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Channel: Sviluppo pacifico – Pagina 130 – eurasia-rivista.org

Enrico Mattei fondatore dell’ENI – Sabato 17 Marzo a Bologna

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Segnaliamo qui di seguito l’incontro dedicato ad Enrico Mattei, organizzato dall’associazione Eur-eka di Bologna, a cui parteciperà come introduttore e moderatore Stefano Vernole, della redazione di Eurasia.

Sabato 17 Marzo, dalle ore 16.00 presso la Sala dell’Angelo, in via San Mamolo 24, Bologna, in coincidenza con l’imminente anniversario della tragica scomparsa avvenuta nel 1962, verrà ricordata la figura di “Enrico Mattei, fondatore dell’ENI. Una vita per l’indipendenza e lo sviluppo dell’Italia, del Vicino Oriente e dell’Africa“.

L’incontro-dibattito prevede la partecipazione degli storici Claudio Moffa, docente presso l’Università di Teramo e direttore del Master “Enrico Mattei” in Vicino e Medio Oriente, e Nico Perrone, giornalista e saggista, docente presso l’Università di Bari.

Introduce e modera Stefano Vernole, redattore di “Eurasia – Rivista di studi geopolitici”.

L’incontro gode del patrocinio del Comune di Bologna – Quartiere Santo Stefano.

L’ingresso è libero e gratuito.

Per informazioni e contatti: eur-eka@libero.it

FONTE: http://eurekaassociazione.wordpress.com/2012/02/23/enrico-mattei-fondatore-delleni-sabato-17-marzo-a-bologna%E2%80%8F/

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Dichiarazione del Capo della Direzione Stampa – il Portavoce del Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Belarus Andrei Savinykh riguardo alla decisione del Consiglio dell’UE

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Dichiarazione del Capo della Direzione Stampa – il Portavoce del Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Belarus Andrei Savinykh riguardo alla decisione del Consiglio dell’UE

La decisione del Consiglio dell’UE evidenzia che l’UE continua a perseguire una politica di pressione conclamata. Abbiamo più volte spiegato a tutti i livelli l’inutilità di una tale politica nelle sue relazioni con la Repubblica di Belarus.
Come risposta, la parte bielorussa chiuderà l’ingresso in Belarus a quelle persone dai Paesi dell’Unione europea che hanno contribuito all’introduzione delle misure restrittive.
Il Rappresentante permanente bielorusso presso l’Unione europea e l’Ambasciatore bielorusso in Polonia sono richiamati a Minsk per le consultazioni.
Al Capo della Delegazione dell’Unione europea in Belarus e all’Ambasciatore polacco in Belarus è stato suggerito di avviarsi verso le loro capitali per le consultazioni al fine di riferire ai loro vertici la ferma posizione della parte bielorussa circa l’inaccettabilità della pressione e delle sanzioni.
In caso di mantenimento della pressione sulla Repubblica di Belarus saranno adottate altre misure tese a proteggere i nostri interessi.
Ci auguriamo che i funzionari dell’UE e dei suoi Stati membri siano consci dell’inadeguatezza del percorso di forza.
Rimangono in vigore le proposte bielorusse volte alla promozione del dialogo, dell’interazione e della collaborazione con l’Unione europea sulla base dei principi di uguaglianza e del rispetto reciproco.

 
 

Dichiarazione del Ministero degli Affari Esteri della Repubblica di Belarus in relazione alla dichiarazione dell’Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza C.Ashton del 28 febbraio 2012

La reazione nervosa dell’Unione Europea alla proposta bielorussa di svolgere un giro di consultazioni degli Ambasciatori del quartier generale dell’UE e della Polonia nelle loro capitali conferma una sola cosa: che da parte di Bruxelles si è scelta una strada di accrescimento della tensione.
Questo è un percorso che porta in un vicolo cieco.
Non si dimentichi, a Bruxelles e nelle capitali dell’UE, che nei confronti della Bielorussia una tattica d’intimidazione non funziona. Non si può arrivare ad una normalizzazione dei rapporti imponendo condizioni unilaterali ed esercitando pressioni.
Un risultato costruttivo può essere ottenuto, invece, solo attraverso un dialogo dignitoso e reciprocamente rispettoso, svolto su basi reciprocamente accettabili. Si spera che i nostri interlocutori lo possano capire.

Minsk, lì 29 febbraio 2012

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I sionisti attaccano Chavez

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Nil Nikandrov, Strategic Culture Foundation, 28.02.2012

Chavez ha avuto il suo primo round di martellamento per un presunto antisemitismo, nella fase iniziale della sua presidenza nel 1999, per la sua associazione con il politologo argentino e peronista Norberto Rafael Ceresole, che nei primi anni ’90 aveva introdotto il futuro leader venezuelano alla sua dottrina Caudillo, Ejército, Pueblo (Leader, Esercito, Nazione) per l’ascesa al potere. Ceresole era un veemente critico della politica di Israele in Palestina, negava Olocausto e aveva steso un piano per un servizio di intelligence strategico venezuelano cui evidentemente si aspettava di dirigere personalmente. Era un segreto di Pulcinella che gli operatori del Mossad mantenessero al guinzaglio la comunità d’intelligence venezuelana, in epoca pre-Chavez. Anche se hanno dovuto fare le valigie e andarsene quando il regime populista è salito al potere, i sostenitori d’Israele, profondamente radicati nella macchina statale del Venezuela, si opposero fortemente alla presenza di Ceresole nel paese, e i rappresentanti della comunità ebraica del Venezuela inondarono la DISIP, la polizia segreta, di denunce che Ceresole, “un nazista”, rappresentasse un problema permanente. Allora Chavez era occupato a concentrare il potere e a preparare la nuova costituzione del Venezuela, e la deportazione di Ceresole divenne una decisione scontata. Agenti del DISIP videro partire Ceresole dall’aeroporto, e più tardi dissero ai giornalisti che i sionisti lo costrinsero ad andarsene minacciandolo di omicidio.

Le forze sioniste hanno preso parte attiva al golpe anti-Chavez del 2002. Raduni di massa e proteste della classe media contro il regime furono orchestrati dai media che, con l’eccezione del statale Canale 8, erano uniformemente controllati da ebrei. La copertura distorta dei media diffuse i disordini e lasciò gran parte della popolazione con l’impressione che Chavez e la sua cerchia fossero sul punto di ricorrere alla forza armata, per mantenere il potere. Nel frattempo, sparatorie perpetrate da uomini armati non identificati sul ponte Llaguno, che causarono il decesso tra sostenitori e oppositori di Chavez, fu visto da una parte della popolazione come il tentativo del regime di riprendere il controllo con la violenza. Non è ancora chiaro chi fossero gli uomini armati, però; secondo un’ipotesi abbastanza realistica, potrebbero essere stati agenti della polizia municipale il cui comando si schierò con l’opposizione. Un’ipotesi alternativa è che gli uomini armati fossero cecchini esperti venuti dall’estero, e la cosa in effetti rientrerebbe negli scenari ricorrenti in tutta l’era delle guerre “anti-terrorismo” degli anni ’90.

Un grosso scandalo scoppiò nel gennaio 2006, quando il Centro Simon Wiesenthal chiese che Chavez si scusasse per una presunta dichiarazione antisemita. Presso il Centro di Sviluppo Umano del Comune di Acevedo, nello stato di Miranda, Chavez lasciò cadere la frase che aveva provocato conseguenze di vasta portata: “Il mondo ha un’offerta per tutti, ma si è scoperto che alcune minoranze – i discendenti di coloro che crocifissero Cristo, i discendenti di coloro che espulsero Bolivar da qui e anche coloro che, in un certo modo, lo crocifissero a Santa Marta, in Colombia – hanno preso possesso delle ricchezze del mondo, una minoranza ha preso possesso dell’oro, dell’argento, dei minerali, dell’acqua, delle terre buono, del petrolio del pianeta, ed hanno concentrato tutte le ricchezze nelle mani di pochi, meno del 10 per cento della popolazione mondiale possiede più della metà delle ricchezze del mondo”. Anche se, dopo un esame, nulla di quanto sopra sembrasse giustificare le accuse di antisemitismo, una campagna diffamatoria contro il leader venezuelano prontamente si diffuse fino a includere Liberation e Le Monde in Francia, Reuters, Associated Press, The Voice of America e miriadi di destroidi latino-americani. Alla fine, il Simon Wiesenthal Center dovette ammettere, pur ritenendo che Chavez avrebbe dovuto usare un linguaggio scelto con maggior cura, che il passaggio non conteneva nulla che indicasse che gli ebrei fossero responsabili della crocifissione di Cristo o che arraffassero la maggior parte della ricchezza mondiale, e che l’invettiva era diretta contro la classe dirigente venezuelana che espulse Simon Bolivar in Colombia, e contro il sistema globale che consegna in effetti la maggior parte della ricchezza esistente al 10% della popolazione mondiale. Ciò non ha risparmiato nuovi colpi a Chavez, con accuse simili emerse quando aveva criticato l’aggressione di Israele contro il Libano o le spietate incursioni nella Striscia di Gaza.

Il Venezuela aveva ordinato all’ambasciatore israeliano Shlomo Cohen di andarsene il 6 gennaio 2009, e ruppe le relazioni diplomatiche con Israele il 15 gennaio dello stesso anno, condannando la sua offensiva contro la Striscia di Gaza, il cui il bilancio di morti, soprattutto tra i civili, superava i 1000. Mentre Chavez aveva espresso indignazione per il trattamento da Israele del popolo palestinese, la propaganda occidentale trasmise la notizia come se fosse un’ulteriore prova della sua ostilità verso gli ebrei come gruppo etnico. Un attacco a una sinagoga di Caracas ebbe luogo, mentre la questione imperversava. Secondo la BBC, “Una banda armata ha saccheggiato la più antica sinagoga ebraica nella capitale venezuelana, Caracas, dopo aver occupato l’edificio per diverse ore. Circa 15 uomini non identificati hanno fatto irruzione nell’edificio prima di imbrattarne i muri con graffiti e scritti dissacranti. Inoltre chiedevano che gli ebrei fossero espulsi dal paese”. La BBC aveva anche citato i leader ebraici del Venezuela per aver detto che “Il clima è molto teso. Ci sentiamo minacciati, intimiditi, attaccati”. Il governo venezuelano ha ricevuto una valanga di critiche, mentre la polizia stava indagando sull’incidente. Il presidente della Confederazione venezuelana delle Associazioni Israelite, ad esempio, sosteneva che l’attacco era stato ispirato dalla posizione anti-israeliana di Chavez in merito alla guerra in Palestina, e gruppi ebraici si erano radunati davanti alla sede delle Nazioni Unite a Caracas, con slogan sull’odio che alimenta l’odio, cantando l’inno venezuelano, mostrando i loro passaporti venezuelani a chi passava, e spiegando che stavano difendendo la libertà religiosa. I diplomatici di Stati Uniti, Francia, Canada, Finlandia, Germania e Repubblica ceca ha visitato la sinagoga per solidarietà con la comunità venezuelana ebraica, e un coro di ONG in Venezuela, così come da tutta l’America Latina e l’Europa, rivolse accuse al regime di Chavez. Negli Stati Uniti, 16 parlamentari chiesero congiuntamente che Chavez ponesse fine alle intimidazioni della comunità ebraica locale. L’idea comune a tutte le critiche era che l’atto di vandalismo fosse stato in qualche modo benedetto dal governo venezuelano.

La polizia venezuelana, però, concluse l’indagine in un modo fulmineo e, mentre la campagna anti-Chavez era ancora in corso, il ministro degli interni venezuelano Tarek al-Aissami aveva riferito che l’attacco contro la sinagoga era stato guidato da Edgar Alexander Cordero, una guardia del corpo del rabbino Isaac Cohen e da un ufficiale della polizia metropolitana guidata dall’opposizione. I complici dell’uomo erano sette ex agenti di polizia, due individui con precedenti penali e la guardia della sinagoga. Cordero conosceva i dettagli del sistema di sicurezza della sinagoga e la guardia spense l’allarme dall’interno dell’edificio, mentre i graffiti anti-semiti e i danni ai rotoli avrebbero dovuto mascherare un furto ordinario e coinvolgere il Colectivo La Piedrita, l’UPV o altri gruppi dei sostenitori del regime venezuelano. In realtà, il piano di Cordero era rubare 200.000 bolivares da una cassetta di sicurezza. Come è emerso, poco prima dell’irruzione, Cordero aveva chiesto al rabbino Cohen di prestargli del denaro e si sentì profondamente offeso quando la richiesta venne respinta.

La Confederazione delle associazioni israelite venezuelana elogiarono la gestione governativa del caso, ma la maggior parte di coloro che avevano demonizzato Chavez per questa cosa, pretesero di non essere consapevoli della loro cantonata. In realtà, Chavez ha avuto diversi incontri con i rappresentanti della comunità ebraica venezuelana da quando è diventato presidente, esortandoli a non cedere alle provocazioni. Chavez sottolineò che un vero rivoluzionario non può essere un antisemita, e gli ebrei in Venezuela, come cittadini legittimi del paese, non hanno nulla di cui preoccuparsi. La comunità ebraica, tuttavia, sembra priva d’immunità nella propaganda sfornata dalle agenzie di Stati Uniti e Israele. Le storie di fantasia su campi di addestramento per i terroristi arabi in Venezuela, delle operazioni segrete di Chavez con l’Iran, ecc., sono volte a spingere gli ebrei venezuelani ad emigrare in massa. Il giornalista dell’opposizione Nelson Bocaranda dice che il 60-80% degli ebrei del Venezuela ha lasciato il paese nell’ultimo decennio.

Recentemente l’opposizione venezuelana ha convocato le primarie per nominare la sua speranza presidenziale. Il concorso è stato vinto in maniera convincente da Henrique Capriles Radonski, 40enne, propaggine tipica di un ricco e privilegiato clan ebraico. Radonski, però, tende a sottolineare in ogni occasione che lui è un cattolico romano praticante che, in tutta l’America Latina, è un prerequisito per comprare il biglietto per la grande politica. Da giovane, Radonski era un attivista della setta di destra nota come Tradición, Familia y Propiedad (Tradizione, Famiglia e Proprietà), e successivamente ha preso parte alla costruzione, con il sostegno finanziario della CIA e di concerto con i suoi colleghi del TFP, del partito d’opposizione Primero Justicia. L’estremismo politico di Radonski divenne manifesto durante il colpo di stato anti-Chavez dell’aprile 2002. A quel tempo, era l’alcalde di Baruta, un quartiere benestante di Caracas, che divenne teatro di una caccia ai sostenitori di Chavez. Radonski prese parte al assedio all’ambasciata cubana, quando gli insorti chiesero di entrare nella missione per perquisirla. I cubani respinsero l’ultimatum e la teppaglia guidata da Radonski tagliò le comunicazioni dell’ambasciata e vandalizzò le sue vetture. Senza essersi dichiarato colpevole, alla fine Radonski trascorse diversi mesi in carcere per l’episodio, ma è riuscito a trarne dei benefici con cui dare una svolta alla sua carriera: come la maggior parte dei rivoltosi attivi, è fuggito a Miami.

Il sito aporrea.org ha pubblicato un articolo intitolato La Rivoluzione Bolivariana contro il sionismo internazionale, che descrive la nomina di Radonski come un esperimento effettuato dalla borghesia locale e dagli imperialisti degli Stati Uniti, con il sionismo internazionale come base. L’alleanza dovrebbe spingere i sionisti al potere dopo la cacciata di Chavez, supponendo che di conseguenza, la locale classe politica borghese mancherebbe d’influenza. Radonski, ipoteticamente come nuovo presidente, dovrebbe poi aiutare la borghesia venezuelana e i capitalisti ebrei a riprendere il controllo del Venezuela. La proiezione prevede che il governo di destra attuerebbe una immediata repressione estrema, come unico modo per eliminare il regime di Chavez, la rivoluzione bolivariana e la resistenza popolare.

Al momento Radonski, sostenuto da Stati Uniti e Israele, si sta preparando nel ruolo di killer del regime di Chavez. I media sionisti, nel frattempo, lo ritraggono come un progressista liberale, di centro-sinistra e un umanista, nella speranza che il travestimento gli permetta di vincere nel prossimo scontro per il potere.

La ripubblicazione è gradita con riferimento alla rivista on-line Strategic Culture Foundation.

FONTE: http://www.strategic-culture.org/pview/2012/02/28/zionists-attack-chavez.html

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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La fiamma del BRICS continua a brillare

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Melkulangara Bhadrakumar, Strategic Culture Foundation, 29/02/2012

Mentre il gruppo BRICS sembra in effervescenza, i paesi membri si sono prodigati per poter agire in modo coordinato. A proposito della crisi in Siria, che è senza dubbio la questione “più calda” nella politica internazionale di oggi, i BRICS presentavano i segnali preoccupanti di una crisi di identità. Russia e Cina hanno posto il veto alla risoluzione della Lega Araba sulla Siria nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, mentre l’India e il Brasile hanno votato per la risoluzione. La modalità si è ripetuta una settimana dopo in seno all’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Ancora una volta la cosa si è ripetuta quando gli ‘Amici della Siria’ hanno tenuto la loro riunione a Tunisi, lo scorso Venerdì. Russia e Cina si sono tenute lontano dall’incontro di Tunisi, mentre l’India e il Brasile hanno registrato un presenza dal basso profilo. Iniziava a sembrare che l’era BRICS stesse probabilmente per finire senza tanti complimenti. I BRICS come gruppo di potenze emergenti non ha mai avuto carenza di detrattori, che si sentirebbero immensamente sollevati – in particolare in Occidente, specialmente negli Stati Uniti.

Pertanto, si presenta quale piacevole sorpresa che la voce riguardante la morte prematura dei BRICS, sia un’esagerazione. Le notizie da Città del Messico di questa settimana mostrano il BRICS non solo vivo e vegeto ma, come si suol dire, apparire impaziente di agire mentre si avvicina il vertice annuale nella capitale indiana, del 28-29 marzo.

A margine di una riunione del G-20 a Città del Messico la scorsa settimana, i ministri delle finanze dei BRICS – Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa – decidevano di tenere delle consultazioni esclusive. E sono giunti alla sorprendente proposta di istituire una banca multilaterale che verrebbe finanziata esclusivamente dai paesi in via di sviluppo, al fine di finanziare progetti in quei paesi.
È interessante notare che la proposta proveniva dall’India. New Delhi ha fatto circolare in anticipo la sua proposta nelle capitali BRICS, in modo da portare avanti la discussione tra i paesi in via di sviluppo nel suo complesso, a fianco della riunione del G-20.

La proposta è certamente in fase esplorativa e corre parallela a un appello del G-20 a rafforzare gli istituti di prestito più piccoli e regionali, come la Banca per lo sviluppo Inter-Americana, la Banca asiatica per lo sviluppo e la Banca africana di sviluppo. Queste banche regionali hanno tutte approvato aumenti di capitale, il che consentirebbe loro di espandere il credito nelle rispettive regioni.

New Delhi, come ospite del vertice BRICS di fine marzo di quest’anno, ha anche stilato l’ordine del giorno per il percorso futuro del gruppo. La sua proposta per una banca BRICS è costruita sulla promessa fatta al vertice del gruppo dello scorso aprile in Cina, per “rafforzare la cooperazione finanziaria tra le banche di sviluppo del BRICS.” La ragione d’essere della proposta indiana per una banca BRICS è che gli attuali organismi finanziari multilaterali non sono stati efficaci nella loro attività di finanziamento dei paesi in via di sviluppo. In realtà, i principali donatori di queste stesse istituzioni si trovano ad affrontare oggi la crisi economica, e a malapena si stanno tenendo a galla.

Il Brasile non ha tardato a esprimere sostegno, in linea di principio, alla proposta indiana. Naturalmente, l’idea è all’inizio, ma il prossimo vertice BRICS dovrebbe deliberare su ciò. Per inciso, il ministero degli esteri indiano ha annunciato che il ministro degli esteri cinese Yang Jiechi dovrebbe arrivare a Delhi e tra i colloqui vi sarà l’ordine del giorno del vertice BRICS.

L’India avverte l’impulso all’innovazione dell’architettura finanziaria globale, come anche il suo senso di vulnerabilità crescente ai rischi globali. Nonostante la robusta crescita economica dell’India (che dovrebbe essere di circa il 7% quest’anno), la capacità dell’economia di resistere a grandi shock esterni rimane questionabile. Un recente rapporto intitolato The Global Risks Atlas 2012 scritto da Maplecroft, la ben nota società di analisi dei rischi, cita l’India come la nazione più esposta e meno resistente dei BRICS ai rischi globali. In un elenco di 178 paesi, l’India si pone come la 19.ma economia più esposta e meno resistente, mentre Russia, Cina e Brasile sono state classificate al 30.mo, 58mo e 97.mo posto.

L’iniziativa indiana sulla banca dei BRICS deve anche essere vista opposta alla campagna occidentale concertata a rappresentare il raggruppamento giocare un ruolo declinante nelle dinamiche globali, a causa del recente calo di prestazioni, avendo perso oggi parecchi dei precedenti vantaggi per gli investitori occidentali. Secondo questa tesi, i CIVETS – Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e Sud Africa – adesso giocano il nuovo ruolo di prossima generazione di tigri economiche.

Il ruolo in gioco è contestare la pertinenza dei BRICS con il pretesto specioso che ci sono altre economie in via di sviluppo che stanno crescendo assai rapidamente o che offrono alti rendimenti sui mercati finanziari. I BRICS non dovrebbero permettere che questo stratagemma abbia successo. Per prima cosa, il ruolo dei BRICS non può che aumentare in quanto rappresentano la maggior parte dei paesi a “medio reddito” in rapida crescita. Se le economie a “medio reddito” rappresentano il 58% della crescita mondiale di oggi, i BRICS sono il più grande “blocco” all’interno di essa.

In uno scenario globale in cui le economie sviluppate stanno perdendo la loro posizione dominante nella crescita mondiale e le economie a “basso reddito” in via di sviluppo contano solo per l’1% della crescita mondiale dei passati 5 anni, tra il 2005 e il 2010, il ruolo cruciale del BRICS è evidente.

Il cuore della questione è che le economie BRICS non solo sono in rapida crescita – anche spettacolare – ma sono anche di grandi dimensioni. Cina, Brasile, India e Russia sono classificate rispettivamente come 2°, 7°, 9° e 11° economia più grande del mondo di oggi. Non sorprende che ciò che pietrifica l’Occidente è l’impatto collettivo dei BRICS sulla dinamica del mondo, e in caratteri inauditi nella moderna storia economica, che finora è stata costruita sul paradigma del “mondo sviluppato – mondo in via di sviluppo”.

Il cambiamento di paradigma è ulteriormente accentuato dalla crisi finanziaria internazionale, come testimoniano i fatti. Secondo le statistiche della Banca Mondiale, i BRICS rappresentavano il 53% della crescita dell’intero PIL globale di 7.250 miliardi dollari, nel periodo 2007-2010. La crescita degli Stati Uniti in questo periodo (592 miliardi dollari) è stato un solo un sesto della crescita del PIL dei BRICS di 3.819 miliardi dollari. Molto probabilmente, la tendenza si ripeterà nel 2012. L’Unione europea e il Giappone non dovrebbero “crescere”, mentre la crescita degli Stati Uniti è in stallo, anche con prestiti di grandi dimensioni dovrebbe essere meno della metà della crescita del PIL della Cina – senza contare i BRICS nel loro complesso.

In sintesi, le posizioni divergenti dei BRICS sulla Siria non dovrebbero sorprendere. Come un commento sul quotidiano Global Times della Cina ha sintetizzato: “I BRICS non sono un blocco di tipo politico/militare come la NATO [North Atlantic Treaty Organization]. Coordina gli interessi economici delle grandi economie in via di sviluppo del mondo … Alcune piccole economie possono continuare a crescere ancora più rapidamente di alcuni BRICS … [ma] i paesi BRICS continueranno a rafforzare il loro ruolo di forza trainante nell’economia mondiale”.

Chi avrebbe mai pensato che i BRICS agitassero il bastone contro il dominio del sistema di Bretton Woods degli Stati Uniti così apertamente? A Città del Messico la scorsa settimana, i ministri delle finanze dei BRICS hanno deciso che è giunto il momento che il decennale predominio degli Stati Uniti nella Banca Mondiale non sia più incontrastato.

“I candidati dovrebbero basarsi sul merito e non sulla nazionalità”, ha detto ai giornalisti il ministro delle finanze brasiliano Guido Mantega. I BRICS si propongono di discutere la possibilità di presentare il proprio candidato per sfidare “chiunque sia nominato dal governo degli Stati Uniti”, secondo la Reuters. (I candidati possibili sono la segretaria di stato statunitense Hillary Clinton, l’ex Segretario al Tesoro Lawrence Summers e l’ambasciatrice USA alle Nazioni Unite Susan Rice.)

“E’ tempo [per i BRICS] di rompere la tradizione degli Stati Uniti e dell’Europa di spartirsi le cariche [di Banca Mondiale e FMI] e noi tutti, questa volta, dobbiamo sforzarci maggiormente di trovare qualche consenso”, aggiungeva Pravin Gordhan, il ministro delle finanze del Sud Africa. Questo può sembrare idealistico. Ma, anzi, rende la sfida ancora più importante, poiché dimostra che la fiamma dei BRICS è ben lungi dall’essere spenta dalla crisi in Siria.

FONTE: http://www.strategic-culture.org/news/2012/02/29/brics-flame-continues-to-shine.html

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
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Guerra di movimento e “geopolitica del caos”

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Non sono passati neanche due anni dacché, l’11 maggio 2010, si verificò l’incidente della Freedom Flotilla, ovvero l’attacco, in acque internazionali, da parte della marina militare israeliana contro la flottiglia di attivisti filo-palestinesi diretta a Gaza, con un carico di aiuti umanitari di vario genere. Com’è noto, l’intervento israeliano causò la morte di nove attivisti, tutti a bordo della nave turca Mavi Marmara, e sembrò aver compromesso definitivamente le relazioni tra Ankara e Tel Aviv.

Inoltre, con il venir meno della tradizionale “amicizia” tra Israele e Turchia pareva perfino che la mappa geopolitica del Medio e Vicino Oriente stesse per cambiare in senso tutt’altro che favorevole non solo per i sionisti, ma anche per i circoli atlantisti. Infatti, fallito il disegno americano di controllare direttamente l’Heartland, i buoni rapporti tra Turchia, Siria ed Iran potevano evolversi in modo tale da rendere assai più difficile per gli Usa accerchiare la Russia, contrastare efficacemente l’influenza cinese in Asia e al tempo stesso sostenere le monarchie petrolifere e la politica di potenza sionista.

Vi è poco da stupirsi allora che né gli Usa, né Israele né le monarchie petrolifere siano rimasti ad assistere passivamente al nuovo corso della politica turca, ma abbiano reagito tenendo conto di tutta la complessa, multiforme e, sotto certi aspetti, contraddittoria galassia musulmana, allo scopo di difendere le proprie posizioni e di non perdere l’iniziativa strategica in un’area ancora di vitale importanza per l’America e, in generale, per l’oligarchia occidentale. Naturalmente questo non significa che la cosiddetta “primavera araba” sia stata pianificata a tavolino dagli americani e dai loro alleati, ma è indubbio che la situazione creatasi in Africa Settentrionale sia stata sfruttata per distruggere la Giamahiria e destabilizzare la Siria, facendo leva proprio su quei movimenti islamisti, come la stessa “fratellanza musulmana” (che in realtà ha sempre avuto rapporti niente affatto chiari con i servizi occidentali), che fino a pochi anni fa, secondo il “circo mediatico” a stelle e strisce, si dovevano addirittura considerare i più temibili nemici della “civiltà occidentale”.

Del resto, la liquidazione in perfetto “stile hollywoodiano” di Bin Laden, aveva indotto non pochi analisti a interpretarla come una svolta radicale nella politica degli Stati Uniti nei confronti dell’Islam, all’insegna del divide et impera, sbarazzandosi pure di “vecchi amici” che ormai avevano fatto il loro tempo ed erano diventati “oggettivamente” inutili, se non addirittura dannosi, per gli interessi occidentali. Una svolta che ha portato anche a “ricucire”, in qualche modo, le relazioni tra Ankara e Tel Aviv, sebbene la politica di Erdogan rimanga ancora in larga misura indecifrabile e sia quasi del tutto “coperta” l’azione diplomatica volta ad ancorare saldamente alla Nato la Turchia, “separandola” definitivamente dalla Siria e dall’Iran.

In questo contesto, anche la presa di posizione della Russia e della Cina a favore di Assad non pare decisiva, pur avendo per ora evitato che si ripetesse quanto già accaduto in Libia, dato che le pressioni per un “intervento umanitario” in Siria sono ancora fortissime. D’altronde, ove ciò avesse a verificarsi, la situazione potrebbe facilmente sfuggire di mano, non solo perché il regime siriano è assai più strutturato di quello libico, ma perché è una “partita” in cui si confrontano pressoché tutti i “soggetti geopolitici” che veramente contano. E che non vede nemmeno una “semplice” contrapposizione degli amici di Damasco ai nemici di Damasco, ché non è nemmeno un mistero che vi sia chi ritiene che Damasco sia solo una tappa sulla via che porta a Teheran.

Comunque sia, si deve soprattutto tener conto del ruolo estremamente importante svolto dalla Siria di Assad per quanto concerne il delicato assetto geopolitico della regione, dato che la repubblica siriana, se ha sempre appoggiato la causa palestinese ed anche Hamas (un’organizzazione che è nata dall’azione dei Fratelli musulmani nei campi profughi palestinesi e che anche per questo motivo ha voltato le spalle ad Assad), non ha mai avuto neanche particolari pregiudizi nei confronti degli sciiti, al punto da fungere da tramite tra Hezbollah e l’Iran. Non a caso la Siria è forse stato il Paese che con maggiore coerenza si è opposto alla prepotenza sionista, tanto che a giudizio di Hassan Nasrallah, leader del movimento sciita libanese filo-iraniano Hezbollah, il fondamento del regime siriano è la lotta contro Israele, nonché il sostegno alla resistenza in Libano e in Iraq contro gli Stati Uniti

D’altra parte, si potrebbe osservare che neppure gli sciiti sono stati particolarmente lungimiranti sostenendo la rivolta contro Gheddafi, mentre gli aerei della Nato riducevano la Giamahiria ad un cumulo di macerie, aprendo così la strada per Tripoli ai “tagliagole bengasini”- alcuni dei quali adesso combattono contro le forze governative siriane, con lo stesso entusiasmo con cui hanno combattuto contro le forze governative libiche sventolando la bandiera americana accanto a quella che era la bandiera della Libia quando questo Paese era un protettorato angloamericano. Che è probabilmente, mutatis mutandis, quel che diventerebbe la Siria se Assad dovesse cadere, dato che il nuovo regime non potrebbe fare a meno dell’aiuto americano. Nondimeno, in questo caso, sia Hezbollah che l’Iran sono perfettamente consapevoli che l’Occidente sta cercando di stabilire un nuovo (dis)ordine nella regione, fondato sulla divisione etnica e religiosa.

Di questo tuttavia sono consapevoli non solo i dirigenti politici sciiti, ma pure quelli russi e cinesi; mentre per gran parte degli europei in Siria si starebbe combattendo un’altra guerra tra buoni e cattivi, tra pacifici manifestanti (anche se armati con missili anticarro Milan), che vogliono la libertà e la democrazia, e feroci militari fedeli al “tiranno” di Damasco. Di fatto, è palese che l’opera di (dis)informazione dei media mainstream non solo non aiuti a comprendere come il conflitto geopolitico possa articolare le relazioni internazionali e perfino la vita politica ed economica dei singoli Paesi, ma riesca a far sì che l’opinione pubblica non si domandi seriamente come e perché nel giro di poco meno di due anni si sia potuti giungere ad un mutamento così radicale della strategia atlantista.

Pertanto, se da un lato non si possono escludere altri “capovolgimenti di fronte”, fino a quando gli equilibri geopolitici mondiali continueranno ad essere così “fluidi”, dall’altro si deve riconoscere che la battaglia che si combatte sul fronte della (dis)informazione è essenziale anche per giustificare tali capovolgimenti. Vale a dire che probabilmente i gruppi dominanti (filo)occidentali non avrebbero rischiato di interpretare la parte dell’apprendista stregone giocando la “carta islamista”, se non fossero sicuri di poter in ogni caso contare sulla passività e acquiescenza dell’opinione pubblica internazionale (e in particolare di quella europea). Di questo sembra essersi reso conto lo stesso Assad affermando: «Sul terreno siamo noi i più forti […] C’è un attacco dei media contro di noi e loro possono essere più forti nella blogosfera, ma noi vogliamo vincere […] sul terreno e nella blogosfera» (evidentemente Assad ha usato il termine “blogosfera” come una sineddoche, ossia per denotare il mondo dell’informazione nel suo complesso).

Si tratta appunto di due piani che non sono separati, bensì “congiunti”. Ed è questa “congiunzione” che si deve prendere in esame per decifrare, senza la presunzione di capire tutto o di non poter errare, un “di-segno” geopolitico che non è affatto frutto di un complotto, ma che “risulta” dall’azione di diversi centri di potere (sovente anche in competizione tra di loro) capaci di combattere una guerra di movimento, tanto sul “terreno” quanto nella “blogosfera”. Una guerra scatenata dalla stessa macchina bellica occidentale di cui i media mainstream sono parte costitutiva e che ha generato lo tsunami finanziario che sta facendo vacillare il “modello sociale europeo”. Una guerra che ben difficilmente i popoli dell’Eurasia potranno vincere, finché la retorica della libertà e della democrazia impedirà di comprendere che la “geopolitica del caos” (sia politico che economico) è conseguenza necessaria della volontà di potenza dell’Occidente, cioè di una determinata “struttura di potere”, delle cui reali finalità, peraltro, solo raramente sono del tutto consapevoli gli stessi “soggetti geopolitici.”

* Fabio Falchi è redattore di Eurasia

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La nuova costituzione ungherese, percorsi e prospettive nel processo di integrazione europea

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Segnaliamo la seguente iniziativa che avrà luogo mercoledì 28 Marzo a Bologna.

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Lo scacchiere elettorale a nord del Rio Delle Amazzoni

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1 Luglio e 7 Ottobre sono le date che in questo 2012 potranno dare delle risposte importanti alla Casa Bianca. Se in Messico il cambiamento sembra ininfluente per il proseguo dell’attuale politica, in Venezuela si vive in funzione dello stato di salute di Chavez e nel mentre Cuba attende il 6 Novembre per conoscere il nuovo volto di chi guiderà la pluridecennale politica anticastrista a stelle e strisce.
 
Il 6 novembre l’attenzione globale sarà concentrata sul verdetto dell’elettorato statunitense che deciderà se dare fiducia a Obama o cambiare timoniere. Infatti negli U.S.A. si tratta di un cambio di rappresentanza, di immagine rappresentativa, ma non della rotta seguita. Decenni di studi della politica statunitense palesano un dirottamento del potere decisionale in altri ambiti: economia, interessi petroliferi, multinazionali. La Storia ben dimostra come la politica statunitense vada ben oltre la democrazia e lo sviluppo economico volto a beneficiare la propria popolazione. Molto spesso l’azione della Casa Bianca in ambito internazionale è stata funzionale alla diramazione di una rete extracontinentale allo scopo di favorire lo sviluppo di aziende o meccanismi economici che hanno ben poco a che vedere con il benessere della nazione intesa come agglomerato di persone che condividono, all’interno di uno spazio comune, un fine generale.

Tale visione sterile delle elezioni statunitensi non può che riguardare la Nazione che con gli U.S.A. condivide non solo i confini, ma anche un rilevantissimo volume di rapporti economici (più o meno leciti): il Messico. Il 1 Luglio 2012 si deciderà se il PAN (Partido Acciòn Nacional) potrà continuare il suo percorso politico o se sarà già il tempo di un “cambio” di guardia con il reinsediamento del PRI (Partido Revolucionario Institucional). Fondamentalmente possiamo affermare che la spunterà il cartello più forte e/o sanguinario e chi riuscirà a sviluppare una migliore rete clientelare. A differenza degli Stati Uniti, in Messico le elezioni sono un affare di droga e a ben poco vale la lotta al narcotraffico ufficialmente portata avanti durante la legislatura. Ogni partito non chiarisce mai – grazie ad un evidente vuoto legislativo in merito – la provenienza dei fondi privati impiegati per sostenere la propria campagna elettorale. Prassi vuole che le guerriglie aumentino in prossimità delle elezioni presidenziali messicane e già oggi, l’azienda leader nella produzione di indumenti antiproiettile – la colombiana Miguel Caballero – ha riscontrato un bum di vendite nel mercato messicano. Tra  PRI e PAN non mancano però le azioni di disturbo del PRD (Partido de la Revoluciòn Democràtica) che dopo la sconfitta sul filo del rasoio nel 2006 – elezioni fortemente contestate in merito alla loro regolarità – presentano come candidato Andrés Manuel Lòpez Obrador. I sondaggi, comunque, sembrano indirizzare la corsa a Los Pinos* ad una sfida a due: da un lato Sara Josefina Vàsquez Mota (PAN) e dall’altro Enrique Peña Nieto (PRI).

La candidatura della Vàsquez sembra un tentativo, da parte del PAN, di cavalcare “l’onda rosa” proveniente dal Brasile e dall’Argentina, per garantirsi il favore della popolazione stanca della sterilità economico-politica dei propri rappresentanti. I sei anni del governo Calderon (PAN) non sono stati propriamente volti allo sviluppo dell’intera popolazione. Il PIL crescente (+4%) non deve trarre in inganno: gli squilibri sociali in Messico sono sempre più evidenti e la gran parte della popolazione vive nella povertà e sotto l’assedio delle guerre sanguinarie tra i cartelli della droga.

Di contro, il PRI torna alla carica dopo una sosta di sei anni del suo monopolio politico (1929-2000). Il giovane candidato Peña Nieto (46 anni) sembra essere il vero favorito delle prossime elezioni, ma i sondaggi sono molto confusionari e molto discordanti tra loro quasi a rientrare tra i mezzi utilizzati in campagna elettorale dai diversi partiti perdendo la loro credibilità statistica. In questi giorni si è messo in evidenza il rapporto tra il PRI ed il cartello “La Familia”, ma allo stato attuale, la poca trasparenza dei vari schieramenti fa pensare che ogni partito abbia il proprio cartello simpatizzante.

Vedremo chi la spunterà solo a Luglio, ma possiamo dire già da ora che tali partiti oltre al nome, hanno ben poco di rivoluzionario e nulla varierà nella politica messicana. La vicinanza con il colosso statunitense sposta gran parte dell’economia al confine nord compresa quella sommersa – traffico di droga, emigrazione clandestina – e un cambiamento politico reale, non suscita grande entusiasmo in chi detiene le redini delle attività più produttive del Messico – tra cui anche chi è ben posizionato nel mercato energetico. Tutto ciò è un grave handicap per un Paese dal grande potenziale ed al quale gioverebbe senz’altro un avvicinamento a quel concetto di Latinoamericanità intrinseco nel progetto CELAC.

In Venezuela invece, le elezioni del 7 ottobre hanno un ben altro peso e valore. Qui si giocherà una partita importante per le future relazioni tra Caracas e resto del Nuovo Continente: dovesse spuntarla Chavez, il Venezuela proseguirebbe nella sua rivoluzione economico-sociale fondata sull’emancipazione dall’influenza nordamericana. Di converso, un cambio di guardia potrebbe aprire – ma non va dato per scontato – un importante spiraglio alle relazioni asimmetriche predilette dalla strategia di Washington.

Il problema principale negli antichavisti, è stato creare un fronte d’opposizione che l’alta frammentazione politica non rendeva possibile. Oggi la Mesa de la Unidad Democràtica raccoglie ben 20 partiti caratterizzati da un’alta eterogeneità, visto che si palesano al suo interno sia compagini di destra che di sinistra. Ardua prova di equilibrio quindi nella sua programmazione elettorale e postelettorale in caso di vittoria. Il primo scoglio è stato comunque superato e le primarie hanno chiaramente indicato (63% di voti) il volto di colui che contenderà Palacio Miraflores** al popolare Chavez: Henrique Capriles Radonski.

Chavez dal canto suo, dopo 12 anni di presidenza, ha dimostrato di fondare la propria politica su due punti chiave: la lotta alla povertà e l’ampliamento dei settori economici sotto il controllo statale – considerevole nazionalizzazione nei settori chiave. Tutto ciò ha però messo in secondo piano altre criticità che oggi rappresentano il cuore della propaganda di Capriles: sviluppo nel settore privato e lotta alla criminalità. Lo stesso Capriles, nelle sue precedenti esperienze istituzionali – prima come sindaco della città di Baruta e poi come (attualmente in carica) governatore dello stato di Miranda – ha dimostrato di riuscire ad ottenere importanti risultati in tali ambiti. Tuttavia, nel curriculum del candidato della MUD, resta da chiarire il ruolo dello stesso nel tentativo di colpo di stato del 2002. Infatti, sembrerebbe che Capriles abbia avuto un ruolo attivo durante l’assedio all’Ambasciata Cubana nella quale cercarono rifugio, durante il golpe, alcune alte cariche governative fedeli a Chavez. A tal proposito va menzionato che, dopo l’archiviazione avvenuta nel 2006, il processo contro Capriles è stato riaperto nel 2008 e non sono da escludere colpi di scena da qui ad Ottobre.

In definitiva le elezioni venezuelane non sono da ritenersi scontate nel loro epilogo:

–         Il MUD ha già vinto le elezioni politiche attenendo la maggioranza dei seggi in Parlamento. D’altra parte va capito se e come, prima del voto e dopo un’eventuale vittoria, il MUD riesca a rimanere unito nei suoi obbiettivi nonostante l’eterogeneità. Al momento basa la sua forza sull’appoggio dei ceti medi e medio-alti, sull’imprenditoria privata – quella del golpe del 2002 per intenderci – e sul favore degli antichavisti.

–        Chavez dal canto suo ha il carisma del capo ed il favore dei ceti meno abbienti – la maggior parte del popolo venezuelano – ma tuttavia ma tuttavia la sua politica avrebbe bisogno di una riduzione dell’assistenzialismo in favore di un aumento dell’occupazione. Nonostante ciò trapela dai sondaggi che solo Chavez può battere Chavez e , nello specifico, solo il suo stato di salute può comprometterne la vittoria. Giorni fa il presidente venezuelano è uscito nuovamente dalla sala operatoria ostentando ottimismo sulla propria salute, ma in concreto c’è una scarsa informazione in merito.
Sottolineando l’incertezza nell’esito finale di queste elezioni, proviamo ad ipotizzare tre possibili scenari nel caso di vittoria del trentanovenne Capriles:

1.     Il MUD riscopre la sua eterogeneità interna ed implode lasciando un governo ed una non più certa, maggioranza parlamentare. Capriles è destinato, in tale contesto, a non lasciare il segno nella storia venezuelana o, per lo meno, punterà ad una ricandidatura nel 2018 con un proprio partito omogeneo ed in grado di raccogliere il consenso popolare.

2.     Capriles spinge per una riduzione della presenza statale nell’economia del Paese e, seguendo il proprio modello politico-economico (il Brasile di Lula), percorre la strada di uno sviluppo reale volto alla crescita dell’intero Paese: liberalizzazione controllata, lotta alla criminalità ed al narcotraffico, diversificazione nella produzione energetica – per ridurre la forte dipendenza economica del Paese dal mercato petrolifero. Si configurerebbe un Venezuela sulla scia del miracolo brasiliano e argentino, pronto a proseguire, con una maggiore diplomazia in ambito internazionale, il proprio cammino verso uno sviluppo in un’America Latina emancipata e libera da vincoli “neo-coloniali” con gli Stati Uniti.

3.     L’insediamento di Capriles attiva un processo inverso alla nazionalizzazione di Chavez. Tale meccanismo riporta i capitali stranieri in terra venezuelana – pronti a comprare vantaggiosi accordi pluridecennali. Il Venezuela intensifica, in collaborazione con la Colombia, la “lotta” al narcotraffico o per lo meno coopera attivamente per dare uno stretto giro di vita alla FARC*** – che non è propriamente la stessa cosa dei cartelli della droga. Il tutto, ovviamente, consentirebbe agli U.S.A. di recuperare un importante tassello tra le zone sotto la propria influenza – almeno fino all’insediamento di un nuovo Comandante dalle idee bolivariane.

Cosa accadrà realmente non è possibile dirlo, ma le sensazioni portano a pensare che, in un’ipotetica vittoria di Capriles, per evitare il primo scenario, debba verificarsi un mix tra la seconda e la terza ipotesi.

Quanto detto sino ad ora sulle presidenziali statunitensi e venezuelane, susciterà se non altro l’interesse cubano. In Ottobre Fidel e Raul Castro scopriranno se potranno contare ancora su un importantissimo alleato come il Venezuela – ricordiamo che attualmente Cuba riceve rifornimenti di petrolio a prezzi vantaggiosissimi proprio dal Venezuela. Chavez si è sempre schierato in difesa dell’isola caraibica e la costituzione del CELAC sembrerebbe creare un’invisibile barriera protettiva per Cuba nei confronti della politica statunitense. In novembre, invece, Cuba conoscerà chi si incaricherà di portare avanti la crociata statunitense contro l’isola. Infatti, mettere all’ordine del giorno la questione cubana nei programmi politici dei candidati alla Casa Bianca, frutta un importante favore elettorale proveniente dalla Florida e più nello specifico da Miami – sede degli esuli anticastristi. Chi dovesse dimostrarsi più ostico nei confronti della rivoluzione cubana, potrebbe garantirsi un vantaggio considerevole nella corsa alle presidenziali del 6 novembre.

 
* Los Pinos è la residenza del Presidente della Repubblica Messicana

** Residenza del Presidente Venezuelano

*** Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombi

William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

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Europei prime vittime di sanzioni contro l’Iran

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Réseau Voltaire, 14 Febbraio 2012

Il segretario generale del sindacato delle raffinerie italiane, Piero de Simone, ha rivelato che l’Italia sta per chiudere cinque raffinerie a causa delle sanzioni unilaterali adottate dall’UE contro l’Iran e il boicottaggio delle sue risorse petrolifere.

Nella loro ultima riunione tenutasi a Bruxelles 23 gennaio 2012, i ministri degli esteri dell’Unione europea hanno imposto nuove sanzioni contro l’Iran, compreso il divieto dell’acquisto di petrolio da tale paese, il congelamento dei beni bancari della Banca centrale iraniana nell’Unione europea, e il divieto di vendita di diamanti, oro e metalli preziosi all’Iran.

Secondo il signor de Simone, a livello europeo saranno 70 le raffinerie che rischiano la chiusura per queste decisioni.

Tuttavia, le sanzioni avranno un impatto minimo sull’Iran poiché i suoi principali clienti, l’India e la Cina, la cui domanda è in crescita, hanno già trovato il modo di aggirare l’embargo.

Secondo de Simone, “i paesi asiatici che non applicano l’embargo, saranno ora in grado di acquistare petrolio iraniano a prezzi scontati e a rivenderli agli europei come prodotti petroliferi raffinati“.

Nel frattempo in Francia, il sito della raffineria Petroplus (550 dipendenti diretti della raffineria, 400 subappaltatori e 1.000 posti di lavoro dell’indotto) sta per chiudere, l’azienda svizzera Petroplus ha annunciato un problema di finanziamento per le cinque raffinerie europee, che rappresentano 2.500 dipendenti diretti ( Petite Couronne in Francia, Anversa in Belgio, Cressier in Svizzera, Essex e Teesside in Gran Bretagna e anche l’Unità di Ricerca e Sviluppo di Cardiff).

I ministri hanno detto che le sanzioni contro l’Iran sono motivate dai loro timori circa la natura del programma nucleare di Teheran. I sospetti europei non possono essere confermata dall’Agenzia internazionale dell’energia atomica, anche se l’Iran è il più ispezionato al mondo in questa materia. Si basano esclusivamente sui rapporti dei servizi segreti israeliani, sebbene Israele non nasconda la sua intenzione di provocare un conflitto armato contro l’Iran.

In definitiva, le sanzioni contro l’Iran da parte di ministri degli esteri europei, per compiacere il loro partner israeliano, si rivelano dannose per le imprese e i dipendenti europei.

FONTE: http://www.voltairenet.org/Europei-prime-vittime-di-sanzioni

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Aspetti del putinismo

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Dal numero 2/2005, La Russia e i suoi vicini, Ernest Sultanov

Condizioni

Verso il 2000, quando Vladimir Putin giunse al potere, lo Stato, disgregato in tre diverse parti, aveva praticamente cessato di esistere. Da un lato si era formata una classe di oligarchi che aveva privatizzato non soltanto le risorse principali e le imprese, ma anche la parte essenziale delle rendite di esse. Il simbolo di questa parte era la Yukos, i cui titolari non soltanto hanno acquisito la proprietà praticamente gratis, ma non hanno neanche pagato le tasse dovute per l’acquisto della stessa. Dall’altro lato esisteva un sistema corrotto del potere che ha privatizzato l’impresa più redditizia: lo Stato stesso. Relativamente alle condizioni della Russia, ciò significava che le spese statali previste per l’agricoltura, per le persone aventi diritto alle agevolazioni, per i servizi comunali e quant’altro, cadevano proprio nel buco nero della corruzione, laddove non era possibile controllare la loro spesa. Il terzo e ultimo lato riguardava la popolazione, che, invece di digerire i risultati della guerra fredda e andare avanti – imparando anche dai vincitori – preferiva sperare nel ritorno del precedente modello sovietico.

Così tutte le tre forze russe non erano praticamente intenzionate a fare determinati sacrifici in favore di uno Stato più forte ed efficace. Si può anche dire che il paese che Vladimir Putin aveva trovato nel 2000, era in condizioni peggiori, ad esempio, della Germania o del Giappone alla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Ciò è collegato con il fatto che né la popolazione, né la burocrazia né gli oligarchi erano pronti ad accettare un compromesso. Nel caso della conservazione di questo modello, a Vladimir Putin era assegnato il ruolo della “regina inglese”, che regna ma non governa.

La lentezza dei processi di trasformazione in Russia è dovuta a queste condizioni sfavorevoli. A ciò bisogna senz’altro aggiungere il fatto che un’effettiva trasformazione del paese non è vantaggiosa per i concorrenti diretti e potenziali della Russia, gli USA in primo luogo. Proprio per questo, le riforme positive che contribuiscono all’aumento della responsabilità del mondo economico (“affare Yukos”) e della responsabilità della burocrazia (istituzione della nomina dei governatori) hanno suscitato a Washington una reazione talmente negativa.

Per molti “partner del Cremlino” sarebbe più vantaggioso vedere la Russia nel ruolo di una sorta di Nigeria, anziché nel ruolo di un concorrente che si sviluppa in maniera dinamica.

Capitalismo di Stato

Dopo l’ascesa al potere, Vladimir Putin ha usato la burocrazia per colpire gli oligarchi. Mentre alla burocrazia si presentava la possibilità di allargare l’ambito della corruzione per conto delle nuove fette di proprietà “statale”, per il Presidente era importante creare un nuovo modello di rapporti con il mondo economico. Di conseguenza il caso della Yukos ha consentito di aumentare la disciplina fiscale e di far perdere agli oligarchi l’abitudine di intromettersi nell’ambito politico. Allo stesso tempo non ci sono state altre repressioni nei confronti del mondo degli affari. Ciò è dovuto in gran parte alla maggiore efficienza del business sottoposto al controllo privato, a condizione del pagamento di tutte le imposte. In relazione a ciò il regime ha adottato il metodo di imporre al mondo degli affari quelle precise regole del gioco che contribuiscono al bene comune.

Il nuovo sistema di imposizione mira a contribuire ad un più rapido sbocco delle compagnie russe di materie prime sui mercati esteri, in modo che esse guadagnino i mezzi principali per conto dell’estrazione, lavorazione e vendita al dettaglio nei mercati stranieri, non per conto dell’appropriazione della rendita naturale appartenente allo Stato, come avveniva precedentemente. In relazione a ciò, è significativo l’esempio delle compagnie russe petrolifere e metallurgiche che aumentano la loro presenza sui mercati mondiali. Così, la compagnia Sever Stal – che è in procinto di acquisire il pacchetto azionario di controllo della compagnia metallurgica italiana Lucchini e che, inoltre, partecipa alla gara per l’acquisizione di un’acciaieria canadese – ha già investito nel business negli USA, acquistando le Rouge Industries.

Nell’espansione dell’economia estera svolge un suo ruolo anche la più grande compagnia petrolifera russa, la Lukoil – la quale ha la sua propria rete di distribuzione e le imprese di lavorazione negli USA, nell’Europa dell’Est e nelle repubbliche baltiche ed estrae il petrolio in America Latina e nell’Africa del Nord. (Oltre a ciò, al gigante petrolifero russo appartiene il più grande giacimento petrolifero Curna d’Ovest nell’Iraq).

Allo stesso tempo va avanti il processo dell’aumento degli accantonamenti a favore dello Stato. La logica è tale che gli oligarchi hanno conservato la proprietà che hanno fatto in tempo a guadagnare, ma sono stati costretti a pagare con aliquote accettate in tutto il mondo.

“L’affare della Yukos” ha rappresentato l’ultima tappa sulla via dell’introduzione della rendita naturale per le imprese del settore di materie prime e sulla via dell’aumento generale della responsabilità del business. Ad esempio, la Lukoil ha assunto gli obblighi per il servizio del Ministero della Difesa, mentre l’altro colosso petrolifero russo, Surgutneftegaz, sta curando una serie di progetti nel campo della sanità pubblica e le imprese delle telecomunicazioni si occupano della telefonizzazione delle province lontane. E il proprietario della Sibneft’, Roman Abramovitch (noto per essere il proprietario del club inglese Chelsea) si è dovuto dar da fare per far uscire dalla crisi una delle più problematiche regioni della Russia – la Ciukotka.

L’altra direzione dello sviluppo del capitalismo di Stato russo è segnata dalla creazione delle grandi corporazioni di alta tecnologia. Si tratta innanzitutto delle imprese del complesso bellico-industriale: in tale quadro sono già state create sei corporazioni, ognuna delle quali rappresenta un ciclo finito della produzione.
Oltre a ciò, è necessario mettere in risalto altri due progetti di estrema importanza nel campo dell’industria aerea e delle telecomunicazioni.

Nel quadro del primo progetto è stato superata la lobby delle singole imprese per creare una grande struttura – analoga alle corporazioni Boeing e Aerobus. Il sistema precedente, dato il gran numero di imprese, comportava un impiego di mezzi antieconomico. Lo scopo di questo nuovo colosso industriale è, prima di tutto, la creazione di nuovi aerei di quinta generazione, che inevitabilmente coinvolgerà anche l’aviazione civile.

Nel campo delle telecomunicazioni l’esempio di un progetto efficace è fornito dalla corporazione AFK Sistema, che ha cominciato ad espandersi sui mercati esterni, sia nelle ex repubbliche sovietiche (ad esempio in Ucraina) sia negli stati asiatici di prospettiva (in particolare in India).

In tale contesto è necessario esaminare anche le ultime proposte del Presidente per l’elaborazione e la creazione dei parchi tecnologici, che devono dare una spinta allo sviluppo delle nuove industrie, prima di tutto nel settore tecnologico. La logica è tale che in Russia, a causa della mano d’opera costosa e dell’alto costo di produzione, l’economia può essere efficace solo con l’utilizzo delle alte tecnologie.

I risultati della fase attuale della costruzione del capitalismo di Stato in Russia sono i seguenti.

Primo: l’aumento della rendita naturale e della responsabilità sociale dell’economia. Secondo: la crescita del PIL, che non è più collegato solo al settore di materie prime, ma anche ai settori dell’alta tecnologia; così, ad esempio, quest’anno solo l’esportazione degli armamenti ha raggiunto il primato in tutta la storia della Russia. Terzo: aumenta l’efficacia delle corporazioni russe, che cominciano a guadagnare non per la semplice esportazione delle materie prime, ma per la diversificazione e il profitto delle filiali estere. Quarto: grazie alle corporazioni efficienti, in Russia si forma una fascia di manager in grado di fare concorrenza ai loro colleghi esteri. Quinto: si creano le condizioni per la rivoluzione tecnologica in Russia, il che significa il passaggio dall’economia di materie prime all’economia tecnologica moderna. Sesto: nel quadro del capitalismo di Stato, appaiono le condizioni per un efficace sviluppo del complesso bellico ed industriale, ossia per la modernizzazione dell’esercito russo; senza di ciò, vale a dire senza una Russia abbastanza forte, nel mondo si stabilirebbe definitivamente un sistema unipolare.

Riforma contro la corruzione

Forse è proprio questo l’aspetto più discutibile del putinismo, in connessione con il fatto che il Presidente cambia molto lentamente il sistema inefficiente e per di più corrotto dei quadri. In relazione a ciò, si deve tener conto che il sistema attuale di potere, nonostante il suo carattere vizioso, assicura l’esistenza dello Stato. Allo stesso tempo qualsiasi rivoluzione dei quadri può portare alla perdita, da parte dello Stato, del controllo sulla corruzione e quindi ad una corruzione più spaventosa (come possiamo vedere nel caso del Venezuela “chavista”).

Nella riforma promossa da Putin in questa direzione, si possono mettere in risalto i seguenti elementi.

In tutte le posizioni-chiave, vengono nominati non semplici funzionari, ma i manager più efficienti e fidati. Ad esempio, nel Caucaso del Nord è stato inviato uno dei più qualificati manager del Cremlino – Dmitrij Kozak. Proprio in quella regione la minaccia terroristica costante crea le condizioni ottimali per la corruzione. Il Presidente dispone di un gruppo di professionisti che, in caso di necessità, può assumere l’impegno di risolvere le situazioni più difficili.

Secondo: nei primi cinque anni di presidenza Putin si è riusciti a liquidare il sistema dei piccoli principati сhe esistevano sul territorio della Federazione Russa, praticamente indipendenti da quest’ultima. Per esempio, sono state liquidate le sovranità di diritto, nel quadro delle quali le leggi locali e le autorità locali non erano sottoposte a Mosca. Nello stesso contesto è necessario esaminare la riforma dell’autogestione locale, nel quadro della quale è prevista la possibilità di esonerare i capi municipali nel caso di violazioni finanziarie, nonché un nuovo sistema di nomina dei dirigenti della Federazione che deve aumentare la loro responsabilità. (Ciò perché nella pratica la norma democratica delle elezioni dei capi dei soggetti da parte della popolazione non funzionava, sicché il tutto veniva deciso con l’aiuto delle organizzazioni economiche o anche di quelle economiche-criminali interessate).

Terzo: viene realizzata la riforma delle agevolazioni sociali, dei servizi comunali, dei sussidi, della sanità pubblica ecc., cioè una riforma сhe può essere considerata riforma della spesa pubblica. L’essenza della riforma consiste nel privare i funzionari della possibilità di disporre autonomamente, senza controllo, dei mezzi finanziari del bilancio. La riforma ha veramente colpito il funzionario, l’oligarca più potente, сhe aveva privatizzato lo Stato. In questo contesto, la privatizzazione dello Stato dipende in gran parte dal successo della riforma. Le ultime proteste contro la riforma della monetizzazione delle agevolazioni, largamente ispirate dalle autorità locali, dimostrano che il sistema della corruzione è pronto a lottare per la “sua” proprietà.

Il principale risultato delle riforme del Presidente Putin contro la corruzione può essere identificato con una graduale sprivatizzazione dello Stato. Dal successo di queste riforme dipendono in gran parte anche l’aumento del livello di vita in Russia (è inutile investire i mezzi nella sfera sociale quando essi vengono “rubati”), l’aumento del PIL e l’aumento generale dell’efficienza dello Stato.

A questa condizione importante, alla vittoria sulla corruzione, è collegata la normalizzazione nel Caucaso del Nord, cioè la cosiddetta soluzione del conflitto ceceno: la popolazione sostiene i terroristi non tanto per motivi ideologici, ma a causa della tensione sociale. Su questo piano si può dire сhe vincere la corruzione locale significa vincere il terrorismo.

“I quadri decidono tutto”: questa frase può diventare una parola d’ordine comune per il Cremlino e per una vera opposizione. Su questo piano una vera opposizione potrebbe assumersi il ruolo di mobilitare professionisti e manager per la rivoluzione dei quadri ispirata dal Presidente Putin.

Così, il successivo passo riformatore dovrà essere la formazione di una nuova élite di persone non soltanto leali, ma anche concrete. Può darsi che questa rivoluzione serva alla Russia molto più che non i miliardi provenienti dall’esportazione del petrolio.

* Ernest Sultanov è esperto della commissione parlamentare russa “Russia e mondo islamico: dialogo strategico”.

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Niente rimorsi per il Vietnam

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Se il tenente generale dell’Esercito ed ex sottosegretario alla Difesa degli Stati Uniti William G. Boykin se ne fosse rimasto a fare il pensionato, sarebbe ricordato come un militare che è stato presente sui teatri di guerra più importanti degli ultimi quarant’anni, oppure come il comandante di quell’ US Army Special Operations Command che scatena i Rangers. Invece egli rischia di passare alla storia come un predicatore con le stellette, figura non nuova nell’ US Army , ma certamente rarissima con un curriculum come il suo. E’ dal 2007 anno in cui è andato in pensione che il tenente generale Boykin è professore con il preciso compito di insegnare agli studenti dell’ Hampden-Sydney College in Virginia, «a pensare in modo critico e a comunicare in modo efficace».

E’ una docenza che s’è conquistata sul campo, fin da quando (2003) egli era sottosegretario alla Difesa e comandante della Delta Force (Intelligence) alla quale era stato affidato il compito di catturare Osama bin Laden e Saddam Hussein con tutti i suoi consiglieri. Molto aveva influito l’aspetto cipiglioso con il quale egli infiocchettava ogni sua dichiarazione che, turbava la serenità dei giornalisti di tutto il mondo presenti alle sue conferenze stampa. Infatti, non era cosa di tutti i giorni sentire un generale affermare che il suo massimo impegno era la lotta “contro Satana” e spiegarne il perché. « Sono consapevole », diceva, « che il nostro Dio è il più grande, è il vero Dio, mentre quello dell’avversario è soltanto un idolo. Lo affermo con il cuore sereno poiché non mi ritengo né un fanatico né un estremista, ma soltanto un soldato con una fede profonda».

Naturalmente non era il solo dell’entourage di George W. Bush che la pensasse così. In quegli anni altri personaggi altrettanto autorevoli sciorinavano dichiarazioni simili, amplificate puntualmente dai media americani. Tuttavia, sebbene nel seguito del Presidente ci fossero diversi rappresentanti della chiesa evangelica tutti accomunati, come Bush, da un rinnovato fervore religioso, nessuno esternava “in modo così efficace” come il tenente generale William G. Boykin.

Un personaggio che sarebbe apparso davvero lunare se non si sapesse che la fede, plasmata da quattro secoli di prediche dei pastori delle Chiese e dei tanti movimenti religiosi, è stata e lo è ancora, uno degli elementi fondamentali della formazione dell’identità americana. Infatti, è la nazione di gran lunga la più praticante di quanto lo siano quelle degli altri paesi industrializzati, almeno così sostengono numerosi osservatori . In un mondo nel quale la cultura e la religione diventano il pretesto su cui si forgiano alleanze, patti, antagonismi e guerre tra le genti di ogni continente, gli americani (o per essere più esatti quella maggioranza che aveva votato Bush e che ora sostiene Newt Gingrich o Mitt Romney, candidati alle prossime presidenziali), imperterriti si forgiano col “The Creed”, il Credo, dentro il quale si amalgama l’origine cristiana, la lingua inglese, il rule of law, la responsabilità dei legislatori, i diritti del singolo, e tutti quegli elementi spiccatamente protestanti come la fede nella capacità e nel dovere dell’uomo di provare a creare un paradiso in terra o, come viene detto in ambienti evangelici, “a city on the hill“, una città sulla collina. Insomma parlando fuor di metafora il “The creed” americano è come una sorta di Bauernfrühstück, la colossale omelette ripiena di legumi,di verdure e di patate che i tedeschi amano servirsi a colazione.

Se si tiene a mente questo scenario meglio si capisce lo slancio del tenente generale William G. Boykin nel volersi dedicare al delicato compito del docente. Beninteso, non è il suo l’unico esempio in tutti gli Stati Uniti, anzi. Ma serve a meglio spiegare un aspetto importante della società americana, poiché l’ Hampden–Sydney College, che inaugurò il suo primo corso di studi il 10 novembre del 1775 (avete letto bene), e ospita ben 1106 studenti ( solo maschi) provenienti da “30 states and several foreign countries”, si pubblicizza con corsi di studio esclusivi e perciò speciali come il programma Honors «progettato per lo studente che ha dato prova di un alto grado di curiosità intellettuale, d’indipendenza di pensiero, di entusiasmo per l’apprendimento e la conoscenza e che si adopera con il dialogo a tirar fuori il meglio dai suoi compagni e dai suoi insegnanti».[1]

Tuttavia nel corso di studi di quest’anno non si stimola la “curiosità intellettuale” con l’analisi di un evento di grande significato umano, come lo è stato – esattamente nel febbraio di cinquant’anni fa – la decisione del presidente Kennedy di autorizzare la guerra chimica nel Vietnam del Sud che presto si rivelò « l’aggressione più micidiale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale», come sentenzia Noam Chomsky nel suo recente articolo “Anniversaries From “Unhistory” . Con il quale precisa che «Il presidente Kennedy autorizzò la guerra chimica per distruggere le coltivazioni e ridurre alla resa le popolazione ribelle. Con il risultato che milioni di contadini furono costretti a vivere nei tuguri urbani e in veri e propri campi di concentramento, i così detti “Villaggi Strategici“». [2]

Naturalmente, sulla tragedia vietnamita non incombe il silenzio soltanto sul College della Virginia, ma – si è detto – su tutti gli Stati Uniti. Il giudizio non è esagerato poiché un intellettuale attento come l’americano Chomsky il silenzio lo coglie, e titola il suo articolo “Anniversari della non storia” suggerendo che siccome, «George Orwell coniò l’utile termine “non-persona” per le creature alle quali si nega lo statuto di persona perché non si piegano alla dottrina dello Stato, si potrebbe aggiungere il termine “non-storia” per indicare il destino delle non-persone espurgate dalla Storia per motivazioni del tutto simili a quelle elencate da Orwell».

La “ non storia” delle genti del Vietnam narra che tra il 1962 e il 1963, agli albori della “guerra americana” ( così l’hanno poi definita gli storici vietnamiti), si svolse l’Operazione Ranch Hand, la campagna pianificata di defoliazione delle foreste pluviali nella regione della foce del Mekong. Gli aerei e gli elicotteri dell’US Air Force sparsero erbicidi e defolianti ( il micidiale l’Agente Orange ), non soltanto sulla giungla, ma pure sui campi coltivati che – secondo la Cia – fornivano cibo ai vietcong , ignorando che già in quegli anni per l’approvvigionarsi essi avevano scavato una lunghissima serie di gallerie, che passeranno alla Storia col nome di “Sentiero di Ho Chi Minh”. [3]

All’inizio del 1965 si stimò che in quattro anni di guerra erano stati uccisi 89 mila sudvietnamiti, ai quali vanno aggiunti altri 66 mila (1957-1961), tutti vittime delle bombe, «del peso schiacciante dei blindati, del napalm, dei jet d’assalto e dei gas per stimolare il vomito», come ha scritto Brendan Wilcox in “Scorched Earth”, “ Terra bruciata”, il suo ultimo libro (2011) sugli effetti devastanti della guerra chimica . E’ una realtà che un testimone diretto , lo storico militare Bernard Fall ( non certo un pacifista come Brendan Wilcox ) aveva previsto: «La campagna», scrisse «sta letteralmente morendo sotto i colpi del più grande macchinario bellico che si sia mai avventato su un’area di queste dimensioni». [4]

L’ufficialità non smentisce quegli eventi. Nell’ultimo rapporto del Congresso americano (25 Luglio 2011), si legge che:

· dal 1961 al 1971, 19 milioni di galloni ( circa 72 milioni litri) di 15 differenti erbicidi, inclusi i 13 milioni di galloni ( circa 49 milioni litri) dell’ Agente Orange, sono stati versati sulle regioni del Vietnam del Sud. Molti di quegli erbicidi, Agente Orange incluso, contenevano diossina.

· Si stima che dai 2 milioni e cento mila ai 4 milioni e ottocento mila vietnamiti erano presenti durante le “irrigazioni” con l’ Agente Orange e di altri erbicidi. Ancora troppa gente vive in realtà contaminate e si nutrono con cibi infetti. Infine che moltissimi figli delle persone contaminate soffrono di malattie e di malformazioni.

· Oggi in Vietnam ci sono ancora decine le aree nelle quali coltivazioni, terreni, fauna selvatica sono avvelenati dalla diossina.

· Dagli effetti dell’ Agente Orange dipende la sorte degli uomini e delle donne in Vietnam e dei veterani negli Stati Uniti. La vita di molte persone s’ è accorciata, altre la consumano nella malattia, nella disabilità, nella disperazione.

Accade sovente che non venga riconosciuta ai veterani l’invalidità da avvelenamento con la diossina, e quindi sono privati delle cure mediche, delle medicine, e di tutto quello che rientra nell’assistenza pubblica o nei loro contratti con le compagnie di assicurazione. Anche questa è una “non storia” come direbbe Chomsky che leggono soltanto delle ristrette minoranze. Le grandi masse sono sospinte in ogni angolo di distrazione mediatica. Tutto viene escogitato pur di mantenere immutata – urbi et orbi – l’immagine di superiorità sociale ed economica che la “city on the hill” inalbera. E’ questa miscela di credenze religiose, di valori anglo-protestanti, di un militarismo vissuto e praticato, che le grandi lobby della Finanza incoraggiano e sostengono, e che il governo si adopera con ogni mezzo a diffondere. Insomma, quanto basta per ispirare le “grandi” menti come quella del politologo Samuel Huntington che scrive, «I governi dei Paesi musulmani avranno rapporti probabilmente sempre meno amichevoli con l’Occidente, e tra gruppi islamici e società occidentali si verificheranno di tanto in tanto scoppi di violenza ora contenuti ora anche molto intensi ».

A infondere nuova linfa a personaggi come il tenente generale Boykin bastano invece i secchi ordini del Pentagono, della Cia, persino dei figli d’ Israele. Stando così le cose non c’è dubbio che i “buoni soldati” si troveranno sempre. Dopo tutto John Kennedy non andò, (come si usa dire) tanto per il sottile: «Abbiamo un problema: rendere credibile la nostra potenza. Il Vietnam è il posto giusto per dimostrarla », rispose a James Reston, il mitico direttore del New York Times. Era il 12 giugno del 1961 . Dopo dieci mesi autorizzò l’impiego dell’ Agente Orange. Obama ci sta provando ora con i droni, gli aerei senza pilota.

http://www.vincenzomaddaloni.it/

NOTE:

[1] http://www.hsc.edu/
[2] http://www.vincenzomaddaloni.it/2012/02/anniversari-della-non-storia/
[3]http://it.wikipedia.org/wiki/Agente_Orange
[4]http://www.truth-out.org/scorched-earth-legacies-chemical-warfare-vietnam/1318963345 ; http://www.fredawilcox.com/scorched_earth__legacies_of_chemical_warfare_in_vietnam_99600.htm

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