali della NATO, provenienti da Gran Bretagna, Francia, Qatar e Turchia sono già sul terreno in Siria, in palese violazione del diritto internazionale, secondo informazioni provenienti da fonti militari (novembre 2011), che confermano che:

“Le forze speciali britanniche si sono incontrate con i membri dell’esercito libero siriano (FSA) … L’obiettivo apparente di questo contatto iniziale era ristabilire la forza delle truppe ribelli e spianare la strada ad eventuali future azioni di addestramento… Ulteriori rapporti più recenti, dichiarano che le forze speciali inglesi e francesi hanno attivamente addestrato i membri del FSA, in una base in Turchia. Alcuni report indicano che l’addestramento sta avvenendo anche in Libia e nel Nord del Libano. Operatori britannici del MI6 e personale delle UKSF (SAS/SBS) hanno riferito di aver addestrato i ribelli nella guerriglia urbana, nonché, di avergli fornito armi e attrezzature. Agenti statunitensi della CIA e delle forze speciali, si ritiene stiano fornendo assistenza per le comunicazioni ai ribelli.” http://www.eliteukforces.info/uk-military-news/0501012-british-special-forces-syria.php

Il contesto sociale e politico in Siria

Vi è certamente motivo di disordini sociali e di proteste di massa in Siria: la disoccupazione è aumentata negli ultimi anni, le condizioni sociali si sono deteriorate, soprattutto dopo l’approvazione nel 2006 delle radicali riforme economiche sotto la guida del FMI che, in seguito, hanno compreso misure di austerità, congelamento dei salari, la deregolamentazione del sistema finanziario, la riforma del commercio e la privatizzazione. (IMF Syrian Arab Republic — IMF Article IV Consultation Mission’s Concluding Statement, http://www.imf.org/external/np/ms/2006/051406.htm, 2006).

Inoltre, ci sono gravi divisioni all’interno del governo e dell’esercito. Il quadro politico populista del partito Baath è stato ampiamente eroso. Una fazione all’interno dell’establishment politico al potere ha abbracciato l’agenda neoliberale. A sua volta, l’adozione della “medicina economica” del FMI è servito ad arricchire l’élite economica dominante. Le fazioni pro-USA si sono diffuse anche nei più alti gradi dell’esercito e dell’intelligence siriana.

Ma il movimento “pro-democrazia” integrato dagli islamisti e sostenuto dalla NATO e dalla “comunità internazionale”, non promana dalla base della società civile siriana.

L’ondata di proteste violente rappresenta una frazione molto piccola dell’opinione pubblica siriana. Sono atti terroristici di natura settaria. In alcun modo affrontano le questioni più ampie della disuguaglianza sociale, dei diritti civili e della disoccupazione.
La maggioranza della popolazione siriana (compresi gli oppositori del governo al-Assad) non supportano il “movimento di protesta”, che è caratterizzato dall’insurrezione armata. In realtà, tutto il contrario.

Ironia della sorte, nonostante la sua natura autoritaria, vi è un notevole sostegno popolare al governo del presidente Bashar al-Assad, che viene confermato dalle grandi manifestazioni filogovernative.
La Siria costituisce l’unico (rimanente) stato laico ed indipendente del mondo arabo. La sua base popolare ed antimperialista, ereditata dal dominante partito Baath, integra musulmani, cristiani e drusi. Sostiene la lotta del popolo palestinese.

L’obiettivo dell’alleanza USA-NATO è spodestare, e in ultima analisi, distruggere lo Stato siriano, eliminare o cooptare le élites economiche nazionali ed eventualmente sostituire il governo siriano di Bashar al-Assad con uno sceiccato arabo, una repubblica islamica pro-USA o una compatibile “democrazia” pro-USA.

L’insurrezione: il modello Libia

L’insurrezione in Siria ha caratteristiche simili a quelle della Libia: è integrata da brigate paramilitari affiliate ad al-Qaida, direttamente sostenute da NATO e Turchia.

Relazioni confermano che la NATO e l’Alto Comando della Turchia stanno fornendo ai ribelli armi e addestramento: “gli strateghi della NATO stanno pensando, sempre più in termini di consegna di grandi quantità di missili anti-carro e anti-aerei, mortai e mitragliatrici pesanti nei centri di protesta, per respingere le forze corazzate governative”. (DEBKAfile, NATO to give rebels anti-tank weapons, 14 agosto 2011).

Fonti militari confermano anche che i ribelli siriani “sono stati addestrati all’uso delle nuove armi da ufficiali turchi, presso impianti di fortuna nelle basi turche, vicino al confine con la Siria”. (DEBKAfile, Ibid). Recenti studi confermano che le forze speciali britanniche e del Qatar sono presenti nella città di Homs, coinvolte nell’addestramento delle forze ribelli, oltre ad organizzare il rifornimento di armi in collegamento con l’esercito turco.

Come nel caso della Libia, il sostegno finanziario arriva alle forze ribelli siriane dall’Arabia Saudita. “Ankara e Riad fornirebbero ai movimenti anti-Assad grandi quantità di armi e fondi, contrabbandate dall’estero in Siria (Ibidem). Si osserva uno spiegamento di truppe dell’Arabia e del GCC anche nella Siria meridionale, in coordinamento con la Turchia” (Ibidem).

Le attività della NATO non si limitano all’addestramento e alla fornitura di sistemi d’arma, ma comportano anche l’arruolamento di migliaia di “combattenti per la libertà”. Si ricordi l’arruolamento dei mujahidin operato per la “guerra santa” diretta dalla CIA, ai bei tempi della guerra sovietica in Afghanistan:

“Il reclutamento dei mujahidin faceva parte della strategia della NATO in Libia, dove sono state inviate a combattere le forze mercenarie sotto la guida dell'”ex” Comandante del Gruppo islamico combattente in Libia (LIFG), Abdel Hakim Belhadj.

Il modello libico delle forze ribelli islamiche integrate dalle forze speciali della NATO è stato applicato in Siria, dove sono dispiegati i combattenti islamici sostenuti dai servizi segreti occidentali e israeliani. A questo proposito, la brigata del LIFG di Abdel Hakim è stata inviata in Siria, dove è coinvolta in atti terroristici sotto la supervisione delle Forze Speciali della NATO.

Il ruolo centrale dell’ambasciatore degli Stati Uniti, Robert S. Ford

L’ambasciatore statunitense Robert S. Ford fu inviato a Damasco alla fine di gennaio 2011, al culmine del movimento di protesta in Egitto. (L’autore era a Damasco il 27 gennaio 2011, quando l’inviato di Washington aveva presentato le sue credenziali al governo al-Assad).

All’inizio della mia visita in Siria nel gennaio 2011, ho riflettuto sul significato di questo appuntamento diplomatico e sul ruolo che avrebbe svolto in una operazione segreta di destabilizzazione politica. Non avevo, però, previsto che questa agenda della destabilizzazione sarebbe stata attuata a meno di due mesi dalla nomina di Robert S. Ford ad ambasciatore statunitense in Siria.

Il ripristino di un ambasciatore statunitense a Damasco, ma più specificamente, la scelta di Robert S. Ford come ambasciatore degli Stati Uniti, ha una relazione diretta con l’inizio del movimento di protesta, a metà marzo, contro il governo di Bashar al-Assad.

Robert S. Ford era l’uomo giusto. Come “Numero Due” presso l’ambasciata USA a Baghdad (2004-2005), sotto la guida dell’ambasciatore John D. Negroponte, ha giocato un ruolo chiave nell’attuazione dell'”Opzione Salvador in Iraq” del Pentagono. Quest’ultimo consisteva nel sostenere gli squadroni della morte e le forze paramilitari irachene modellate sull’esperienza del Centro America.

Vale la pena notare che la nomina di Obama del nuovo capo della CIA, il generale David Petraeus, ha giocato un ruolo fondamentale nell’organizzare il sostegno segreto alle forze ribelli e ai “combattenti per la libertà”, nell’infiltrazione nei servizi segreti e nelle forze armate siriane, ecc. Petraeus ha guidato il programma “Controinsurrezione” del Multi-National Security Transition Command (MNSTC) a Baghdad, nel 2004, in coordinamento con John Negroponte e Robert S. Ford dell’ambasciata USA a Baghdad.

Il ruolo insidioso dei media occidentali

Il ruolo dell’alleanza militare USA-NATO-Israele nello scatenare un’insurrezione armata, non viene affrontata dai media occidentali. Inoltre, diverse voci “progressiste” hanno accettato il “consenso della NATO” come valore.

Il ruolo della operazioni segrete di intelligence di CIA e MI6 a sostegno dei gruppi armati, semplicemente non viene menzionato. Gruppi paramilitari salafiti coinvolti negli atti terroristici hanno, secondo i rapporti, il sostegno occulto dei servizi segreti israeliani (Mossad). I Fratelli Musulmani sono sostenuti dalla Turchia, così come dall’MI6, dai servizi segreti della Gran Bretagna (SIS), fin dagli anni ’50.

Più in generale, i media occidentali ingannano l’opinione pubblica sulla natura del movimento di protesta arabo, omettendo di affrontare il sostegno fornito dal Dipartimento di Stato, nonché dalle fondazioni statunitensi (tra cui il National Endowment for Democracy), per selezionare i gruppi di opposizione pro-USA.

Noto e documentato, il Dipartimento di Stato “finanzia gli oppositori del presidente siriano Bashar Assad dal 2006. (US admits funding Syrian opposition – World – CBC News, 18 aprile 2011).

Il movimento di protesta in Siria è presentato dai media come parte della “primavera araba”, e indicato all’opinione pubblica come un movimento di protesta pro-democrazia che si è diffuso spontaneamente dall’Egitto e Maghreb al Mashriq. Vi è ragione di credere, tuttavia, che gli eventi in Siria siano stati pianificati con largo anticipo in coordinamento con il processo di cambiamento di regime in altri paesi arabi, tra cui Egitto e Tunisia.

Lo scoppio del movimento di protesta nella città sul confine meridionale di Daraa, è stato accuratamente programmato, per far seguito agli eventi in Tunisia e in Egitto.

In coro, hanno descritto i recenti avvenimenti in Siria come un “movimento di protesta pacifico”, diretto contro il governo di Bashar al-Assad, quando le prove confermano ampiamente che i gruppi paramilitari islamici sono coinvolti in atti terroristici. Questi stessi gruppi islamici si sono infiltrati nelle proteste.

Le distorsioni dei media occidentali abbondano. Le grandi manifestazioni “filo-governative” (anche con fotografie) vengono casualmente presentate come “prova” di un movimento di protesta di massa anti-governativa. Le relazioni sulle perdite si basano su “testimonianze oculari” non confermate o su fonti dell’opposizione siriana in esilio. Il londinese Osservatorio siriano sui diritti umani viene abbondantemente citato dai media occidentali come “fonte affidabile”, con le solite denunce. Fonti giornalistiche israeliane, evitando di parlare di rivolta armata, riconoscono tacitamente che le forze siriane affrontano un’organizzazione paramilitare professionista.

L’assenza di dati verificabili non ha impedito che i media occidentali presentassero “dati autorevoli” sul numero delle vittime. Quali sono le fonti di questi dati? Chi è il responsabile delle vittime?

Bivio pericoloso: verso una grande guerra in Medio Oriente e Asia Centrale

L’escalation è parte integrante del programma militare. La destabilizzazione di Stati sovrani attraverso il “cambiamento di regime” è strettamente coordinato con la pianificazione militare. C’è una roadmap militare USA-NATO caratterizzata da una sequenza di teatri di guerra.

I preparativi di guerra per attaccare la Siria e l’Iran sono in “avanzato stato” da diversi anni.

I pianificatori militari di Stati Uniti, della NATO e israeliani hanno delineato i contorni di una campagna “umanitaria” militare, in cui la Turchia (la seconda più grande forza militare della NATO), svolge un ruolo centrale.

Siamo ad un bivio pericoloso. Vi è un’operazione militare USA-NATO che sta per essere lanciata contro la Siria; il Medio Oriente allargato alla regione dell’Asia centrale, estendendosi dal Nord Africa e dal Mediterraneo orientale al confine Afghanistan-Pakistan con la Cina, verrebbe inghiottito nel vortice di una grande guerra regionale.

Ci sono attualmente quattro distinti teatri di guerra: Afghanistan-Pakistan, Iraq, Palestina e Libia.
Un attacco alla Siria porterebbe all’integrazione di questi diversi teatri di guerra e portando infine verso una grande guerra in Medio Oriente-Asia Centrale.

Nella prima parte dell’I-Book interattivo online, viene presentato un saggio introduttivo

La Parte II esamina la natura della rivolta sponsorizzata da USA-NATO-Israele, compreso il reclutamento di terroristi e mercenari. Comprende anche l’esame di un piano segreto dell’intelligence anglo-statunitense del 1957 per destabilizzare la Siria e attuare un “cambio di regime”. Il piano del 1957 prevedeva l’attivazione di “disordini interni, nonché la preparazione di ‘azioni di sabotaggio e assalti’ di CIA e MI6. Ciò che questo saggio suggerisce è che la sua continuità, cioè l’operazione di intelligence di oggi, anche se più sofisticata rispetto a quella del periodo della Guerra Fredda, appartiene al regno del déjà vu.

La Parte III esamina la complicità della “comunità internazionale”, incentrato sul ruolo delle organizzazioni non governative, le dinamiche all’interno del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e il ruolo della Lega araba, che agiscono per conto di Washington.

La Parte IV si concentra sul ruolo insidioso dei media aziendali, che hanno accuratamente distorto i fatti, fornendo sistematicamente una comprensione deformata delle cause e delle conseguenze della crisi siriana.

La Parte V si concentra sulla più ampia agenda militare e sull’escalation militare in Medio Oriente.

La strada per Teheran passa per Damasco. Una guerra USA-NATO contro l’Iran comporterebbe, come primo passo, una campagna di destabilizzazione (“cambio di regime”), comprese operazioni segrete di intelligence a sostegno delle forze ribelli e dirette contro il governo siriano.

Una guerra contro la Siria potrebbe evolvere verso una campagna militare USA-NATO diretta contro l’Iran, in cui Turchia e Israele sarebbero direttamente coinvolti. Contribuirebbe anche all’attuale destabilizzazione del Libano.

E’ fondamentale diffondere le informazioni e spezzare i canali della disinformazione mediatica.
Una comprensione critica e imparziale di quanto sta accadendo in Siria è di cruciale importanza per invertire la marea dell’escalation militare verso una grande guerra regionale.

FONTE: http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=29234

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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L’alleanza sino-russa: una sfida alle ambizioni statunitensi in Eurasia

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Mahdi Darius Nazemroaya, Global Research, 23 settembre 2007

“Ma se lo spazio intermedio [la Russia e l’ex Unione Sovietica] respinge l’Occidente [l’Unione europea e l’America], diventa una singola entità assertiva; se ottiene il controllo sul Sud [Medio Oriente] o si allea con il principale attore orientale [Cina], il primato dell’America in Eurasia si restringe drammaticamente. Lo stesso accadrebbe qualora i due principali attori orientali in qualche modo si unissero. Infine, ogni espulsione dell’America da parte dei suoi alleati occidentali [l’intesa franco-tedesca] dalla sua posizione alla periferia occidentale [Europa] segnerebbe automaticamente la fine della partecipazione degli Stati Uniti al gioco sulla scacchiera eurasiatica, anche se questo comporterebbe la subordinazione dell’estremità occidentale ad un redivivo giocatore che occupa lo spazio intermedio [per esempio la Russia]”.
(Zbigniew Brzezinski, La Grande Scacchiera: la supremazia americana e i suoi imperativi geostrategici, 1997)

La terza legge del moto di Sir Isaac Newton afferma che “ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria.” Questi principi della fisica possono essere utilizzati anche nelle scienze sociali, con particolare riferimento alle relazioni sociali e geopolitiche.

Stati Uniti d’America e Gran Bretagna, l’alleanza anglo-statunitense, si sono impegnati in un progetto ambizioso per controllare le risorse energetiche globali. Le loro azioni hanno portato a una serie di reazioni complesse, che hanno creato una coalizione eurasiatica che si appresta a sfidare l’asse anglo-statunitense.

Circondare la Russia e la Cina: il ritorno di fiamma delle ambizioni globali anglo-statunitensi

Oggi stiamo assistendo ad un iper-uso, praticamente incontrollato, della forza – forza militare – nelle relazioni internazionali, forza che sta spingendo il mondo nell’abisso dei conflitti permanenti. E di conseguenza, non abbiamo la forza sufficiente per trovare una soluzione completa a uno di questi conflitti. Trovare un accordo politico diventa altrettanto impossibile. Stiamo assistendo al sempre maggiore disprezzo verso i principi fondamentali del diritto internazionale. E le norme legali indipendenti diventano, infatti, sempre più vicine al sistema legale di uno Stato. Uno Stato, naturalmente in primo luogo gli Stati Uniti, che ha oltrepassato i propri confini nazionali in ogni modo.
Vladimir Putin alla Conferenza di Monaco sulla politica di sicurezza in Germania (11 febbraio 2007)

Ciò che i dirigenti e i funzionari statunitensi chiamano “Nuovo Ordine Mondiale” è ciò che i cinesi e i russi considerano un “mondo unipolare”. Questa è la visione o l’allucinazione, a seconda della prospettiva, che ha colmato il divario tra Pechino e Mosca.

Cina e Russia sono ben consapevoli del fatto che sono obiettivi dell’alleanza anglo-statunitense. Il comune timore dell’accerchiamento le ha unite. Non è un caso che, nello stesso anno in cui la NATO bombardava la Jugoslavia, il presidente cinese Jiang Zemin e il presidente della Russia Boris Eltsin, in una dichiarazione congiunta anticipata al vertice storico del dicembre 1999, rivelavano che la Cina e la Federazione Russa avrebbero lavorato assieme per resistere al “Nuovo Ordine Mondiale.”

I semi di questa dichiarazione sino-russa erano stati, infatti, previsti nel 1996, quando entrambe le parti dichiararono che si opponevano all’imposizione globale dell’egemonia di un solo Stato.

Sia Jiang Zemin che Boris Eltsin dichiararono che tutti gli stati-nazione dovrebbero essere trattati allo stesso modo, godere della sicurezza, del reciproco rispetto della sovranità e assai importante, della non interferenza negli affari interni da parte di altri stati-nazione. Queste affermazioni erano rivolte al governo degli Stati Uniti e ai suoi partner.

I cinesi e i russi inoltre chiesero l’istituzione di un più equo ordine economico e politico globale. Entrambe le nazioni avevano anche denunciato che gli USA erano dietro ai movimenti separatisti nei rispettivi paesi. Inoltre sottolinearono le ambizioni statunitensi nel voler balcanizzare e finlandizzare gli stati-nazione dell’Eurasia. Gli statunitensi più influenti come Zbigniew Brzezinski, avevano già auspicato la de-centralizzazione e infine la frammentazione della Federazione russa.

Sia i cinesi che i russi avvertirono con una dichiarazione che la creazione di uno scudo missilistico internazionale e la violazione del Trattato Anti-Missile Balistico (trattato ABM) avrebbe destabilizzato l’ambiente internazionale e polarizzato il mondo. Nel 1999, i cinesi e i russi erano consapevoli di ciò che stava per avvenire e della direzione che gli USA stavano prendendo. Nel giugno 2002, meno di un anno prima dello scatenarsi della “Guerra Globale al Terrore”, George W. Bush Jr. annunciava che gli Stati Uniti si sarebbero ritirati dal trattato ABM.

Il 24 luglio 2001, meno di due mesi prima dell’11 settembre 2001, la Cina e la Russia firmarono il Trattato di cooperazione amichevole e buon vicinato. Quest’ultimo è un ben formulato patto di mutua difesa contro gli Stati Uniti, la NATO e la rete militare asiatica statunitense che circondava la Cina. [1]

Il patto militare dell’Organizzazione di Shanghai segue lo stesso modello di cauta formulazione. E’ anche interessante notare che l’articolo 12 della dichiarazione congiunta sino-russa del trattato bilaterale del 2001 prevede che la Cina e la Russia lavorino insieme per mantenere l’equilibrio strategico globale, “l’osservazione degli accordi basilari relativi alla salvaguardia e al mantenimento della stabilità strategica” e “promuovere il processo di disarmo nucleare”. [2] Questo sembra alludere alla minaccia nucleare rappresentata dagli Stati Uniti.

Ostacolare gli USA e la Gran Bretagna: la coalizione “cinese-russo-iraniana”

Come risposta alla corsa all’accerchiamento anglo-statunitense e, infine, al smantellamento della Cina e della Russia, Mosca e Pechino hanno serrato i ranghi e la SCO si è lentamente evoluta, emergendo nel cuore dell’Eurasia come una potente entità internazionale.

Gli obiettivi principali della SCO sono di natura difensiva. Gli obiettivi economici della SCO devono integrare e unificare le economie eurasiatiche contro l’attacco economico-finanziario e la manipolazione della “Trilateral” Nord America, Europa occidentale e Giappone, che controlla porzioni significative dell’economia globale.

Lo Statuto della SCO è stato anche creato, utilizzando il gergo occidentale della sicurezza nazionale, per combattere “il terrorismo, il separatismo e l’estremismo”. Attività terroristiche, movimenti separatisti e movimenti estremisti in Russia, Cina e Asia Centrale sono tutte forze tradizionalmente segretamente nutrite, finanziate, armate e appoggiate dai governi inglesi e degli Stati Uniti. Diversi gruppi separatisti ed estremisti che hanno destabilizzato i membri della SCO, hanno uffici anche a Londra.

Iran, India, Pakistan e Mongolia sono tutti membri della SCO. Lo status di osservatore nella SCO dell’Iran è fuorviante. L’Iran ne è un membro de facto. Lo status di osservatore ha lo scopo di nascondere la natura della cooperazione trilaterale tra Iran, Russia e Cina, in modo che la SCO non possa essere etichettata e demonizzata come gruppo militare anti-statunitense o anti-occidentale.

Gli interessi dichiarati di Cina e Russia sono volti a garantire la continuità del “Mondo Multi-Polare” prefigurato da Zbigniew Brzezinski nel suo libro del 1997, ‘La Grande Scacchiera: Primato e imperativi geostrategici dell’America’, mettendo in guardia contro la creazione o la “nascita di una ostile coalizione [Eurasiatica] che in futuro potrebbe cercare di sfidare il primato degli Stati Uniti.”[3] Inoltre, ha definito questa potenziale coalizione eurasiatica un'”alleanza anti-egemonica” che sarebbe formata da una coalizione “cinese-russo-iraniana” con la Cina come suo fulcro. [4] Si tratta della SCO e dei diversi gruppi eurasiatici che sono collegati alla SCO.

Nel 1993, Brzezinski aveva scritto: “Nel valutare le future opzioni della Cina, si deve considerare anche la possibilità che una Cina economicamente prospera e politicamente sicura di sé – ma che si sente esclusa dal sistema globale e che ha deciso di diventare sia il promotore che il leader degli stati svantaggiati del mondo – può decidere di costituire non solo un articolato dottrinale, ma anche una potente sfida geopolitica al mondo dominato dalla Trilateral [un riferimento al fronte economico formato da Nord America, Europa Occidentale e Giappone].” [5]

Brzezinski avvertiva che la risposta di Pechino alla sfida allo status quo globale sarebbe stata la creazione di una coalizione cinese-russo-iraniana: “Per gli strateghi cinesi, nell’affrontare la coalizione trilaterale di America, Europa e Giappone, il gioco geopolitico più efficace potrebbe essere cercare e formare una propria triplice alleanza, che collegasse la Cina con l’Iran nel Golfo Persico/Medio Oriente e la Russia alla zona dell’ex Unione Sovietica [ed europeo orientale]”. [6] Brzezinski continuava dicendo che la coalizione cinese-russo-iraniana, che chiamava anche coalizione anti-sistema potrebbe “essere una potente calamita per altri stati [ad esempio, il Venezuela] insoddisfatti dallo status quo [globale]”. [7]

Inoltre, Brzezinski nel 1997 ammoniva che “Il compito più immediato [per gli Stati Uniti] è rendere sicuro che nessuno Stato o combinazione di stati, acquisisca la capacità di espellere gli Stati Uniti dall’Eurasia o anche di diminuire in modo significativo il suo ruolo di arbitro decisivo.” [8] Può darsi che i suoi avvertimenti siano stati dimenticati, perché gli Stati Uniti sono stati espulsi dall’Asia centrale e le forze statunitensi sono state sfrattate da Uzbekistan e Tagikistan.

Il ritorno di fiamma delle “Rivoluzioni di Velluto” in Asia centrale

L’Asia Centrale è stata teatro di numerosi tentativi, sponsorizzati dai britannici e dagli statunitensi, di cambio di regime. Questi ultimi sono stati caratterizzati dalle rivoluzioni di velluto simili alla Rivoluzione Arancione in Ucraina e alla Rivoluzione delle Rose in Georgia.
Queste rivoluzioni di velluto in Asia centrale finanziate dagli Stati Uniti, fallirono, a parte in Kirghizistan dove c’era stato un parziale successo con la cosiddetta Rivoluzione dei Tulipani.

Perciò, il governo degli Stati Uniti ha subito importanti battute d’arresto geo-strategiche in Asia centrale. Tutti i leader dell’Asia centrale hanno preso le distanze dagli USA.

Russia e Iran si sono anche assicurati gli accordi energetici nella regione. Gli sforzi degli USA, da parecchi decenni, di esercitare un ruolo egemonico in Asia centrale sembrano essere stati rovesciati in una notte. Le rivoluzioni di velluto finanziate dagli statunitensi hanno fallito. I rapporti tra Uzbekistan e Stati Uniti sono stati particolarmente colpiti.

L’Uzbekistan è sotto il governo autoritario del presidente Islam Karimov. A partire dalla seconda metà degli anni ’90 il presidente Karimov fu portato a trascinare l’Uzbekistan nell’alleanza anglo-statunitense e nella NATO. Quando ci fu un attentato alla sua vita, il presidente Karimov aveva sospettato il Cremlino a causa della sua posizione politicamente indipendente. Questo è ciò che ha portato l’Uzbekistan a lasciare la CSTO. Ma Islam Karimov, anni dopo, ha cambiato idea su chi stesse cercando di sbarazzarsi di lui.

Secondo Zbigniew Brzezinski, l’Uzbekistan rappresentava un grave ostacolo al ristabilimento del controllo russo nell’Asia centrale, ed era praticamente invulnerabile alle pressioni russe; questo è il motivo per cui era importante assicurarsi che l’Uzbekistan come protettorato statunitense in Asia centrale.

L’Uzbekistan è anche la più grande forza militare in Asia centrale. Nel 1998 compì delle esercitazioni con le truppe della NATO. L’Uzbekistan si stava pesantemente militarizzando, come la Georgia nel Caucaso. Gli Stati Uniti diedero all’Uzbekistan enormi quantità di aiuti finanziari per sfidare il Cremlino in Asia centrale, e fornirono anche l’addestramento delle forze usbeche.

Con il lancio della “Guerra globale al terrore” nel 2001, l’Uzbekistan, un alleato degli anglo-statunitensi, offrì immediatamente basi e installazioni militari agli Stati Uniti, a Karshi-Khanabad.

Il governo dell’Uzbekistan sapeva già quale direzione avrebbe preso la “Guerra globale al terrore”. Irritando Bush Jr., il presidente uzbeco formulò una politica di autonomia. La luna di miele tra l’Uzbekistan e l’alleanza anglo-statunitense finì quando Washington DC e Londra contemplarono la rimozione dal potere di Islam Karimov. Era un po’ troppo indipendente per i loro comodi e gusti. I loro tentativi di rimuovere il Presidente uzbeco fallirono, causando uno spostamento delle alleanze geo-politiche.

I tragici eventi di Andijan del 13 maggio 2005, furono il punto di rottura tra l’Uzbekistan e l’alleanza anglo-statunitense. Gli abitanti di Andijan furono incitati allo scontro con le autorità usbeche, portando a un pesante giro di vite della sicurezza sui manifestanti e alla perdita di vite umane.
Gruppi armati furono indicati come presenti. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e nell’UE, i resoconti dei media si concentrarono soprattutto sulle violazioni dei diritti umani, senza citare il ruolo occulto dell’alleanza anglo-statunitense. L’Uzbekistan accusò la Gran Bretagna e gli Stati Uniti di esserne i responsabili, accusandoli di incitare alla ribellione.

MK Bhadrakumar, l’ex ambasciatore indiano in Uzbekistan (1995-1998), ha rivelato che l’Hezbut Tahrir (HT) è stato uno dei partiti accusati delle agitazioni ad Andijan dal governo uzbeco. [9] Il gruppo stava già destabilizzando l’Uzbekistan utilizzando tattiche violente. La sede di questo gruppo sembra essere a Londra e gode del sostegno del governo britannico. Londra è un hub di molte organizzazioni simili che sostengono i vari interessi anglo-statunitensi nei vari paesi, compresi l’Iran e il Sudan, attraverso le campagne di destabilizzazione. L’Uzbekistan aveva perfino avviato la repressione delle organizzazioni non governative (ONG) straniere, a causa dei tragici eventi di Andijan.

L’alleanza anglo-statunitense aveva giocato male le proprie carte in Asia centrale. L’Uzbekistan aveva lasciato ufficialmente il gruppo GUUAM, una entità promossa da NATO-USA in funzione anti-russa. Il GUUAM divenne ancora una volta il GUAM (Georgia, Ucraina, Azerbaijan e Moldavia), il 24 maggio 2005.

Il 29 luglio 2005, le truppe statunitensi ebbero l’ordine di lasciare l’Uzbekistan entro sei mesi. [10] Letteralmente, agli statunitensi dissero che non erano più i benvenuti in Uzbekistan e in Asia centrale.

La Russia, la Cina e la SCO aggiunsero le loro voci alle richieste. Gli Stati Uniti eliminarono la loro base aerea in Uzbekistan nel novembre 2005.

L’Uzbekistan è rientrato nella CSTO il 26 giugno 2006 e si è riallineata, ancora una volta, con Mosca. Il Presidente uzbeco è diventato anche un veemente fautore, insieme all’Iran, della totale espulsione degli Stati Uniti dall’Asia centrale. [11] A differenza dell’Uzbekistan, il Kirghizistan ha continuato a permettere agli Stati Uniti di utilizzare la base aerea di Manas, ma con restrizioni e in un clima di incertezza. Il governo kirghizo mise anche in chiaro che nessuna attività negli Stati Uniti avrebbe dovuto colpire l’Iran partendo dal Kirghizistan.

Il maggiore errore geostrategico

Sembra che un riavvicinamento strategico tra Iran e gli USA fosse in opera dal 2001 al 2002. All’inizio della guerra globale al terrorismo, Hezbollah e Hamas, due organizzazioni arabe appoggiate da Iran e Siria, furono tenute fuori dalla lista delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato statunitense. L’Iran e la Siria erano anche vagamente ritratte come potenziali partner nella “guerra globale al terrore”.

Dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, l’Iran aveva espresso il suo sostegno al governo iracheno post-Saddam Hussein. Durante l’invasione dell’Iraq, i militari statunitensi attaccarono la milizia dell’opposizione iraniana basata in Iraq, la Mujahedin-e Khalq Organization (MEK/MOK/MKO). I jet iraniani attaccarono le basi irachene della MEK, all’incirca nella stessa finestra temporale.

Iran, Gran Bretagna e Stati Uniti cooperarono contro i taliban in Afghanistan. Vale la pena ricordare che i taliban non sono mai stati alleati dell’Iran. Fino al 2000, i taliban erano sostenuti dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna, che lavoravano a braccetto con l’esercito e l’intelligence pakistani.

I taliban rimasero scioccati e sconcertati per ciò che videro come un tradimento degli statunitensi e dei britannici nel 2001 – questo alla luce del fatto che nell’ottobre 2001 avevano dichiarato che avrebbero consegnato Usama bin Ladin agli Stati Uniti, dietro la presentazione delle prove del suo presunto coinvolgimento negli attentati dell’11/9.

Zbigniew Brzezinski aveva avvertito, anni prima del 2001, che “una coalizione che allei Russia, Cina e Iran può nascere solo se gli Stati Uniti sono così miopi da contrapporsi alla Cina e all’Iran allo stesso tempo”. [12] L’arroganza di Bush Jr. ha portato a questa politica miope.

Secondo il Washington Post, “Subito dopo la caduta lampo di Baghdad da parte delle forze degli Stati Uniti, tre anni fa [nel 2003], un insolito documento di due pagine venne sparato fuori dal fax dell’Ufficio per il Vicino Oriente del Dipartimento di Stato. Era una proposta dell’Iran per un ampio dialogo con gli Stati Uniti, e il fax suggeriva che tutto era sul tavolo, compresa la piena cooperazione sui programmi nucleari, l’accettazione di Israele e la cessazione del sostegno iraniano ai gruppi militanti palestinesi”. [13]

La Casa Bianca fu impressionata da ciò, e credendo che fosse dovuto alle grandi “vittorie” in Iraq e in Afghanistan, semplicemente ignorò la lettera inviata attraverso i canali diplomatici del governo svizzero, per conto di Teheran.
Tuttavia, non fu a causa di ciò che era stato erroneamente percepito come una rapida vittoria in Iraq, che l’amministrazione Bush ha respinto l’Iran. Il 29 gennaio 2002, in un importante discorso, il presidente Bush Jr. confermava che gli Stati Uniti avrebbero inoltre preso di mira l’Iran, che era stato aggiunto al cosiddetto “Asse del Male” insieme all’Iraq e alla Corea del Nord. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna intendevano attaccare l’Iran, la Siria e il Libano, dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003. Infatti, subito dopo l’invasione, nel luglio 2003, il Pentagono aveva formulato uno scenario di guerra inizialmente chiamato “Theater Iran Near Term (TIRANNT).”

A partire dal 2002, l’amministrazione Bush aveva deviato dall’originaria tesi geo-strategica. Francia e Germania furono escluse dalla spartizione del bottino della guerra in Iraq.

L’intenzione era quella di agire contro l’Iran e la Siria proprio come gli USA e la Gran Bretagna usarono e tradirono i loro alleati taliban in Afghanistan. Gli Stati Uniti erano anche decisi a colpire Hezbollah e Hamas. Nel gennaio del 2001, secondo Daniel Sobelman, corrispondente di Haaretz, il governo statunitense aveva avvertito il Libano che gli Stati Uniti avrebbero attaccato Hezbollah. Queste minacce dirette al Libano furono fatte all’inizio del mandato presidenziale di George W. Bush Jr., otto mesi prima degli eventi dell’11 settembre 2001.

Il conflitto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite tra la alleanza anglo-statunitense e l’intesa franco-tedesca, sostenuta da Russia e Cina, è stato un segno di questa deviazione.

Gli geostrateghi statunitensi, anni dopo la guerra fredda, avevano programmato che l’intesa franco-tedesca fosse un partner nei loro piani di supremazia globale. A questo proposito, Zbigniew Brzezinski aveva riconosciuto che l’intesa franco-tedesca, alla fine, avrebbe dovuto avere uno status più elevato e che il bottino di guerra avrebbe dovuto essere diviso con gli alleati europei di Washington.

Entro la fine del 2004, l’alleanza anglo-statunitense aveva cominciato a correggere il proprio atteggiamento verso la Francia e la Germania. Washington era tornata al suo originario copione geo-strategico con la NATO che aveva un ruolo più esteso nel Mediterraneo orientale. A sua volta, la Francia ha ottenuto concessioni petrolifere in Iraq.

I piani di guerra del 2006 per il Libano e il Mediterraneo orientale, puntavano anche a un importante cambio di direzione, un ruolo di partnership per l’intesa franco-tedesca, con la Francia e la Germania a svolgere un ruolo militare di primo piano nella regione.

Vale la pena notare che un importante cambiamento si era verificato nei primi mesi del 2007, riguardo l’Iran. A seguito delle battute d’arresto degli Stati Uniti in Iraq e in Afghanistan (così come in Libano, Palestina, Somalia e nell’Asia centrale ex sovietica), la Casa Bianca aveva avviato dei negoziati segreti con l’Iran e la Siria. Tuttavia, il dado era tratto e sembrerebbe che gli USA non siano in grado di spezzare un’alleanza militare che include Russia, Iran e Cina come suo nucleo.

La Commissione Baker-Hamilton: cooperazione occulta anglo-statunitense con l’Iran e la Siria?

L’America dovrebbe anche appoggiare decisamente le aspirazioni turche a un oleodotto da Baku nella [Repubblica di] Azerbaijan, a Ceyhan sulla costa turca del Mediterraneo, che servirebbe da importante sbocco per le fonti energetiche dal bacino del Mar Caspio. Inoltre, non è nell’interesse dell’America perpetuare le ostilità irano-americane. Una qualsiasi riconciliazione dovrebbe basarsi sul riconoscimento del reciproco interesse strategico nella stabilizzazione di quello che, attualmente è, un ambiente regionale molto volatile per l’Iran [ad esempio, Iraq e Afghanistan]. Certo, una tale riconciliazione deve essere perseguita da entrambe le parti, non è un favore concesso da uno all’altro. Un forte, anche religiosamente motivato ma non fanaticamente anti-occidentale, Iran è nell’interesse degli Stati Uniti, e perfino la dirigenza politico iraniana può riconoscere questa realtà. Nel frattempo, gli interessi a lungo raggio degli statunitensi in Eurasia sarebbero meglio serviti abbandonando le attuali obiezioni statunitensi a una più stretta cooperazione economica turco-iraniana, soprattutto nella costruzione di nuovi gasdotti…”
Zbigniew Brzezinski (La Grande Scacchiera: la supremazia americana ei suoi imperativi geostrategici, 1997)

Le raccomandazioni della Commissione Baker-Hamilton o Iraq Study Group (ISG) non sono un reindirizzamento riguardo al coinvolgimento dell’Iran, ma un ritorno alla pista da cui l’amministrazione Bush aveva deviato, in conseguenza dei deliri per le sue frettolosamente annunciate vittorie in Afghanistan e in Iraq. In altre parole, la Commissione Baker-Hamilton cercava di controllare i danni e reindirizzare il percorso geo-strategico degli USA, originariamente previsto dai pianificatori militari da cui l’amministrazione Bush sembrava aver deviato.

Il rapporto ISG fece anche sottilmente intendere che l’adozione delle cosiddette riforme economiche per il “libero mercato”, potrebbero agire sull’Iran (e per estensione sulla Siria) al posto del cambio di regime. L’ISG ha anche favorito l’adesione della Siria e dell’Iran all’Organizzazione mondiale del commercio (OMC). [14] Va inoltre osservato, in proposito, che l’Iran ha già avviato un programma di privatizzazione di massa che coinvolge tutti i settori, dalle banche all’energia e all’agricoltura.

La relazione dell’ISG raccomanda inoltre, la fine del conflitto arabo-israeliano e l’instaurazione della pace tra Israele e Siria. [15]
Anche gli interessi comuni di Iran e Stati Uniti furono analizzati dalla Commissione Baker-Hamilton. L’ISG aveva raccomandato che gli Stati Uniti non rafforzassero nuovamente i taliban in Afghanistan (contro l’Iran). [16] Va inoltre notato che Imad Moustapha, l’ambasciatore siriano negli Stati Uniti, il ministro degli esteri siriano e Javad Zarif, il rappresentante iraniano alle Nazioni Unite, furono tutti consultati dalla Commissione Baker-Hamilton. [17] L’ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite, Javad Zarif, è stato anche per anni un uomo di tramite tra gli Stati Uniti e i governi iraniani.

Vale la pena ricordare anche che l’amministrazione Clinton fu coinvolta nel percorso di riavvicinamento con l’Iran, tentando al contempo di tenere sotto controllo l’Iran nel quadro della politica del “doppio contenimento” nei confronti di Iraq e Iran. Questa politica era legata anche al documento ‘1992 Draft Defence Guidance’ scritto da persone delle amministrazioni Bush Sr. e Bush Jr.

Vale la pena notare che Zbigniew Brzezinski aveva affermato, già nel 1979 e nel 1997, che l’Iran sotto il suo sistema politico post-rivoluzionario avrebbe potuto essere cooptato dagli USA. [18] Anche la Gran Bretagna aveva assicurato la Siria e l’Iran, nel 2002 e 2003, che non sarebbero stati presi di mira e li aveva incoraggiati nella loro cooperazione con la Casa Bianca.

Va notato che la Turchia ha di recente firmato un accordo con l’Iran su una pipeline che trasporterà gas verso l’Europa occidentale. Questo progetto prevede la partecipazione del Turkmenistan. [19] Sembrerebbe che questo accordo di cooperazione tra Teheran e Ankara indichi una riconciliazione, piuttosto che lo scontro con l’Iran e la Siria. Ciò è in linea con quello che Brzezinski nel 1997 sosteneva essere nell’interesse degli USA. Inoltre, il governo iracheno sponsorizzato dagli anglo-statunitensi ha recentemente firmato accordi per una pipeline con l’Iran.

Ancora una volta, gli interessi degli USA in questo affare avrebbero potuto essere messi in discussione, come fecero gli alti pareri sull’Iran dei leader fantoccio di Iraq e Afghanistan.

Qualcosa non va…

L’attenzione dei media in Nord America e in Gran Bretagna ai commenti positivi su Teheran, espressi dai clienti anglo-statunitensi a Baghdad e a Kabul, era sinistra.
Nonostante questi commenti da Baghdad e Kabul circa il ruolo positivo assunto dall’Iran in Iraq e in Afghanistan non fossero nuovi, l’attenzione dei media lo era. Il presidente George W. Bush Jr. e la Casa Bianca criticarono il primo ministro iracheno per aver detto che l’Iran giocava un ruolo costruttivo in Iraq, ai primi di agosto del 2007. La Casa Bianca e la stampa inglese o nordamericana di solito avrebbero solo ignorato o respinto questi commenti. Tuttavia, questo non fu il caso nell’agosto 2007.

Il presidente afghano, Hamid Karzai, nel corso di una conferenza stampa congiunta con George W. Bush Jr. aveva dichiarato che l’Iran era una forza positiva nel suo paese. Non era strano sentir dire che l’Iran era una forza positiva in Afghanistan, perché la stabilità dell’Afghanistan è nel migliore interesse dell’Iran. Ciò che si presentava come strano erano “quando” e “dove” le osservazioni erano state fatte. Le conferenze stampa della Casa Bianca sono coreografate e il luogo e il tempo delle osservazioni del presidente afghano dovrebbero essere stati discussi. Successe anche poco dopo i commenti del presidente afghano, quando il presidente iraniano giunse a Kabul per una visita senza precedenti, che doveva essere stata approvata dalla Casa Bianca.

L’influenza politica dell’Iran

Per quanto riguarda l’Iran e gli Stati Uniti, l’immagine è sfocata e le linee tra cooperazione e rivalità sono poco chiare. La Reuters e l’agenzia stampa degli studenti iraniani (ISNA) avevano entrambe riferito che il presidente iraniano poteva visitare Baghdad dall’agosto 2007. Queste notizie emersero proprio poco prima che il governo degli Stati Uniti iniziasse a minacciare di dichiarare il Corpo della Guardia Rivoluzionaria Iraniana come organizzazione terroristica internazionale. Senza insinuare nulla, va anche rilevato che la Guardia Rivoluzionaria e le forze armate statunitensi hanno avuto anche una storia di cooperazione di basso profilo dalla Bosnia-Erzegovina all’Afghanistan controllato dai taliban.

Il presidente iraniano aveva anche invitato i presidenti degli altri quattro paesi del Caspio, a un vertice sul Mar Caspio a Teheran. [20] Aveva invitato il presidente turkmeno, mentre era in Turkmenistan, e anche i presidenti russo e kazako nell’agosto del 2007, al vertice della SCO in Kirghizistan. Il Presidente Aliyev, a capo della Repubblica di Azerbaigian (Azarbaijan) era stato personalmente invitato durante un viaggio del presidente iraniano a Baku. Il vertice previsto sul Mar Caspio poteva essere simile a quello di Port Turkmenbashi, nel Turkmenistan, tra i presidenti kazako, russo e turkmeno, dove fu annunciato che la Russia non sarebbe stata esclusa dagli accordi sulle pipeline in Asia centrale.

L’influenza iraniana era chiaramente sempre più forte. I funzionari di Baku avevano anche affermato che avrebbero ampliato la cooperazione energetica con l’Iran e l’avrebbero inserita nell’accordo sul gasdotto tra Iran, Turchia e Turkmenistan, che rifornirà i mercati europei di gas. [21] Questo accordo, per rifornire l’Europa, era simile all’accordo russo per trasportare energia, firmato tra la Grecia, la Bulgaria e la Federazione russa. [22]

In Oriente, la Siria era coinvolta nei negoziati connessi all’energia con Ankara e Baku, e colloqui importanti erano stati avviati tra funzionari statunitensi e Teheran e Damasco. [23]

L’Iran aveva anche preso parte agli scambi diplomatici con Siria, Libano, Turchia e Repubblica di Azerbaigian. Inoltre, a partire dall’agosto 2007, la Siria aveva accettato di riaprire gli oleodotti iracheni per il Mediterraneo orientale che attraversano il territorio siriano. [24]

La recente visita ufficiale del Primo Ministro iracheno al-Maliki in Siria è stata descritta come storica da notiziari come la British Broadcasting Corporation (BBC). Inoltre, la Siria e l’Iraq hanno deciso di costruire un gasdotto dall’Iraq alla Siria, dove il gas iracheno sarà trattato in impianti siriani. [25] Tali accordi vengono presentati come le fonti delle tensioni tra Baghdad e la Casa Bianca, ma ciò è dubbio. [26]

L’Iran e il Gulf Cooperation Council (GCC) stanno anche programmando di avviare il processo per la creazione di una zona di libero scambio iraniana-GCC nel Golfo Persico. Nei bazar di Teheran e nel circolo politico di Rafsanjani, vi sono anche discussioni sulla eventuale creazione di un mercato unico tra Iran, Tagikistan, Armenia, Iraq, Afghanistan e Siria. Il ruolo statunitense in questi processi, per quanto riguarda Afghanistan, Iraq e il GCC, dovrebbero essere esplorato.

Sotto il presidente Nicholas Sarkozy, la Francia ha indicato che è disposta ad impegnarsi pienamente se i siriani daranno garanzie specifiche per quanto riguarda il Libano. Queste garanzie sono connesse agli interessi economici e geo-strategici francesi.

Nello stesso periodo delle dichiarazioni francesi sulla Siria, Gordon Brown aveva indicato che la Gran Bretagna era anch’essa disposta a impegnarsi in scambi diplomatici con Siria e Iran. Heidemarie Wieczorek-Zeul, ministro tedesco per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, fu anche coinvolta nei colloqui con Damasco su progetti comuni, riforma economica e per avvicinare l’Unione Europea alla Siria. Questi colloqui, tuttavia, tendono a camuffarsi dietro le discussioni tra la Siria e la Germania per quanto riguarda l’esodo di massa dei rifugiati iracheni, derivante dall’occupazione anglo-statunitense del loro paese. Il ministro degli esteri francese era atteso a Teheran per colloqui su Libano, Palestina e Iraq. Nonostante i guerrafondai degli Stati Uniti e più recentemente della Francia, questo ha portato tutti a fare speculazioni su una possibile inversione di tendenza per quanto riguarda l’Iran e la Siria. [27]

Poi, di nuovo, ciò fa parte del duplice approccio degli Stati Uniti nel prepararsi al peggio (la guerra), mentre sollecitano la capitolazione diplomatica di Siria e Iran a stati clienti o partner. Quando accordi su petrolio e armi furono firmati tra la Libia e la Gran Bretagna, Londra disse che l’Iran dovrebbe seguire l’esempio libico, così come aveva detto la Commissione Baker-Hamilton.

Si è fermata la corsa alla guerra?

Nonostante i colloqui a porte chiuse con Damasco e Teheran, Washington sta comunque armando i propri clienti in Medio Oriente. Israele è in un avanzato stato di preparazione militare per una guerra contro la Siria.

A differenza di Francia e Germania, le ambizioni degli anglo-statunitensi verso Iran e Siria non sono la cooperazione. L’obiettivo ultimo è la subordinazione politica ed economica.

Inoltre, sia come amico o come nemico, gli USA non possono tollerare l’Iran entro i suoi confini attuali. La balcanizzazione dell’Iran, come quella dell’Iraq e della Russia, è un’importante obiettivo a lungo termine anglo-statunitense.
Che cosa ci aspetta non si sa. Mentre non vi è fumo all’orizzonte, l’agenda militare di USA-NATO-Israele non necessariamente comporta l’attuazione della guerra, come previsto.

Una “coalizione cinese-russo-iraniana” – che costituisce la base di una contro-alleanza globale – sta emergendo. USA e Gran Bretagna piuttosto che optare per una guerra diretta, potrebbero scegliere di cooptare Iran e Siria attraverso una manipolazione macro-economica e le rivoluzioni di velluto.

La guerra contro l’Iran e la Siria, tuttavia, non può essere esclusa. Ci sono preparativi di guerra reali sul terreno in Medio Oriente e nell’Asia centrale. Una guerra contro l’Iran e la Siria avrebbe conseguenze di vasta portata in tutto il mondo.

Mahdi Darius Nazemroaya è uno scrittore indipendente di Ottawa specializzato sul Medio Oriente e l’Asia centrale. È ricercatore associato del Centre for Research on Globalization (CRG).

NOTE:

[1] Trattato di buon vicinato e amichevole cooperazione tra la Repubblica popolare cinese e la Federazione russa, firmato ed entrato in vigore il 16 luglio 2001, RP della Cina, Federazione Russa, Ministero degli Affari Esteri della Repubblica popolare cinese. http://www.fmprc.gov.cn/eng/wjdt/2649/t15771.htm
Di seguito gli articoli del trattato che sono rilevanti per la mutua difesa di Cina e Russia contro l’accerchiamento e gli sforzi per smantellare entrambe le nazioni degli statunitensi;

ARTICOLO 4
La parte cinese sostiene la parte russa nelle sue politiche sulla questione della difesa dell’unità nazionale e dell’integrità territoriale della Federazione russa.
La parte russa appoggia la parte cinese nelle sue politiche sulla questione della difesa dell’unità nazionale e dell’integrità territoriale della Repubblica popolare cinese.

ARTICOLO 5
La parte russa ribadisce che la posizione di principio sulla questione di Taiwan, come esposto nei documenti politici firmati e adottati dai capi di Stato dei due paesi dal 1992 al 2000 rimangono invariati. La parte russa riconosce che c’è una sola Cina nel mondo, che la Repubblica popolare cinese è l’unico governo legale che rappresenta tutta la Cina e che Taiwan è parte inalienabile della Cina. La parte russa si oppone a qualsiasi forma di indipendenza di Taiwan.

ARTICOLO 8
Le parti contraenti non entrano in nessuna alleanza o fanno parte di alcun blocco né devono intraprendere tale azione, compresa la conclusione di trattati con un paese terzo che compromette la sovranità, la sicurezza e l’integrità territoriale dell’altra Parte contraente. Nessuna delle due parti contraenti deve consentire che il suo territorio venga utilizzato da un paese terzo per compromettere la sovranità nazionale, la sicurezza e l’integrità territoriale della parte contraente.
Nessuna delle due parti contraenti deve consentire la creazione di organizzazioni o bande sul proprio suolo che possano danneggiare la sovranità, la sicurezza e l’integrità territoriale dell’altra parte contraente e tali attività dovrebbero essere vietate.

ARTICOLO 9
Quando si verifica una situazione in cui una delle parti contraenti ritiene che la pace sia minacciata e minata o dei suoi interessi di sicurezza siano coinvolti o quando si confronta con la minaccia di aggressione, le parti contraenti avviano immediatamente i contatti e le consultazioni al fine di eliminare tale minacce.

ARTICOLO 12
Le parti contraenti devono lavorare insieme per il mantenimento di equilibrio strategico globale e la stabilità e fare grandi sforzi per promuovere l’osservazione degli accordi di base relativi alla salvaguardia e al mantenimento della stabilità strategica.
Le parti contraenti promuoveranno attivamente il processo di disarmo nucleare e la riduzione delle armi chimiche, promuovono e rafforzano i regimi sul divieto delle armi biologiche e adottano misure volte a prevenire la proliferazione delle armi di distruzione di massa, i loro vettori e la loro relativa tecnologia.

[2] Ibid.
[3] Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard: American Primacy and Its Geostrategic Imperatives (NYC, New York: HarperCollins Publishers , 1997), p.198.
[4] Ibid. pp. 115-116, 170, 205-206.
Nota: Brzezinski si riferisce alla coalizione cinese-russo-iraniana anche come una “controalleanza” (p.116).
[5] Zbigniew Brzezinski, Out of Control: Global Turmoil on the Eve of the 21st Century (NYC, New York: Charles Scribner’s Sons Macmillan Publishing Company , 1993), p.198.
[6] Ibid.
[7] Ibid.
[8] Brzezinski, The Grand Chessboard , Op. cit. , p.198.
[9] MK Bhadrakumar, The lessons from Ferghana , Asia Times, 18 maggio 2005. http://www.atimes.com/atimes/Central_Asia/GE18Ag01.html
[10] Nick Paton Walsh, Uzbekistan kicks US out of military base , The Guardian (UK), 1 agosto 2005. http://www.guardian.co.uk/usa/story/0,12271,1540185,00.html
[11] Vladimir Radyuhin, Uzbekistan rejoins defence pact , The Hindu, 26 giugno 2006. http://www.thehindu.com/2006/06/26/stories/2006062604491400.htm
[12] Brzezinski, The Grand Chessboard , op. cit., p.116.
[13] Glenn Kessler, In 2003, US Spurned Iran’s Offer of Dialogue, The Washington Post, 18 giugno 2006, p.A16.
http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2006/06/17/AR2006061700727.html
[14] James A. Baker III et al., The Iraq Study Group Report: The Way Forward — A New Approach Authroized ed. (NYC, New York: Random House Inc. , 2006), p.51.
[15] Ibid., pp.51, 54-57.
[16] Ibid., pp.50-53, 58.
[17] Ibid., p.114.
[18] Brzezinski, The Grand Chessboard , op. cit., p.204.
[19] Iran, Turkey sign energy cooperation deal , agree to develop Iran’s gas fields , Associated Press, 14 luglio 2007. http://www.iht.com/articles/ap/2007/07/14/business/ME-FIN-Iran-Turkey-Energy-deal.php
[20] Tehran to host summit of Caspian nations Oct.18 , Russian News and Information Agency (RIA Novosti), 22 agosto 2007. http://en.rian.ru/world/20070822/73387774.html
[21] Azerbaijan, Iran reinforce energy deals , United Press International (UPI), 22 agosto 2007.
[22] Mahdi Darius Nazemroaya, The March to War: Détente in the Middle East or “Calm before the Storm?,” Centre for Research on Globalization (CRG), 10 luglio 2007.
http://www.globalresearch.ca/index.php?context=va&aid=6281
[23] Ibid. Vale la pena notare che l’Iran è stato coinvolto nelle operazioni condotte con la Turchia e nei negoziati tra Siria, Libano, Turchia e la Repubblica di Azerbaigian sull’eventuale creazione di un corridoio energetico nel Mediterraneo orientale. Le offerte si sono verificate nello stesso lasso di tempo in cui Siria e Iran hanno iniziato i colloqui con gli Stati Uniti, dopo la relazione della Commissione Baker-Hamilton.
[24] Syria and Iraq to reopen oil pipeline link , Agence France-Presse (AFP), 22 agosto 2007.
[25] Ibid.
[26] Roger Hardy, Why the US is unhappy with Maliki , British Broadcasting Corporation (BBC), 22 agosto 2007. http://news.bbc.co.uk/2/hi/middle_east/6958440.stm
[27] Hassan Nafaa, About-face on Iran coming? , Al-Ahram (Egypt), no. 859, 23-29 Agosto, 2007.
http://weekly.ahram.org.eg/2007/859/op22.htm

FONTE:: http://www.globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=6688

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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Russia e Cina hanno valide ragioni per la loro posizione nelle Nazioni Unite sulla Siria

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Evgenij Primakov, Rossiskaja Gazeta, 8 febbraio 2012

Evgenij Primakov è ex direttore del servizio d’intelligence estero russo (1991-1996) ed ex primo ministro della Russia (1998-1999).

Risolvere il conflitto in Siria richiede la presa in considerazione delle prospettive di tutte le parti coinvolte, non solo incolpare una parte sola.

La posizione assunta dalla Federazione Russa e dalla Repubblica popolare cinese sulla risoluzione siriana al Consiglio di sicurezza dell’ONU, è ben motivata. Russia e Cina, pur non essendo in linea di principio contrarie al passaggio della risoluzione, avevano proposto che venisse resa il più vicino possibile alla realtà sul terreno, da cui la sua efficacia dipenderebbe. Questo significava far cadere la richiesta che il presidente legittimamente eletto, Bashar al-Assad, fosse rimosso dal potere; non dare tutta la colpa per lo spargimento di sangue alla leadership siriana, rendendo l’altra parte nel conflitto immune dagli attacchi politici, e senza imporre sanzioni alla Siria.

Alcune altre disposizioni del progetto di risoluzione proposte da alcuni paesi occidentali e arabi, davano anche motivo di preoccupazione. Tali disposizioni, come gli eventi in Libia hanno dimostrato, potrebbero essere state usate per giustificare l’intervento armato in Siria. Per come la vedo io, la Russia e la Cina non vogliono essere ingannate ancora una volta. Solo di recente, gli Stati Uniti gli hanno chiesto di non porre il veto alla risoluzione dell’ONU sulla Libia, sostenendo che si trattava di nient’altro che della richiesta di una no-fly zone sul paese, per impedire che la forza aerea del generale Muammar Gheddafi infliggesse danni alla popolazione civile. Allora, la parte “amorfa” della risoluzione venne usata espressamente per rovesciare il regime di Gheddafi.

Cosa c’è dietro l’attuale posizione anti-siriana? La Siria era presa di mira principalmente perché è vicina all’Iran. Rovesciare il regime attuale fa parte del piano per isolare l’Iran. Ma Damasco e Teheran si sono avvicinate perché il conflitto arabo-israeliano non è stato risolto. Ricordo che, durante una conversazione con Hafiz Assad, padre dell’attuale presidente, egli aveva detto che avrebbe cercato di non rimanere solo “faccia a faccia” con Israele. E’ l’irrisolto pericoloso conflitto in Medio Oriente, che sempre e di nuovo tende a sfociare in una crisi, che ha spinto Damasco a mantenere l’Iran come suo sostegno, “per ogni evenienza”.

Perché maggior parte dei paesi arabi ha preso posizione contro Bashar Assad? Penso che sia soprattutto a causa delle contraddizioni crescenti tra i due principali rami religiosi dell’Islam, i sunniti e gli sciiti. Queste contraddizioni divennero particolarmente forti dopo l’operazione militare statunitense in Iraq. Le autorità siriane sono principalmente alawite, una setta vicina agli sciiti. Nella Lega Araba, la maggioranza dei suoi membri è sunnita, e teme che una cintura sciita si verrebbe a creare dall’Iraq all’Iran e dalla Siria al Libano.

Cosa potrebbe accadere se l’attuale regime siriano venisse rovesciato? Si crederebbe che gli autori del progetto di risoluzione respinto dal Consiglio di sicurezza, pensassero a questo. Esiste una prova eloquente di ciò a cui una politica irresponsabile in Medio Oriente e Africa del Nord, potrebbe condurre. Deve essere contrastata dagli sforzi collettivi che, infine, sono necessari al fine di evitare che la situazione scivoli nel caos, nella guerra civile e, infine, nell’interruzione della estremamente necessaria ricomposizione del conflitto arabo-israeliano.

FONTE: http://indrus.in/articles/2012/02/08/russia_and_china_have_valid_reasons_for_un_position_on_syria_14765.html

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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L’alleanza blasfema tra i mercenari della Blackwater e i governanti degli Emirati Arabi Uniti

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Habib Siddiqi, 23 maggio 2011

“… Non ci vuole uno scienziato per capire la logica dietro la diffusione di R2 negli Emirati Arabi. Le autorità hanno paura di questi lavoratori a basso reddito e dei loro diritti legittimi di cui vengono derubati. La diabolica alleanza con un odiato gruppo di omicidi dal grilletto facile, come la Blackwater, ha molto a che fare con il contenere le potenziali agitazioni dei lavoratori, e quindi evitare catastrofi come quelle occorse all’ex Shah nell’Iran, a Zine Ben Ali in Tunisia e a Hosni Mubarak in Egitto. Ma come la storia ha mostrato, per tante volte è arrivato il momento in cui nessun gruppo di mercenari è in grado di proteggere un regime impopolare.”

Ricordate la Blackwater USA, il gruppo militare privato che ha lavorato come contractor per il Dipartimento di Stato USA? Dal giugno 2004, è stata pagata più di 320milioni di dollari dal budget del Dipartimento di Stato per il suo servizio mondiale di protezione individuale, proteggendo funzionari degli Stati Uniti e alcuni funzionari stranieri, nelle zone di conflitto. Solo in Iraq, in una sola volta, impiegava non meno di 20.000 forze di sicurezza armate. Nell’Iraq post-Saddam, avevano tratto molta notorietà per il loro grilletto facile, dall’atteggiamento da Gung Ho. Tra il 2005 e il settembre 2007, il personale di sicurezza della Blackwater è stato coinvolto in 195 scontri a fuoco, in 163 di questi casi, il personale della Blackwater ha sparato per primo.

Nel 31 marzo 2004, gli insorti iracheni a Falluja attaccarono un convoglio con quattro contractor della Blackwater. Secondo i resoconti iracheni, gli uomini fecero irruzione in una casa e violentarono alcune donne. I quattro contractor furono attaccati e uccisi con granate e armi leggere. Più tardi i loro corpi vennero appesi a un ponte che attraversa l’Eufrate. Nell’aprile del 2005, sei contractor indipendenti della Blackwater furono uccisi in Iraq quando il loro elicottero Mi-8 venne abbattuto.

Il 16 febbraio 2005, quattro guardie della Blackwater di scorta ad un convoglio del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti in Iraq, spararono 70 colpi su un’auto. Una ricerca condotta dal servizio di sicurezza diplomatica del Dipartimento di Stato concluse che la sparatoria non era giustificata e che i dipendenti della Blackwater fornirono dichiarazioni false agli investigatori. Le false dichiarazioni sostenevano che uno dei veicoli della Blackwater era stato colpito dagli spari dei ribelli, ma l’indagine aveva rivelato che una delle guardie della Blackwater aveva effettivamente sparato al proprio veicolo per sbaglio. Tuttavia, John Frese, alto funzionario della sicurezza dell’ambasciata degli Stati Uniti in Iraq, non volle punire la Blackwater o le guardie di sicurezza, perché credeva che eventuali azioni disciplinari abbassassero il morale del gruppo di mercenari.

Il 6 febbraio 2006, un cecchino impiegato dalla Blackwater Worldwide aveva aperto il fuoco dal tetto del ministero della giustizia iracheno, uccidendo tre guardie che lavoravano per l’Iraqi Media Network statale. Molti iracheni presenti alla scena dissero che le guardie non avevano sparato contro il ministero della giustizia. La vigilia di Natale 2006, una guardia di sicurezza del vicepresidente iracheno venne uccisa, mentre era in servizio all’esterno del compound del primo ministro iracheno, da un dipendente della Blackwater USA. Cinque contractor della Blackwater furono uccisi il 23 gennaio 2007, quando il loro elicottero venne abbattuto sull’Haifa Street di Baghdad. Alla fine di maggio del 2007, i contractor della Blackwater aprirono il fuoco per le strade di Baghdad, per due volte in due giorni, uno degli incidenti provocò una situazione di stallo tra i contractor della sicurezza e i commando del ministero dell’interno iracheno. Il 30 maggio 2007, i dipendenti della Blackwater uccisero un civile iracheno di cui fu detto che stesse “guidando troppo vicino” ad un convoglio del Dipartimento di Stato che veniva scortato dai contractor della Blackwater.

Il governo iracheno revocò la licenza di operare in Iraq alla Blackwater, il 17 settembre 2007, a causa della morte di diciassette iracheni. Gli infortuni mortali si verificarono mentre una Blackwater Security Detail (PSD) privata stava scortando un convoglio di veicoli del Dipartimento di Stato statunitense, in viaggio per una riunione, nella parte occidentale di Baghdad, con dei funzionari dell’USAID. Come in molti altri casi precedenti, anche in questo si era riscontrato che le guardie della Blackwater avevano aperto il fuoco senza provocazione e con un uso eccessivo della forza. L’incidente aveva causato almeno cinque indagini, e una inchiesta della FBI aveva rilevato che i dipendenti della Blackwater usarono incautamente una forza letale. La licenza venne ripristinata dal governo statunitense nell’aprile 2008, ma all’inizio del 2009 gli iracheni annunciarono di aver rifiutato di estendere tale licenza.

I documenti ottenuti dalla fuga di informazioni sulla guerra in Iraq, sostengono che i contractor della Blackwater hanno commesso gravi abusi in Iraq, uccidendo anche dei civili. Nell’autunno del 2007, un rapporto del Comitato di Vigilanza della Camera del Congresso, aveva rilevato che la Blackwater aveva intenzionalmente “ritardato e ostacolato” le indagini sulla morte dei contractor (del 31 marzo 2004).

Così negativa era la percezione pubblica del gruppo di mercenari, che ha dovuto cambiare il suo nome due volte – prima nell’ottobre 2007 come Blackwater Worldwide e poi come Xe Services LLC, nel febbraio del 2009.

Dopo tutti questi incidenti gravi di non provocate orge omicide di civili inermi in Iraq, da parte dei mercenari dal grilletto facile che lavoravano come contractor per il Dipartimento di Stato USA, nel periodo post-Saddam, abbiamo pensato che avremmo visto per l’ultima la Blackwater e il suo CEO Erik Prince. Ma ci sbagliavamo. Assolutamente sbagliato! Ci siamo dimenticati che il male si vende alla grande! Un brutto mostro è tanto più preferibile di un Don della mafia quanto un affascinante uomo dall’animo candido.

Erik Prince si è stabilito ad Abu Dhabi e vi ha aperto una filiale dei mercenari. Ha preso il nome di Reflex Responses. La società, spesso chiamata R2, è stata autorizzata nel marzo scorso (2011). Oltre a statunitensi, inglesi, francesi e alcuni colombiani, R2 ha reclutato un plotone di mercenari sudafricani, inclusi alcuni veterani di Executive Outcomes, una società sudafricana nota per avere preparato dei tentativi di golpe o la soppressione di ribellioni contro dittatori africani negli anni ’90.

La scorsa settimana il New York Times (NYT) ha avuto un rapporto dettagliato su questo gruppo di mercenari, che viene impiegato – da chi altri questa volta se non – il principe Sheik Mohamed bin Zayed al-Nahyan di Abu Dhabi, emirato zuppo di petrolio, per proteggere la sceiccato dalle minacce. L’affare redditizio vale 529 milioni dollari. R2 spende circa 9 milioni di dollari al mese per mantenere il battaglione, comprendendo tra le spese gli stipendi dei dipendenti, per le munizioni e i salari per decine di lavoratori domestici che cucinano i pasti, lavano i panni e puliscono il campo.

Le legge degli emirati vieta la divulgazione dei documenti riguardanti le imprese, che tipicamente indicano le cariche sociali, ma richiede di pubblicare i nomi delle società sugli uffici e le vetrine. Nell’ultimo anno, il cartello fuori la suite è cambiato almeno due volte – ora dice Management Consulting Assurance.

Ci viene detto che la forza militare straniera era prevista mesi prima delle cosiddette rivolte della primavera araba, che molti esperti ritengono improbabile che si diffonda tra il popolo degli Emirati Arabi Uniti; funzionari statunitensi di R2 e coinvolti nel progetto, hanno detto ai giornalisti del NYT che gli emirati erano interessati allo schieramento del battaglione R2 per rispondere agli attacchi terroristici e per reprimere le insurrezioni all’interno dei campi di lavoro presenti in ogni angolo del paese, che ospitano pakistani, filippini e altri stranieri che costituiscono il grosso della forza lavoro del paese.

Vale la pena sottolineare che gli Emirati Arabi Uniti sono il fondo abissale della democrazia nel mondo arabo di oggi. Attraverso la loro infinita ricchezza si sono trasformati in una nuova federazione high-tech popolata da due comunità dal basso profilo – un corpo di modernisti capitalisti arabi (21% della popolazione) e occidentali (8% in totale), che hanno ben pochi contatti con il grande corpo dell’Islam, e una massa di lavoratori stranieri immigrati (per un totale del 71%) – 27% indiani, 20% pakistani, 8% bengalesi e 16% di altri asiatici – non pagati o sottopagati, senza documenti o passaporti (confiscati), che lavorano tutto il giorno, in ogni condizione, senza assistenza medica o supervisione. Come gli schiavi egizi dei tempi biblici che hanno costruito le piramidi, i lavoratori migranti – negatigli i fondamentali diritti umani – sono gli schiavi moderni che hanno costruito il Burj Khalifah (l’edificio più alto del mondo) e continuano a costruire il parco giochi per l’elite capitalista del mondo – una zona senza regole e senza timore di ricorso alla legge. Come sottolineato recentemente da Shaykh Abdal Qadir as-Sufi, “Non ci sono kamikaze negli Emirati Arabi Uniti, solo il suicidio settimanale di un lavoratore in preda alla disperazione per il suo stipendio, le sue condizioni di lavoro, il suo squallido dormitorio e il suo futuro.”

Gli Emirati Arabi Uniti, come molti dei Paesi del Golfo, hanno una scala dei redditi altamente discriminatoria, che si basa sulla nazionalità. Ad esempio, i salariati più pagati sono i bianchi occidentali (da Stati Uniti, Europa, Australia e Nuova Zelanda), seguiti dai cittadini del GCC, asiatici orientali (da Giappone, Corea), Sud-est asiatici (da Singapore, Filippine, Thailandia), sud-asiatici (da India, Pakistan, Sri Lanka, Bangladesh) e altri paesi africani (in questo ordine).

Mentre principi e sceicchi corrotti vivono una opulenta vita da parassiti, beneficiando delle prestazioni del dono di Dio alla nazione – la risorse in petrolio e gas naturale – e del frutto del lavoro dei loro lavoratori schiavi, che lavorano in quei giacimenti di petrolio e di gas naturale, nell’industria delle costruzioni e nei negozi o centri commerciali; questi lavoratori sono pagati con dei salari tra i più bassi immaginabili. Gli operai edili lavorano 12 ore al giorno, 7 giorni alla settimana, e sono pagati circa 370 AED (100 dollari USA) al mese. I ‘lavoratori’ sono vincolati dal sistema Kafala a non spostarsi dal loro lavoro ad un altro e vengono ‘legati’ al datore di lavoro. I lavoratori sono ospitati dai datori di lavoro nei dormitori conosciuti come campi di lavoro, di solito ai margini delle zone urbane. Ad al-Quoz e a Sonopar, a Dubai, la tipica abitazione di un operaio edile medio è una piccola sala (40 mq) che deve ospitare fino a otto lavoratori. Al-Quoz Camp ospita 7.500 lavoratori migranti che condividono 1.248 camere. La ritenuta dei salari, in totale disprezzo delle regole islamiche, è un luogo comune. Agli avidi datori di lavoro non piace che i loro lavoratori musulmani digiunino durante il Ramadhan, temendo che la loro efficienza sul lavoro ne risenta.

Nel maggio 2010, centinaia di lavoratori hanno marciato dal loro campo di lavoro a Sharjah al Ministero di Dubai, chiedendo di essere rimandati a casa. Avevano affermato che erano rimasti senza assegni per oltre sei mesi ed erano stati mantenuti nello squallore. Le autorità finalmente ne mandarono a casa 700 dei bloccati nel campo di lavoro Sharjah al-Sajar.

Quindi, non ci vuole uno scienziato per capire la logica dietro la diffusione di R2 negli Emirati Arabi. Le autorità hanno paura di questi lavoratori a basso reddito e dei loro diritti legittimi di cui vengono derubati. La diabolica alleanza con un odiato gruppo di omicidi dal grilletto facile, come la Blackwater, ha molto a che fare con il contenere le potenziali agitazioni dei lavoratori, e quindi evitare catastrofi come quelle occorse all’ex Shah nell’Iran, a Zine Ben Ali in Tunisia e a Hosni Mubarak in Egitto. Ma come la storia ha mostrato, per tante volte è arrivato il momento in cui nessun gruppo di mercenari è in grado di proteggere un regime impopolare.

Negli ultimi anni, il governo degli emirati ha inondato le aziende della difesa statunitensi, con miliardi di dollari per contribuire a rafforzare la sicurezza del paese. Una società gestita da Richard A. Clarke, ex consigliere dell’antiterrorismo durante la amministrazioni Clinton e Bush, ha vinto diversi contratti lucrativi di consulenza, negli Emirati Arabi Uniti, su come proteggere le loro infrastrutture.

Gli ufficiali degli emirati avevano promesso che se il primo battaglione R2 di Erik Prince fosse stato un successo, sarebbe stata acquisita una brigata intera di diverse migliaia di uomini. I nuovi contratti sarebbero miliardari, e avrebbero aiutato il prossimo grande progetto di Prince: un complesso di addestramento nel deserto per le truppe straniere, modellato sul compound della Blackwater di Moyock, Carolina del Nord
In una notte della scorsa primavera, dopo mesi di stanza nel deserto, i mercenari della R2 salirono su un autobus non marcato e furono inviati in un hotel nel centro di Dubai. Lì, alcuni dirigenti della R2 avevano organizzato il loro passatempo serale con le prostitute. In quale altro luogo nel mondo arabo se non negli Emirati Arabi Uniti, si può trovare tale esposizione di immoralità?

In un noto hadith, Muhammad (S), il Profeta dell’Islam, ha detto: “Allah l’Altissimo dice: ‘Ci saranno tre persone contro cui mi batterò nel Giorno del Giudizio: (1) la persona che fa una promessa con un giuramento nel mio nome e poi lo rompe, (2) la persona che vende un uomo libero come schiavo e si appropria dei proventi della vendita, e (3) la persona che impiega un operaio e dopo aver beneficiato appieno del suo lavoro, non riesce a pagargli i suoi debiti.” [Bukhari: Abu Hurayrah (RA)].
Muhammad (S) disse anche: “Date il suo salario al lavoratore prima che il suo sudore si asciughi.” [Ibn Majah: Abdullah b. Umar (RA)] Umar (RA)]

Qualcosa è profondamente sbagliato nel mondo arabo. Una una volta dotati di cammelli e di tenda-dimora, ed ora che volano su jet e hanno ricche abitazioni moderne, gli arabi del deserto sono così occupati a godere delle modalità e dei valori delle moderne tecno-società che hanno completamente perso il cuore di tutta la loro identità civica e spirituale. Hanno dimenticato che la migliore sicurezza non viene dai mercenari, ma da una forza lavoro soddisfatta che sia trattata equamente e umanamente.

FONTE: http://usa.mediamonitors.net/content/view/full/86292

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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