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Channel: Sviluppo pacifico – Pagina 130 – eurasia-rivista.org
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La Cina e la Russia dovrebbero stabilire un’alleanza eurasiatica

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Dai Xu, 14 febbraio 2012

Non è che nel 2012, che il presidente statunitense Barack Obama ha presentato la nuova strategia militare che si concentra su Cina e Iran. Dopo di ché, gli Stati Uniti, da un lato hanno dichiarato di tenere esercitazioni congiunte con le Filippine, contro la Cina, e dall’altra parte, tre portaerei statunitensi entravano nel Golfo Persico. L’Unione Europea, a sua volta, impone l’embargo alle importazioni di petrolio iraniano. Gli Stati Uniti e l’Europa affrontano assieme l’Iran sul piano militare, politico, economico e diplomatico. Così la cosiddetta nuova strategia militare che minaccia la Cina ed è diretta contro l’Iran, è stata divulgata.

La nuova strategia militare degli Stati Uniti sembra trascurare Mosca, tuttavia, nel corso degli eventi dell'”inverno russo”, gli Stati Uniti hanno dimostrato il loro atteggiamento nei confronti di un Vladimir Putin che vuole tornare al Cremlino, per cui la posizione di Washington sulla Russia è assai ben nota. La Russia ha improvvisamente cominciato ad opporsi all’opzione militare statunitense contro l’Iran, indicandone con enfasi le motivazioni per la vendita di aerei da combattimento e di missili anti-aerei a Siria e Iran.

Nella strategia di conquista globale degli Stati Uniti, l’Eurasia è il principale campo di azione. Attualmente, i processi di isolamento e accerchiamento contro la Cina e la Russia, che integrano una potente forza, sono l’ultimo traguardo strategico. Poiché sono paesi che perseguono interessi comuni e hanno una missione importante nel mondo, la Cina e la Russia dovrebbero lavorare insieme per scoraggiare l’azione degli Stati Uniti nel fare pressione sui paesi deboli e per domare le ambizioni strategiche per la creazione dell’impero.

Possiamo dire che il riavvicinamento tra Cina e Russia è il risultato inevitabile di una pressione strategica degli Stati Uniti, e una scelta che le due parti hanno fatto per la propria sopravvivenza. In contrasto con la forza integrata dell’occidente, la Cina e la Russia, da sole, sono molto indietro rispetto agli Stati Uniti, e soltanto insieme hanno una forza potente. In termini economici, la Cina e la Russia sono reciprocamente complementari e possono evitare il blocco del mercato energetico e le restrizioni imposte dagli Stati Uniti. Una volta ridotto la dipendenza economica della comunità eurasiatica dagli Stati Uniti e dall’Europa, in termini politici esse otterranno maggiore libertà. Da un punto di vista militare, oltre a un vasto territorio, a una grande popolazione, a potenti eserciti, la Cina e la Russia sono anche potenze nucleari riconosciute, mentre gli Stati Uniti e la NATO non sono in grado di creare un efficace ambiente geografico. E’ importante che la Cina e la Russia siano i soggetti politici più resistenti del continente eurasiatico, avendo una lunga storia di civiltà e una avanzata base industriale e agricola. L’interazione tra la Cina e la Russia non solo promuove la sicurezza e lo sviluppo dei due stati, ma è anche in grado di attirare l’attenzione di altri paesi dell’Eurasia, tra cui l’Iran e il Pakistan, distruggendo i piani strategici degli Stati Uniti nella regione.

Ricordando gli eventi della Guerra Fredda, alcune persone credono che l’aperta relazione tra la Cina e la Russia, e in particolare, il supporto ai paesi nemici degli USA come Iran e Pakistan, verso cui gli Stati Uniti hanno un atteggiamento “aggressivo”, potrebbe portare a una nuova guerra fredda. In realtà, questo tipo di prova di forza renderebbe inaccettabile agli USA tale idea.

Oggi, gli Stati Uniti sono un paese che ha il maggior numero di alleati in tutto il mondo, tra cui quegli stati che non sarebbero entrati nell’alleanza. Anche l’India, nota per il suo non-allineamento della politica, partecipa a molte alleanze “invisibili”. Pertanto, la Cina e la Russia non devono preoccuparsene. La sicurezza negli interessi economici e nella cooperazione é la scelta dal minor costo.

La Cina deve rivedere la politica di non allineamento durante la Guerra Fredda, modificare le misure con cui affrontare gli affari internazionali, basandosi solo su interessi economici e su scopi pacifici, per pianificare il futuro sviluppo del paese dal punto di vista strategico. Contemporaneamente, con l’espansione sui mari, dovrebbe essere poco a poco conquistata la parte occidentale dell’Eurasia, al fine di costituire uno spazio con cui interferire nella strategia di contenimento degli Stati Uniti, per avere maggiori opportunità nella realtà moderna.

L’interazione tra la Cina e la Russia ha fornito la garanzia di base per il mantenimento della pace nel mondo del 21° secolo. L’America Latina rappresenta una forza esterna della comunità eurasiatica, Nell’Africa, che ha una potenza amica in Asia, vi sono anche molti sostenitori. Zbigniew Brzezinski ha detto una volta che l’unità dell’Eurasia è un incubo per gli Stati Uniti. A suo avviso, la connessione delle forze politiche in Eurasia farà sì che gli Stati Uniti non saranno in grado di dominare il mondo. La Cina e la Russia dovrebbero andare di pari passo e parlare con una sola voce su una vasta gamma di questioni. In ogni caso, meglio che assegnare il Premio Nobel a Barack Obama

Dai Xu, borsista presso il Centro per la ricerca strategica della Cina, Università di Beijing.

FONTE: http://www.gumilev-center.ru/?p=9657

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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La successiva fase della rinascita della Russia: Ucraina, Bielorussia e Moldavia

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8 Febbraio, Stratfor Global Intelligence

Gli stati ex-sovietici dell’Europa orientale Ucraina, Bielorussia e Moldavia sono importanti per la Russia per vari motivi, tra cui l’ubicazione geografica e le relazioni economiche. In genere, tutti questi stati cooperano con Mosca, ma i gradi di cooperazione variano. L’Ucraina comprende la necessità di forti legami con la Russia, ma lavora per giocare tra la Russia e l’Occidente per ottenere il maggior numero possibile di concessioni. La Bielorussia, in gran parte isolata dall’Occidente per motivi politici, dipende molto dalla Russia ed è già membro dell’unione doganale di Mosca con il Kazakhstan, quindi sarà meno resistente alla integrazione nell’Unione eurasiatica. La Moldavia è un paese diviso all’interno, trascinato da una parte verso le potenze occidentali e dall’altra parte verso Mosca, ed è destinato a rimanere politicamente paralizzato per il breve e medio termine.

Ucraina

Diversi fattori rendono l’Ucraina cruciale per la Russia. La sua posizione sulla pianura del Nord Europa e lungo il Mar Nero, ha fatto dell’Ucraina un percorso tradizionale per l’invasione da ovest. L’Ucraina è anche il secondo paese più grande dell’ex Unione Sovietica in termini di popolazione. Inoltre, l’Ucraina è la terza più grande economia dell’Unione Sovietica, e le sue industria, agricoltura ed energia sono integrate con quelle della Russia.

Le Leve della Russia

● Politica: il presidente ucraino Viktor Janukovich e il suo Partito delle Regioni godono di una relazione di sostegno con Mosca. La Russia ha anche legami con i leader dell’opposizione ucraina come l’ex primo ministro Julija Timoshenko e il politico di spicco Arsenij Jatsenjuk. Inoltre, gli oligarchi ucraini, come Dmitrij Firtash e Rinat Akhmetov, hanno mantenuto relazioni commerciali con la Russia.

● Sociale: i cittadini di origine russa rappresentano il 17 per cento della popolazione ucraina, e il 30 per cento degli ucraini parla russo come lingua madre. Inoltre, gli ucraini provengono dallo stesso gruppo etnico-linguistico slavo orientale dei russi (e dei bielorussi). La maggior parte del paese è cristiana ortodossa, e oltre il 10 per cento della popolazione ucraina è sotto il patriarcato di Mosca.

● Sicurezza: La Russia mantiene una presenza militare in Ucraina, stazionando la sua Flotta del Mar Nero in Crimea. Il servizio di sicurezza federale della Russia e il suo omologo ucraino collaborano nell’intelligence e nell’addestramento. Anche se l’Ucraina non è un membro dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO) guidata dalla Russia, non è neanche un membro della NATO.

● Economica: l’Ucraina ottiene più del 60 per cento del suo gas naturale dalla Russia, con cui può manipolare l’infrastruttura delle pipeline ucraina, tagliandone i rifornimenti. La Russia possiede molte risorse nel settore dell’industria metallurgica dell’Ucraina e rifornisce l’energia all’industria (oltre a mantenere rapporti commerciali con gli oligarchi del settore). La Russia fornisce all’Ucraina anche assistenza finanziaria o prestiti tramite la Sberbank e altre istituzioni finanziarie.

Successi, ostacoli e ambizioni della Russia

Tra il 2010 e il 2012, la Russia ha raggiunto molti dei suoi obiettivi in Ucraina. Mosca ha esteso il contratto di affitto di Sebastopoli per la Flotta del Mar Nero fino al 2042. La legislazione ucraina ha reso illegale l’appartenenza alla NATO, limitando i legami di Kiev con il blocco, e la fazione filo-occidentale del governo ucraino, guidata dall’ex presidente Viktor Jushchenko e il suo partito Nostra Ucraina-Autodifesa popolare sono stati emarginati. Una grave minaccia per i piani della Russia, gli accelerati negoziati tra Kiev e l’Unione europea, non sono stati completati nel 2011 come previsto, lasciando Ucraina senza accordi di associazione e di libero scambio con l’Unione e senza prospettive esplicite di adesione all’UE.

Nel 2012, Mosca spera di ottenere un certo grado di controllo sulle pipeline e sul sistema di immagazzinamento energetici dell’Ucraina, mantenendo elevati i prezzi del gas naturale e costringendo l’Ucraina a scambiare risorse energetiche con un gas più economico. La Russia vuole anche impedire che l’Ucraina si avvicini troppo all’Unione europea attraverso la creazione e la manipolazione di sfide interne che non mancheranno di tenere occupato Janukovich, e rendere l’Ucraina meno desiderabile agli europei. Inoltre, Mosca prevede di impedire a specifici stati membri dell’UE, in particolare Svezia e Polonia, e alla loro iniziativa di Partnership orientale, dal concentrarsi sull’Ucraina, mantenendo quei paesi divisi e concentrati su altre questioni.

Tuttavia, questo non significa che Mosca può fare quello che vuole in Ucraina. La più grande sfida alle ambizioni della Russia in Ucraina proviene dal governo ucraino, nonostante gli stretti legami del governo con Mosca. Non è nell’interesse di Janukovich o degli oligarchi che compongono la sua base di potere, cedere il controllo del sistema di transito del gas del Paese alla Russia, che non è solo una risorsa economica di vitale importanza, ma anche un simbolo della sovranità dell’Ucraina. È per questo che l’Ucraina ha continuato ad opporsi a vendere il sistema alla Russia e ad entrare nelle istituzioni guidate dai russi, come l’unione doganale, che minerebbe ulteriormente la sovranità economica di Kiev.

Oltre il 2012, Mosca vuole preparare l’Ucraina a una maggiore integrazione attraverso l’adesione all’Unione Eurasiatica, evolventesi in unione doganale e spazio economico comune.

La posizione e la strategia dell’Ucraina

Poiché storicamente è stata governata da molte potenze estere – Russia, Polonia, Austria-Ungheria e Impero Ottomano, – il territorio che costituisce la moderna Ucraina comprende popoli provenienti da culture diverse e con diverse visioni del mondo. La divisione più ampia in Ucraina è tra l’est, economicamente e culturalmente più integrato con la Russia, e l’ovest, più nazionalista, più vicino all’occidente e più favorevole all’adesione dell’Ucraina alle istituzioni occidentali, come l’Unione Europea. L’imperativo principale per ogni Stato ucraino è evitare che il paese si spacchi ed essere in equilibrio tra le potenze straniere per mantenere la sovranità.

Così, Janukovich, nonostante provenga dall’est dell’Ucraina e sostenga una piattaforma molto più amichevole verso la Russia di quella del suo predecessore, non è stato solo un alleato incondizionato di Mosca, durante la sua presidenza. Anche se ha fatto numerosi gesti favorevoli alla Russia, all’inizio del suo mandato, come passare la normativa giuridica per bloccare l’adesione alla NATO e la firma dell’accordo Gas – Flotta del Mar Nero, Janukovich ha poi cercato di bilanciarli con i negoziati dell’Ucraina con l’Unione europea, per firmare l’accordo di associazione e libero scambio (con cui Kiev spera di includere una disposizione per un’eventuale adesione all’UE).

Tuttavia, il fallimento dei negoziati dell’Ucraina con l’Unione europea, a causa della detenzione della Timoshenko, ha indebolito il contrappeso dell’Ucraina verso la Russia e costretto Kiev a una posizione difficile. L’Ucraina può soltanto cercare di pagare più di 400 dollari ogni mille metri cubi di gas della Russia, per un tempo sufficiente lungo, prima che i prezzi alti creino una crisi finanziaria; così si tratta davvero della questione di quando – e non se – l’Ucraina dovrà dare alla Russia almeno un certo controllo, o l’accesso al suo sistema energetico, in cambio di prezzi più bassi. Questo diminuirà la capacità di Kiev di manovrare ulteriormente nei confronti di Mosca, e farà in modo che, lo voglia o no, l’Ucraina infine debba tenere in conto gli interessi della Russia.

Bielorussia

La geografia gioca un grande ruolo nell’importanza della Bielorussia per la Russia. Il paese è situato sulla pianura nord europea, un percorso tradizionale d’invasione da ovest, e non ci sono barriere geografiche significative agli invasori, a causa del terreno pianeggiante del paese. La Bielorussia funge da tampone per il nucleo territoriale della Russia. La Bielorussia ha anche una delle maggiori economie dell’ex Unione Sovietica, e le sue industrie, energia e sicurezza sono integrate con quelle della Russia.

Le Leve delle Russia

● Politica: la Bielorussia e la Russia sono partner nello Stato dell’Unione, e il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko riceve il sostegno di Mosca. La Russia ha legami con i leader della sicurezza bielorussa e l’élite economica della Bielorussia ha rapporti d’affari con la Russia.

● Sociale: i cittadini di origine russa rappresentano l’11 per cento della popolazione bielorussa. La maggior parte della popolazione bielorussa parla il russo come lingua madre, e il russo e il bielorusso sono entrambe lingue ufficiali del paese. La maggior parte del paese è cristiana ortodossa, con circa il 60 per cento della popolazione sotto il patriarcato di Mosca. Bielorussi e russi hanno radici nello stesso gruppo etnico-linguistico slavo orientale e quindi hanno affinità culturali.

● Sicurezza: il complesso militare-industriale della Bielorussia è integrato con quella della Russia, e i due paesi hanno un sistema unificato di difesa aerea. La Bielorussia è un membro della CSTO a guida russa e ospita installazioni militari russe, come i sistemi di difesa aerea S-300. Inoltre, gli organismi d’intelligence bielorussi e russi hanno un rapporto di collaborazione, compresa l’addestramento.

● Economica: La Russia fornisce il 99 per cento del gas naturale della Bielorussia e la maggior parte del suo petrolio. La Russia possiede anche una quota del 100 per cento di Beltransgaz, dandogli la piena proprietà dei gasdotti del paese. Gli scambi commerciali tra i due Paesi sono importanti per l’economia bielorussa, la metà delle esportazioni bielorusse va in Russia. Inoltre, la Russia fornisce alla Bielorussia assistenza finanziaria, tra cui un prestito di 3 miliardi dollari attraverso la Comunità economica eurasiatica, e 1 miliardo di dollari di prestito dalla Sberbank.

Successi, ostacoli e ambizioni della Russia

L’influenza della Russia in Bielorussia non è stata incontrastata negli ultimi due anni. All’inizio del 2010, Lukashenko s’è scagliato contro Mosca per gli elevati prezzi dell’energia e ha iniziato a prendere in considerazione fornitori alternativi (Venezuela e Azerbaigian, in particolare), come modo per fare pressione sulla Russia ad abbassare i prezzi. Ma la Russia ha mantenuto alti i prezzi e tagliato il gas naturale alla Bielorussia, fino a quando Minsk ha accettato di cedere il controllo completo del proprio sistema di pipeline e di Beltransgaz a Mosca.

La Russia ha seguito diverse strategie per aumentare la sua influenza in Bielorussia. A partire dal 2010, Russia e Bielorussia si sono integrate economicamente e la Bielorussia ha aderito all’unione doganale russa, una entità che è diventata lo Spazio economico comune nel 2012. La Russia è stata in grado di limitare i legami verso occidente della Bielorussia e le aperture, attraverso la Polonia, dell’UE a Minsk, in vista delle elezioni bielorusse. Dopo le elezioni, l’Occidente ha scelto di isolare la Bielorussia, dando alla Russia la possibilità di aumentare il suo sostegno economico e politico a Lukashenko. Mosca ha anche migliorato la sua integrazione della sicurezza con Minsk, quando la Bielorussia ha aderito alla forza di reazione rapida della CSTO e ospitato lo schieramento di S-300.

Nel 2012, la Russia vuole proseguire i suoi sforzi di integrazione della Bielorussia. Lo spazio economico comune servirà gli interessi economici della Russia, ma Mosca vuole accedere agli asset economici più strategici della Bielorussia, quali le raffinerie e l’azienda dei sali di potassio Belaruskali. Politicamente, Mosca vuole che Minsk rimanga isolata dall’Unione europea e dall’Occidente. Militarmente, la Russia vuole utilizzare le vendite di armi e la partecipazione alla CSTO per avvicinare la Bielorussia. Dopo il 2012, la Russia vuole una completa integrazione strategica della Bielorussia, attraverso l’Unione Eurasiatica.

Posizione e strategia della Bielorussia

A differenza della Russia o dell’Ucraina, la Bielorussia è una società relativamente omogenea, sia culturalmente che politicamente. Questo ha facilitato la centralizzazione del potere di Lukashenko, che domina politicamente la Bielorussia dal 1994. Inoltre, a differenza della Russia o dell’Ucraina, la Bielorussia non ha sviluppato una potente classe di oligarchi; piuttosto, Lukashenko ha mantenuto un modello sociale ed economico molto simile al vecchio sistema sovietico, sin dai primi anni dell’indipendenza della Bielorussia. Governa il paese con un affiatato gruppo di élite, molti dei quali hanno legami con l’apparato di sicurezza e d’intelligence.

Anche se questa dinamica ha reso più facile il consolidamento del potere, complica un altro imperativo: l’equilibrio tra le potenze straniere per mantenere la sovranità economica, militare e politica.

La Bielorussia non si è mai allontanata troppo dalla Russia in termini di sicurezza o economia, tenuto conto dei requisiti delle riforme democratiche ed economiche necessarie per essere considerati membri della NATO e dell’UE. Tuttavia, i rapporti politici della Bielorussia con la Russia non sono stati così costanti, i due paesi hanno formato lo Stato dell’Unione nel 1997, ma questa vicinanza non ha impedito divergenze sulle questioni economiche che hanno portato periodicamente Lukashenko a guardare verso Occidente per la cooperazione, al fine di ottenere una leva sulla Russia. Data l’integrazione delle infrastrutture della Bielorussia con quelle della Russia, e le connotazioni politiche delle relazioni economiche, questo è più facile a dirsi che a farsi. I test di Minsk su Mosca su questioni quali i prezzi dell’energia, di solito sono fallite, come la recente acquisizione da parte di Gazprom di Beltransgaz ha dimostrato.

Paesi come la Polonia e la Lituania hanno interessi geopolitici nel corteggiare la Bielorussia, come il desiderio di stabilire ad est lo stesso tipo di tampone territoriale che la Russia desidera avere da ovest. Ma questi paesi non possono eguagliare l’influenza della Russia sulla Bielorussia, così hanno fatto ricorso a manovre di soft power, come la creazione di legami con gruppi di opposizione bielorussi e guidato sanzioni dell’UE contro il governo Lukashenko. Il successo della prima strategia è stato limitato, dal momento che i gruppi di opposizione affrontano numerosi vincoli. La seconda strategia è una minaccia più grave per il governo bielorusso, in quanto il governo di Lukashenko dipende da un modello populista economico e tali modelli s’indeboliscono in ambienti economicamente e finanziariamente poveri. Tuttavia, questo isolamento economico ha dato alla Russia la possibilità di fornire assistenza finanziaria e servire come ancora di salvezza economica della Bielorussia, un ruolo che Mosca continuerà a giocare per tutto il tempo in cui Lukashenko sarà sulla cresta dell’onda.

Andando avanti, la Bielorussia non avrà altra scelta, se non supportare la strategia e una più ampia rinascita della Russia, date le limitate opzioni di Minsk di ottenere sostegno da altre potenze. Pertanto, la Russia continuerà a integrare la Bielorussia, muovendosi verso la creazione dell’Unione Eurasiatica nel 2015.

Moldova

La posizione della Moldova la rende importante per la Russia. Si trova nella Bessarabia, tra i Carpazi e il Mar Nero, un percorso tradizionale d’invasione da sud-ovest e dagli Stati balcanici. Si trova vicino al porto strategico di Odessa e alla penisola di Crimea, dove la Russia staziona la sua Flotta del Mar Nero, e serve come parte della rete di transito dell’energia che collega la Russia all’Europa e alla Turchia.

Le leve della Russia

● Politica: L’ex presidente moldavo Vladimir Voronin e il suo partito comunista si trovano in partnership con la Russia. Mosca ha anche legami con i leader dell’Alleanza per l’Integrazione Europea (AEI), tra cui il primo ministro moldavo Vlad Filat e il presidente Marian Lupu. In particolare, la Russia sovvenziona la leadership della regione secessionista della Transnistria.

● Sociale: solo circa il 6 per cento della popolazione moldava è etnicamente russa, anche se in Transnistria il 30 per cento della popolazione è russa (e un altro 30 per cento è ucraino). Circa l’11 per cento dei moldavi parla russo come lingua madre, e circa il 16 per cento della popolazione ha il russo come lingua primaria. La maggior parte del paese è cristiana ortodossa, ma divisa tra ortodossa rumena e ortodossa russa.

● Sicurezza: La Russia mantiene circa 1.100 truppe in Transnistria (insieme ad un piccolo contingente di soldati ucraini). Anche se la Moldavia non fa parte del CSTO a guida russa, non è neanche membro della NATO.

● Economica: la Moldova dipende dalla Russia per il 100 per cento del gas naturale e invia il 20 per cento delle sue esportazioni in Russia (particolarmente importante è il vino, importazione che la Russia ha tagliato per ragioni politiche). La Russia controlla gran parte dell’economia in Transnistria – che pur essendo una regione separatista, è il cuore industriale della Moldova – e fornisce assistenza finanziaria e sovvenzioni alla Transnistria.

Successi, ostacoli e ambizioni della Russia

La Russia ha respinto i tentativi di smilitarizzare la Transnistria o consentire una presenza occidentale sul suo territorio. Tuttavia, Mosca ha dovuto fronteggiare alcune battute d’arresto in Moldova; i comunisti non sono al potere da quando il filo-occidentale AEI li ha cacciati dal potere nel 2009, dopo la “Rivoluzione Twitter”. Nonostante la sua posizione, l’AEI non è abbastanza forte da eleggere un presidente, per cui la Moldova è in stallo politico da quasi tre anni.

Gli obiettivi della Russia per il 2012 sono migliorare la propria posizione in Moldova, attraverso il rafforzamento del Partito comunista e formando relazioni indipendenti con i leader e i membri dell’AEI. Se la Russia non può aiutare i comunisti a riconquistare il potere, almeno vuole far rimanere divisa la Moldova e l’AEI incapace di eleggere un presidente filo-occidentale. Mosca potrebbe ottenere questo risultato complicando il processo politico e ostacolando i negoziati tra Moldavia e Transnistria. La Russia vuole anche mantenere la propria presenza militare e influenza politica in Transnistria, e iniziare a gettare le basi per un eventuale inserimento della Moldova nell’Unione Eurasiatica.

La posizione e la strategia della Moldova

Come l’Ucraina, la Moldova è sia debole che divisa. A differenza dell’Ucraina, la Moldova non ha legami tradizionali o etnici con la Russia, è rumena etnicamente e linguisticamente. Questo, insieme alla piccole dimensioni e allo scarso peso strategico della Moldava, è un fattore principale della debolezza dello Stato e della sua capacità di essere in equilibrio tra le potenze straniere.

La Moldova è divisa sia territorialmente che politicamente. Il governo moldavo non detiene la sovranità territoriale sulla Transnistria, che ospita una base militare russa ed è popolata in gran parte da russi e ucraini. La spaccatura all’interno della Moldova è politicamente dominata da due grandi gruppi: i comunisti filo-russi e la AEI, una coalizione di partiti che vogliono portare la Moldova verso occidente. L’AEI si articola ulteriormente, con alcuni elementi impegnati in stretti legami con la Romania e la NATO, mentre altri sono più flessibili nelle loro lealtà, ma in generale, tutti i partiti dell’AEI supportano l’integrazione moldava con l’Unione europea. Dal 2009, né il Partito comunista, né l’AEI sono in grado di ottenere abbastanza voti in parlamento (61 su 101) per eleggere un presidente, in modo che il paese è paralizzato e incapace di formare una politica estera decisiva da quasi tre anni. Queste divisioni significano che la visione e la strategia della Moldova non sono unificate. Tutti i leader della Moldova devono superare queste divisioni, al fine di consolidare il paese, solo allora la questione della Transnistria e le più ampie questioni di politica estera, saranno affrontate da Chisinau.

Potenze straniere, oltre alla Russia, hanno interessi in Moldova; prima fra tutte la Romania. Non solo la Moldova e la Romania condividono legami etnici e linguistici, ma anche il territorio che costituisce la Moldova e la Transnistria (così come parti occidentali dell’Ucraina) appartenevano alla Romania, come provincia di Moldavia, prima che la Russia annettesse il territorio come baluardo difensivo. Tuttavia, la Romania non è abbastanza forte per sfidare la Russia militarmente, e dato che la Moldova è il paese più povero d’Europa ed è sostanzialmente limitato dalla presenza e dall’influenza della Russia, le prospettive di adesione all’UE, nel vicino a medio termine, sono assai improbabili (anche se la distribuzione di passaporti rumeni ai cittadini moldovi, che gli permette di viaggiare nell’Unione europea, è un esempio di soft power della Romania verso il paese). Altri singoli stati membri dell’UE come la Polonia e la Svezia, vogliono avvicinare all’occidente la Moldova attraverso il programma di partenariato orientale, ma questo è un processo a lungo termine dagli effetti limitati.

La paralisi della Moldavia – politico, territoriale e geopolitica – dovrebbe persistere fino a che una potenza straniera sarà in grado di contestare la Russia nella regione in termini di hard power, piuttosto che soft power. Questo non è probabile che accada nel breve e medio termine.

FONTE: http://www.stratfor.com/analysis/next-stage-russias-resurgence-ukraine-belarus-and-moldova

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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Mikis Theodorakis, una scintilla per la Grecia

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Mikis Theodorakis, il maggiore compositore greco moderno, ha 87 anni, una tempra e un coraggio ancora invidiabili.

Celebrato in tutta Europa negli anni Settanta per la sua opposizione al regime dei colonnelli, è poi caduto nel dimenticatoio dei benpensanti di ogni tendenza per le sue intemperanze poco gradite agli “occidentali”: oggi è in prima fila nella contestazione del superpotere finanziario che sta mettendo in ginocchio la Grecia, costituendo anche un movimento – Spitha, “la scintilla” – che ha lo scopo di “resistere direttamente alle pressioni di Stati Uniti, Fondo Monetario Internazionale e Unione Europea”. “La sovranità nazionale – osserva Theodorakis – viene ceduta alle potenze straniere”.

In un’intervista a To Vima denuncia : “Il loro programma di ‘salvataggio della Grecia’ aiuta solo le banche straniere, proprio quelle che, attraverso i politici e i governi al loro soldo, hanno imposto il modello politico che ha portato alla crisi attuale (…) Se gli Stati non si impongono sui mercati, questi ultimi li inghiottiranno”, per cui si rende necessario “un protezionismo che attui un controllo drastico della Finanza”.

Nessuna eco hanno avuto le sue parole nei grandi media europei. La sua definitiva “espulsione” dalle grandi tribune dell’informazione risale al 2004, allorché in un’intervista rilasciata ad Haaretz si espresse in modo scandaloso : “Invece di chiedersi cosa vi sia di sbagliato nella politica di Israele gli ebrei dicono che gli europei sono contro di loro per antisemitismo. E’ una reazione malata. E’ una reazione da psicopatologia del popolo ebraico : gli ebrei vogliono sentirsi vittime, ‘Lasciateci creare un altro ghetto’. E’ una reazione masochista, vi è un masochismo psicologico nella tradizione ebraica”.

Theodorakis precisò nella stessa intervista : “Gli ebrei hanno in mano la la Finanza mondiale; controllano le grandi banche, e spesso i governi”.

Lei personalmente ritiene che gli ebrei, la comunità ebraica internazionale, abbia il controllo delle banche, di Wall Street, dei media ?

E Lei afferma che, influenzando Bush, ha il controllo della politica mondiale ?

Dunque gli ebrei tirano le fila alle spalle di Bush ?
No, loro stanno davanti a lui”.

Un provocatore ieri come oggi, Mikis Theodorakis, e anche un personaggio simbolo della Grecia che non si arrende.

* Aldo Braccio è redattore di Eurasia

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Nasce l’Unione Eurasiatica

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Editoriale:

Claudio Mutti, Verso l’Unione Eurasiatica

Geofilosofia dell’Eurasia

Alberto Buela, Propedeutica alla teoria politica
Claudio Mutti, Nietzsche e l’Eurasia

Dossario: Russia

Aleksandr G. Dugin, Nasce l’Unione Eurasiatica
Andrea Fais, Le elezioni parlamentari: una svolta (geo)politica e sociale
Jean Géronimo, Alla ricerca di un’identità postsovietica
Jean Géronimo, Crisi del gas. Torna Brzezinski?
V. V. Ivanter – J. Sapir, L’economia russa nella crisi finanziaria
Alessandro Lattanzio, Le forze strategiche della Russia
Aleksandr Latsa, Battaglia per Mosca
Mahdi Darius Nazemroaya, Verso una nuova realtà geopolitica
Igor N. Panarin, La nuova ideologia di Putin: lo sviluppo della civiltà russa
Spartaco A. Puttini, La Russia di Putin sulla scacchiera
Nikolaj S. Trubeckoj, Il problema dell’autocoscienza russa
Stefano Vernole, Un’alleanza economica sgradita agli USA
Ermanno Visintainer, Nursultan Nazarbayev, antesignano dell’Unione Eurasiatica
Gennadij A. Zjuganov, Le idee geopolitiche in Russia
Gennadij A. Zjuganov, I contorni geopolitici della Russia di domani

Continenti

Miguel A. Barrios, Strategia e geopolitica dell’America Latina (prima parte)
Jean Claude Paye – Tulay Umay, Wikileaks: un’opposizione virtuale
Matteo Pistilli, Il concetto di “sviluppo” dal 1945 ai nostri giorni

Interviste

Aleksandr Sam, I compiti del KGB in Bielorussia. Intervista al gen. Vadim Zaisev
Filippo Pederzini, Una piccola crisi diplomatica. Intervista a Mauro Murgia

Documenti

AA. VV., Il Patto di non aggressione tedesco-sovietico
Sergej N. Martinov, Discorso all’ONU
Jean Thiriart, Praga, l’URSS e l’Europa

Recensioni

C. Mutti, Stephan Baier – Eva Demmerle, Otto d’Asburgo. La biografia autorizzata
C. Mutti, Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, Il golpe inglese
C. Mutti, Pio Filippani Ronconi, Zarathustra e il mazdeismo
C. Mutti, Ermanno Visintainer, Ahmed Yassawi. Sciamano, sufi e letterato kazako
L. L. Rimbotti, Johann von Leers, Contro Spengler

Leggi l’elenco degli articoli con un breve sommario per ciascuno di essi

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Verso l’Unione Eurasiatica

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Editoriale del numero XXV (1-2012)

Nell’assumere la direzione di “Eurasia”, che le Edizioni all’insegna del Veltro pubblicano dal 2004, rivolgo un ringraziamento ai redattori, ai collaboratori ed a tutti coloro – in particolare il CPE – che finora hanno in vario modo sostenuto la rivista; esprimo la gratitudine mia e della redazione a Tiberio Graziani per averla portata ad un livello qualitativo che viene unanimemente riconosciuto come eccellente; ringrazio infine Alessandra Colla per aver generosamente accettato la carica di responsabile legale in questa nuova fase della vita di “Eurasia”.

Un memore e commosso pensiero va a Carlo Terracciano, l’intellettuale militante che mi esortò a pubblicare una rassegna di geopolitica in un’epoca in cui tale disciplina, dopo essere stata considerata con sospetto perché associata al nome sulfureo di Karl Haushofer (e, in Italia, alla rivista fascista “Geopolitica”), veniva riproposta al pubblico italiano da un gruppo redazionale di orientamento atlantista che aveva scelto di cavalcare la tigre della “riscoperta” della geopolitica.

A tale sfida “Eurasia” ha risposto fornendo ai propri lettori le analisi idonee ad inquadrare le relazioni tra gli Stati e ad approfondire il significato delle dottrine degli attori internazionali, sforzandosi al contempo di prospettare scenari alternativi imperniati sull’idea di sovranità. L’adozione dei criteri interpretativi geopolitici, contrastando efficacemente i dogmi ideologici funzionali al dominio imperialista, ha fatto sì che intorno alla rivista si formasse una vasta rete di qualificati collaboratori di varia origine nazionale, politica, culturale e confessionale, i quali hanno avvertito l’esigenza di sostituire le vecchie e desuete mappe concettuali con strumenti analitici adeguati ad una situazione storica nuova ed in continuo cambiamento.

“Eurasia” si è dunque proposta di essere, come recita il suo sottotitolo, una “rivista di studi geopolitici”, vale a dire un laboratorio di idee nel quale ci si propone di procedere secondo criteri oggettivi e metodi d’indagine lato sensu “scientifici”. Ma ciò non deve far pensare che la ragion d’essere di questa rivista si esaurisca in un ozioso esercizio di analisi ispirato ad un’illusoria neutralità: la scelta stessa di chiamarsi “Eurasia” definisce il punto d’osservazione da cui questa comunità redazionale considera ed esamina gli eventi mondiali, nonché l’obiettivo ideale verso cui si dirigono i suoi sforzi teorici.

Sarebbe facile obiettare che il termine “Eurasia” non corrisponde ad un concetto univoco e condiviso. Tuttavia, se bisogna precisare il termine in questione sulla base della definizione di continente generalmente accettata, allora i confini naturali dell’Eurasia sono quelli segnati dai mari e dagli oceani che la circondano: l’Artico, il Pacifico, l’Indiano e l’Atlantico. A questa unità geografica corrisponde, al di là di una rigogliosa molteplicità di forme, una essenziale unità eurasiatica, che è stata colta da studiosi come Marcel Mauss, secondo il quale “dalla Corea alla Bretagna esiste un’unica storia, quella del continente eurasiatico”; o come Mircea Eliade, assertore della “unità fondamentale non solo dell’Europa, ma di tutta l’ecumene che si estende dal Portogallo alla Cina e dalla Scandinavia a Ceylon”; o come Giuseppe Tucci, che riassumeva tale concetto dicendo: “Io non parlo mai di Europa e di Asia, ma di Eurasia”.

Nella prospettiva di un progetto geopolitico, l’unità eurasiatica può essere pensata come un’alleanza dei grandi spazi in cui il continente si articola: lo spazio russo, quello estremo-orientale, quello indiano, quello europeo, quello dell’Islam nordafricano e vicino-orientale. Alcuni di questi grandi spazi sono già oggi polarizzati intorno ad un soggetto politico sovrano (è il caso della Cina, dell’India, della Russia), mentre altri (la fascia islamica del Mediterraneo, l’Europa) sono ancora privi, del tutto o in parte, di unità e di sovranità politica e militare.

La Russia, in particolare, sta sviluppando un’azione aggregatrice per restaurare in parte quell’unità che si è disgregata col crollo dell’URSS. Il 1 gennaio 2012, infatti, è entrato ufficialmente in vigore l’accordo siglato da Russia, Bielorussia e Kazakhstan per l’istituzione di un’unione doganale preliminare all’unificazione dell’economia delle tre repubbliche. In un articolo pubblicato dal quotidiano “Izvestia” che ha suscitato l’allarme dei commentatori occidentalisti, Vladimir Putin ha definito lo Spazio Economico Unico “un traguardo di portata storica non solo per i tre paesi, ma anche per tutti gli Stati postsovietici”. Nel caso di una sua rielezione alla guida della Russia, Putin prospetta il passaggio di questi tre paesi ad una fase ulteriore di coordinamento e quindi alla nascita del nucleo di una Unione Eurasiatica, alla quale dovrebbero successivamente aderire Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Armenia, Moldova e Ucraina. L’Unione Eurasiatica rivitalizzerebbe così il progetto della Comunità Economica Eurasiatica (EurAsEC) formulato nel 2000 dagli Stati della CSI e rinsalderebbe sotto il profilo economico l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (la “NATO dell’Est”) istituita nel 2002.

Questo progetto d’integrazione dello spazio postsovietico, che assegna all’Unione Eurasiatica un ruolo di efficace connessione tra l’Europa e l’Estremo Oriente, trova sostegno sia in Russia sia in altri paesi della CSI. “Una grande parte della popolazione delle repubbliche della CSI – ha commentato il politologo Sergej Cernjakhovskij – si pronuncia per varie forme di ripristino dell’Unione Sovietica. La libera circolazione dei capitali sarà interessante anche per gli imprenditori. Tra le maggiori forze politiche l’idea è vicina ai comunisti, ai nazionalisti, ai conservatori e ad una parte dei liberali. Ho l’impressione che Putin farà di questo progetto il compito centrale della sua presidenza. Anche se riuscirà ad unire in tal modo 4-5 repubbliche, si garantirà un posto nella storia. Putin desidera realizzare un’impresa di grande rilevanza”.

“Eurasia”, che fin dalla sua nascita ha guardato con particolare attenzione alla funzione geopolitica della Russia, inaugura la sua nuova serie ritornando ad occuparsi di questo tema fondamentale.

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Vasile Lovinescu, Rex absconditus

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Su tutta l’area eurasiatica si trova diffuso, in numerose varianti, il tema mitico del re (o dell’eroe) che, in attesa di ricomparire per intraprendere un’azione restauratrice, rimane per un periodo indefinito in uno stato di occultamento. La forma più nota di questo archetipo è costituita dalla figura del Mahdi, la quale riveste un particolare rilievo nel contesto dell’Islam sciita, dove è identificata con la persona del Dodicesimo Imam.

Ma l’archetipo in questione è presente anche in altre culture dell’Eurasia: da quella celtica (Re Artù) a quella medioevale (Carlo Magno, Federico I e Federico II di Svevia) a quella tibetana (Gesar de Ling). Secondo una leggenda serba, Marko Kraljevic è vivo e dorme nel monte Urvina col suo cavallo Sarac; quando la sua spada sarà uscita tutta quanta dal monte, Marko si sveglierà e libererà il suo popolo. Una leggenda analoga riguarda il re boemo Wenzel. Meno noto, ma altrettanto interessante, è il fatto che presso i Lipoveni (“vecchi credenti” stabilitisi nel Delta del Danubio) era diffusa fino a poco tempo fa l’attesa di un futuro ritorno di Napoleone.

A questa galleria di figure storiche transitate nel mito appartiene anche Stefano il Grande, voivoda di Moldavia. Secondo il saggio di Vasile Lovinescu tradotto in questo “elettrolibro” delle Edizioni all’insegna del Veltro, sarebbe proprio Stefano il Grande il personaggio raffigurato in un’icona del XVII secolo ai piedi dell’Arcangelo Michele “che fa il gesto dell’androgine ermetico” (come osservò René Guénon commentando la foto dell’icona).

Vasile Lovinescu, Rex absconditus, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012, pp. 52, € 2,99

http://www.insegnadelveltro.it/libreria/?p=1808

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L’ennesimo pretesto per dichiarare guerra?

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Global Research, 15 febbraio 2012

Gli sforzi statunitensi e israeliani di addossare all’Iran le responsabilità del terrorismo internazionale si sono spostati a un livello globale? Una serie di attacchi con esplosivi che avevano apparentemente come bersaglio diplomatici israeliani in India e Georgia sono stati collegati alle esplosioni verificatesi a Bangkok, capitale della Thailandia, per le quali secondo gli organi di informazione sono stati arrestati tre soggetti di nazionalità iraniana.

Israele si è affrettato a sostenere che gli ordigni esplosivi utilizzati in Thailandia sono dello stesso tipo delle “bombe adesive” impiegate per gli attacchi di Nuova Delhi e Tbilisi, e che questa rappresenterebbe la prova che una rete terroristica di matrice iraniana stia conducendo una campagna volta ad uccidere i suoi rappresentanti diplomatici all’estero.

“Il fallito attacco terroristico di Bangkok mostrano una volta di più come lo Stato iraniano e i suoi alleati continuino a promuovere il terrore”, ha detto il ministro della difesa di Israele Ehud Barak.

La polizia thailandese ha identificato uno degli individui rimasti feriti nelle esplosioni di martedì a Bangkok come un cittadino di nazionalità iraniana. Stando a quanto riportato sarebbero iraniani anche altri due individui tratti in arresto, uno nella capitale tailandese e l’altro catturato dopo avere preso un volo diretto in Malaysia.

Fino a questo momento le autorità thailandesi si sono rifiutate dall’esprimere qualsiasi commento riguardo alla possibilità che la cellula faccia parte di una rete terroristica internazionale. Gli autori degli attacchi in India e in Georgia sono ad ora sconosciuti. Israele ha comunque sostenuto che gli apparenti tentativi di omicidio perpetrati lunedì a Nuova Delhi e a Tbilisi siano un’operazione condotta da Hezbollah (in collaborazione con l’Iran) al di fuori del Libano.

Le dichiarazioni di Israele richiamano le accuse che Washington e Tel Aviv lanciano da lungo tempo nei confronti dell’Iran, accusato di essere sponsor del terrorismo globale. Alla fine dell’anno passato il governo statunitense aveva reso noto di avere scoperto un complotto iraniano volto ad assassinare l’ambasciatore dell’Arabia Saudita a Washington. Il presunto complotto, poi sventato, è diventato oggetto di scherno una volta svelati i suoi dettagli perlomeno bizzarri: al centro vi sarebbe stato un rivenditore iraniano di auto usato in accordo con un cartello del narcotraffico messicano che avrebbe avuto intenzione di portare a termine l’omicidio all’interno di un ristorante della capitale statunitense.

Nonostante ciò, non vi sono dubbi che gli ultimi incidenti di questa settimana finiranno col rinfocolare le ripetute accuse dei governi occidentali verso l’Iran, “Stato canaglia” che rappresenterebbe una grave minaccia alla sicurezza globale in particolare per covare sinistre “ambizioni per procurarsi delle armi nucleari”. In un quadro generale tutto questo converge a una legittimazione dei piani USA/NATO/Israele per muovere guerra all’Iran. Si ritiene che Washington abbia concesso a Israele un tacito “semaforo verde” per lanciare attacchi militari preventivi contro la Repubblica Islamica. In un contesto del genere le ultime dichiarazioni provenienti da Tel Aviv relativamente ai tentativi dell’Iran di uccidere i suoi rappresentati diplomatici all’estero potrebbero fungere da miccia per i piani d’attacco da lungo tempo in via di preparazione.

Un’occhiata più accurata a questi recenti incidenti con esplosivi fa sorgere però seri interrogativi circa la credibilità di tali accuse, e lascia intendere piuttosto che possano essere parte di una campagna di operazioni false flag atta a giustificare un’aggressione imminente ai danni dell’Iran.

Per prima cosa gli ordigni esplosivi apparentemente utilizzati in Thailandia, India e Georgia erano le cosiddette bombe adesive, così denominate perché possono si possono attaccare magneticamente ai veicoli per mettere a segno omicidi mirati di determinati personaggi. Nel caso dell’attacco di Nuova Delhi un uomo in motocicletta si è avvicinato alla macchina del corpo diplomatico israeliano e ha agganciato l’ordigno. Nell’incidente avvenuto a Tbilisi l’ordigno è stato apparentemente sotto la carrozzeria del veicolo. Nessuno dei diplomatici apparentemente bersagli delle operazioni ha subito ferite gravi.

Questo metodo per condurre omicidi mirati è stato però precedentemente impiegato con risultati letali per eliminare quattro scienziati nucleari iraniani in diversi attacchi. La più recente vittima iraniana di questo tipo di attentati è stato il trentaduenne Mostafa Armadi Roshan, ucciso dopo che gli assalitori a bordo di una motocicletta avevano attaccato una bomba magnetica alla sua automobile a Teheran. Il governo iraniano ha dichiarato sulla base di argomentazioni piuttosto credibili che la campagna di omicidi contro i suoi scienziati nucleari sarebbe opera delle agenzie di intelligence statunitensi e israeliane. L’uso che statunitensi e israeliani fanno di cittadini di nazionalità iraniana come esecutori materiali per condurre operazioni di questo genere costituisce un modus operandi ormai dimostrato.

L’Iran da parte sua ha categoricamente negato qualsiasi coinvolgimento nei recenti attacchi terroristici in India, Georgia e Thailandia, così come nel presunto complotto contro il rappresentante diplomatico saudita a Washington. Si riscontrano dettagli piuttosto credibili nelle smentite iraniane. Che cosa guadagnerebbe l’Iran da azioni simili, a parte condanne e ulteriori problemi rispetto a quanti ha già adesso?

Ciò ha del vero soprattutto in relazione a quanto successo in India e in Thailandia. Entrambi i Paesi asiatici sono diventati partner commerciali importantissimi per Teheran nel corso degli ultimi anni. L’India è, assieme alla Cina, il principale cliente dell’Iran per quanto riguarda l’industria petrolifera (fondamentale per l’economia persiana).

La Thailandia sta assumendo rilevanza sempre maggiore nella veste di partner commerciale dell’Iran per il petrolio, risorse minerarie, industria pesante, servizi, tecnologia e agricoltura; questo specialmente dopo che cinque anni fa le due Nazioni hanno istituito una società mista per l’interscambio commerciale.

Perpetrare attacchi del genere, come si vuole far credere, sarebbe per l’Iran come spararsi ad un piede, soprattutto dal momento che entrambi i Paesi asiatici si sono rifiutati di aderire alla campagna promossa dagli Stati Uniti d’America per isolare Teheran economicamente e diplomaticamente.

Viceversa è molto più nell’interesse di Washington e di Israele destabilizzare i rapporti tra l’Iran e i suoi partner in Asia. Le ripercussioni delle esplosioni in India sembrerebbero in effetti aver raggiunto tale scopo.

Si consideri a tal proposito il seguente dispaccio della Reuters. Finora l’India non ha mostrato l’intenzione di accodarsi alle nuove sanzioni finanziarie studiate dagli USA e dall’Unione Europea per punire l’Iran in relazione al suo discusso programma atomico. Nuova Delhi ha invece approntato nuove misure commerciali e di scambio per pagare le forniture di petrolio iraniano. Il presidente dell’Associazione degli Esportatori di Riso dell’Unione Indiana ha comunque detto che l’attacco che lunedì ha causato il ferimento della moglie di un diplomatico israeliano nella capitale indiana arrecherà un danno allo scambio commerciale tra i due Paesi e potrebbe finire per complicare uno stallo verificatosi sul pagamento da parte iraniana per l’importazione di scorte di riso pare in totale a 150 milioni di dollari. “L’attentato e le sue conseguenze sul piano politico hanno evidentemente cambiato l’atmosfera in negativo. I commercianti che già prima erano in perdita a causa dei mancati pagamenti saranno estremamente reticenti in futuro a continuare i loro scambi con i compratori in Iran”, ha detto Vijay Setia all’agenzia Reuters.

Facciamo quindi qualche calcolo. Sommiamo: squadre di attentatori esplosivi che impiegano tattiche e metodi usati da USA e Israele per condurre omicidi mirati; i Paesi coinvolti sono tra i principali partner di Teheran; l’effetto che si cerca è di isolare ancora di più l’Iran sullo scenario internazionale; per finire, “ciliegina sulla torta”, ecco il pretesto che da tanto tempo Israele andava cercando per aggredire l’Iran con la benedizione statunitense.

Quando la logica e i dati di fatto vanno a coincidere in un modo simile, di solito è più consigliabile dare ascolto alla razionalità piuttosto che soffermarsi su acuse infamanti.

Finian Cunningham è corrispondente di Global Research per il Medio Oriente e l’Africa Orientale

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Fine dei giochi in Medio Oriente

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Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, Damasco (Siria), 4 Febbraio 2012

Mentre i combattimenti non sono ancora finiti nei quartieri ribelli di Homs e le autorità siriane e libanesi devono ancora dare comunicazione della loro recente azione, Thierry Meyssan ha tratto un primo bilancio delle operazioni di lunedì notte, sul primo canale russo; informazioni di prima mano che condivide con i lettori della rete Voltaire.

Da undici mesi, le potenze occidentali e del Golfo conducono una campagna per destabilizzare la Siria. Diverse migliaia di mercenari si sono infiltrati nel paese. Reclutati dai centri in Arabia Saudita e Qatar della comunità sunnita estremista, sono giunti per rovesciare l'”usurpatore alawita” Bashar al-Assad e imporre una dittatura d’ispirazione wahhabita. Hanno le più sofisticate attrezzature militari, compresi sistemi di visione notturna, centri di comunicazione e robot per la guerriglia urbana. Supportati sottobanco dalle potenze della NATO, hanno anche accesso alle necessarie informazioni militari, tra cui immagini satellitari dei movimenti delle truppe siriane e intercettazioni telefoniche.
Questa operazione è falsamente presentata al pubblico occidentale come una rivoluzione politica schiacciata nel sangue da una dittatura spietata. Naturalmente, questa menzogna non è universalmente accettata. Russia, Cina e gli Stati americani membri dell’ALBA la respingono. Ognuno ha infatti le esperienze storiche che gli permettono di capire velocemente la posta in gioco. I russi pensano alla Cecenia, i cinesi al Xinkiang e gli americani a Cuba e al Nicaragua. In tutti questi casi, tranne l’aspetto ideologico o religioso, i metodi di destabilizzazione della CIA sono gli stessi.

La cosa più strana in questa situazione è osservare i media occidentali auto-convincersi che i salafiti, i wahabiti e i combattenti di al-Qaida amino la democrazia, mentre continuano a fare appello, sui canali satellitari di Arabia Saudita e Qatar, ad uccidere gli eretici alawiti e gli osservatori della Lega Araba. Non importa se Abdelhakim Belhaj (numero 2 di al-Qaida e attuale governatore militare di Tripoli, in Libia) sia venuto personalmente per installare i suoi uomini nel nord della Siria, e Ayman al-Zawahiri (numero uno di al-Qaeda, dalla morte ufficiale di Usama bin Ladin) abbia fatto appello alla jihad in Siria, la stampa occidentale continua il suo sogno romantico sulla rivoluzione liberale.

La cosa più ridicola, è sentire i media occidentali ripetere servilmente le accuse quotidiane del ramo siriano della Fratellanza Musulmana che diffonde notizie sui crimini del regime e le sue vittime, sotto la firma dell’Osservatorio siriano dei diritti dell’uomo. E poi, da quando questa confraternita di golpisti si occupa di diritti umani?

Sarebbe bastato ai servizi segreti occidentali creare un “Consiglio nazionale siriano” fantoccio, che ha per presidente un professore della Sorbona e per portavoce l’amante dell’ex capo della DGSE, affinché i “terroristi” siano diventati “democratici”. In un batter d’occhio, la menzogna diventa verità mediatica. Le persone rapite, mutilate e uccise dalla Legione wahhabita, nella stampa sono diventate vittime del tiranno. I coscritti di tutte le fedi che difendono il loro paese contro l’aggressione, sono diventati soldati settari alawiti che opprimono il loro popolo. La destabilizzazione della Siria da parte di stranieri è diventato un episodio della “Primavera araba”. L’emiro del Qatar e il re saudita, due monarchi assoluti che non hanno mai indetto elezioni nazionali nei loro paesi e che reprimono i manifestanti, sono diventati campioni della rivoluzione e della democrazia. Francia, Regno Unito e Stati Uniti, che hanno appena ucciso 160.000 libici in violazione del mandato ricevuto dal Consiglio di Sicurezza, sono diventati filantropi responsabili della protezione delle popolazioni civili. ecc.

Tuttavia la guerra a bassa intensità che la stampa occidentale e del Golfo nascondono dietro questa mascherata, si è conclusa con il doppio veto di Russia e Cina del 4 Febbraio 2012. Alla NATO e ai suoi alleati è stato intimato di cessare il fuoco e di ritirarsi, o di rischiare una guerra regionale, o anche mondiale.

Il 7 febbraio, una folta delegazione russa, tra cui il più alto responsabile dell’intelligence estera, giungeva a Damasco dove veniva salutata da folle plaudenti, certe che il ritorno della Russia sulla scena internazionale segnava la fine dell’incubo. La capitale, ma anche Aleppo, la seconda città più grande, si sono impavesate nei colori bianco, blu e rosso, e hanno marciato dietro striscioni scritti in cirillico. Al palazzo presidenziale, la delegazione russa ha incontrato le delegazioni di altri stati, tra cui Turchia, Iran e Libano. Una serie di accordi è stata raggiunta per il ritorno alla pace. La Siria ha restituito 49 istruttori militari catturati dall’esercito siriano. La Turchia è intervenuta per liberare gli ingegneri e i pellegrini iraniani rapiti, anche quelli sequestrati dai francesi (a proposito, il tenente Tlass che li sequestrava per conto della DGSE, è stato liquidato). La Turchia ha cessato ogni supporto al “libero esercito siriano”, ed ha chiuso i suoi impianti (ad eccezione di quello nella base NATO di Incirlik), e ha consegnato il suo comandante, il colonnello Riad al-Assad. La Russia, che è il garante degli accordi, è stata autorizzata a riattivare la base sovietica di intercettazione sul Monte Qassioum.

Il giorno dopo, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha informato l’opposizione siriana in esilio che non poteva più contare su un aiuto militare. Rendendosi conto che hanno tradito il loro paese per niente, i membri del Consiglio nazionale siriano andranno in cerca di nuovi sponsor. Uno di loro è anche arrivato al punto di scrivere a Benjamin Netanyahu, chiedendogli di invadere la Siria.

Dopo i due giorni necessari per l’attuazione degli accordi, non solo l’esercito nazionale della Siria, ma anche quello del Libano, hanno preso d’assalto le basi della Legione wahhabita. Nel nord del Libano, un massiccio arsenale è stato sequestrato a Tripoli e quattro agenti occidentali sono stati fatti prigionieri ad Akkar, in una scuola dell’UNRWA abbandonata e trasformata in quartier generale militare. In Siria, il generale Assef Shawkat in persona ha diretto le operazioni. Almeno 1.500 combattenti sono stati catturati, tra cui un colonnello francese dei servizi tecnici di comunicazione della DGSE, e più di mille persone sono state uccise. In questa fase non è possibile determinare quante vittime vi siano tra i mercenari stranieri, quanti tra i siriani che hanno collaborato con le forze straniere, e quanti tra i civili intrappolati nella città in guerra.

Libano e Siria hanno ripristinato la loro sovranità sul loro territorio.
Degli intellettuali discutono se Vladimir Putin non abbia commesso un errore nel proteggere la Siria al costo di una crisi diplomatica con gli Stati Uniti. Questa è una domanda mal posta. Ricostituendo le proprie forze per anni e affermandosi sulla scena internazionale di oggi, Mosca ha concluso due decenni di ordine mondiale unipolare, in cui Washington poteva estendere la sua egemonia fino ad ottenere il dominio globale. La scelta non era tra allearsi con la piccola Siria o con degli stati potenti, ma o di lasciare che la prima potenza mondiale distruggesse un altro stato o che la Russia sconvolgesse l’equilibrio del potere e creasse un ordine internazionale più giusto dove la Russia abbia una voce in capitolo.

FONTE: http://www.voltairenet.org/Fin-de-partie-au-Proche-Orient

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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Inghilterra: un impero destinato al tramonto?

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“Situazione imbarazzante” potrebbe essere la frase in grado di riassumere il pensiero della Regina Elisabetta e del Primo Ministro Britannico Cameron. Ad oggi sembrano ben lontani i tempi in cui l’Inghilterra si ergeva al centro delle strategie geopolitiche del Vecchio Continente: da qui partivano le direttive d’oltre oceano (Stati Uniti) per il vecchio continente, sulle politiche internazionali da spalleggiare. L’Inghilterra oggi sembra un po’ più sola, intenzionata a trarre in salvo la propria economia dal vortice instabile della Comunità Europea, ma allo stesso tempo priva dell’appoggio del transatlantico Statunitense, arenatosi in un improvvisa multipolarità mondiale. Oggi l’Inghilterra appare meno forte ed alla ribalta della cronaca solo per gossip reali che tutt’al più la dipingono simpatica e lungi dall’essere temibile come in passato. Forse è proprio questa parvenza di vulnerabilità a spingere alcuni membri del Commonwealth a palesare una voglia di cambiamento sino ad oggi impensabile.

Il Commonwealth nasce nel periodo coloniale (British Commonwealth of Nations) con lo scopo di identificare l’estensione del controllo geopolitico del Regno di Gran Bretagna: domini, colonie, protettorati e territori in amministrazione fiduciaria sparsi in tutto il mondo, dalla vicina Irlanda, all’Australia passando per le Americhe. Tale comunità vede però il suo atto costitutivo nel 1926 con la Dichiarazione di Balfour, con la quale si pongono alla base dell’intero Commonwealth due principi cardine: la fedeltà alla Corona Britannica e il rispetto delle autonomie locali. In poche parole c’è un riconoscimento dell’autonomia dei singoli Stati che agiscono nel rispetto e sotto il benestare della Corona Inglese. Attualmente la comunità del Commonwealth è costituita da Regno Unito – comprendente Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda del Nord e 15 isole tra cui le Malvinas (o Falkland) -Canada, Sudafrica, Australia, Nuova Zelanda, India, Pakistan (sospeso nel 2007), Sri Lanka, Ghana, Malaysia, Nigeria, Cipro, Sierra Leone, Giamaica, Trinidad e Tobago, Uganda, Kenya,Tanzania, Malawi, Malta, Zambia, Gambia, Singapore, Guyana, Botswana, Lesotho, Barbados, Mauritius, Swaziland, Samoa, Tonga, Figi (sospese nel 2006), Bangladesh, Bahamas, Grenada, Papua Nuova Guinea, Seychelles, Isole Salomone, Tuvalu, Dominica, Santa Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Kiribati, Vanuatu, Antigua e Barbuda Belize Maldive, Saint Kitts e Nevis, Brunei, Namibia, Mozambico, Camerun, Nauru e Ruanda.

La Scozia forse rappresenta il più inaspettato problema della legislazione Cameron. Il primo ministro scozzese, Alex Salmond, dopo aver attenuto con il suo partito, lo Scottish National Party, la maggioranza assoluta dei seggi nel parlamento scozzese, ha annunciato che darà il via ai progetti previsti per la seconda parte del suo mandato. In cima alla lista delle “cose da fare” di Salmond appare a chiare lettere la volontà di fare della Scozia uno Stato indipendente dalla Corona Inglese. Ciò che richiama pellicole cinematografiche epiche, oggi sembra molto più che una frase ad effetto e lo dimostra la stessa maggioranza ottenuta nell’organo legislativo. L’idea di Salmond è di indire un referendum nel 2014 per chiedere alla popolazione scozzese se vuole o meno l’indipendenza. Da parte sua Cameron ha avuto una frettolosa reazione che potrebbe dare più forza al movimento indipendentista di Salmond. Il primo ministro inglese ha provato a legittimare l’effetto vincolante del referendum se solo fatto nei prossimi 18 mesi. La risposta scozzese non si è fatta attendere ed è stato fatto un pronto richiamo al programma politico di inizio mandato che per l’appunto vedeva il progetto di indipendenza nella sua seconda metà. In poche parole pieno rispetto dell’iter legislativo programmato e pronto dietrofront consequenziale di Cameron che ha dichiarato “…gli scozzesi sono liberi, voglio solo che il voto sia leale, giusto e decisivo”. Allo stato attuale sembra che il referendum si farà ed il suo esito risulta alquanto incerto – attualmente i sondaggi vedono il 57% degli scozzesi contrari all’indipendenza – ma Salmond ha due anni di tempo per aumentare i consensi indipendentisti e non è detto che non ci riesca. Nel mentre è già attiva una guerra psicologica fatta di numeri e dati proposti dagli analisti delle due parti in causa: gli scozzesi puntano ad enfatizzare la possibile sovranità sui giacimenti petroliferi nel Mare del Nord. Questi consentirebbero un utile importante per le casse della Scozia Indipendente e le consentirebbero una pianificazione pluriennale nel segno della crescita. D’altra parte, gli analisti inglesi, sono di tutt’altro avviso ed affermano che, anche considerando i 6,5 miliardi di euro provenienti dai ricavi petroliferi, la Scozia spende attualmente circa 10 miliardi di euro più di quanto incassi, ritrovandosi dopo l’indipendenza con un debito di 270 miliardi di sterline. Punti di vista opposti quindi che possono celare delle mezze verità comuni: l’Inghilterra perderebbe l’opportunità di attingere dalle riserve petrolifere scozzesi e la Scozia potrebbe trovarsi in un non proprio facile transizione in un economia indipendente. Nel 2014 se ne saprà sicuramente di più ma i presupposti politici sono comunque di una Scozia più aperta all’Europa – rispetto all’Inghilterra – ma pur sempre vicina all’Inghilterra – di fatti non vi è la volontà di abbandonare il Commonwealth.

In Jamaica il neo-primo ministro, Portia Simpson Miller, ha dichiarato: Amo la Regina, è una bella donna, ma penso sia arrivato il momento di cambiare. Una dichiarazione volta a palesare la volontà da parte dell’isola caraibica di uscire dal Commonwealth per dar vita ad un nuova Repubblica pienamente indipendente. Nel caso specifico conviene scindere le conseguenze derivanti da tale prospettiva per Jamaica e Gran Bretagna. Per l’isola caraibica cambierebbe ben poco. Uscire dal Commonwealth non risolverà certamente i gravi problemi socio-economici che la riguardano: crescita del PIL al -0,8 %; 16,5% di popolazione sotto il livello di povertà; debito pubblico al 123,2% del PIL; tasso di disoccupazione del 12,9% (fonte dati: CIA World Factbook); altissimi tassi di criminalità ed omicidi. Spostare l’attenzione pubblica sull’emancipazione costituzionale non offrirà certo nuove prospettive di sviluppo economico ed una soluzione al proliferare dei Rude Boys e del traffico di droghe – unica amara reale alternativa alla povertà. L’isola attualmente è riconosciuta a livello internazionale solo per i suoi rasta singers o come luogo dove trascorrere una piacevole vacanza, troppo poco per permettersi il lusso di canzonare la Corona Inglese. Dal punto di vista della Gran Bretagna il discorso è ben diverso. L’uscita della Jamaica dal Commonwealth costituirebbe un pericoloso precedente che ne danneggerebbe l’immagine. Infatti, lo stesso Commonwealth appare oggi come un’organizzazione decadente ed usurata dall’evoluzione delle strategie geopolitiche in atto. Per lo più ha una funzionalità estetica per la Corona Inglese, volta a dimostrarne la potenza coloniale che fu. Lo sgretolamento del sistema avrebbe un mero, ma non per questo insignificante, effetto sul prestigio Inglese – anche perché dal punto di vista economico i rapporti bilaterali e/o plurilaterali vengono continuamente confermati o cambiati in base alle strategie geoeconomiche in atto.

Le Isole Falkland (Malvinas) rappresentano un importante crocevia per le strategie geopolitiche e geoeconomiche della Gran Bretagna. Della disputa territoriale, abbiamo già trattato in un precedente articolo*, ma è necessario richiamare alcuni concetti chiave importanti per comprendere meglio la criticità dell’argomento per il Regno Unito. Dal punto di vista geopolitico, rinunciare alla sovranità sull’isola, ridimensionerebbe il peso inglese nelle relazioni internazionali dando, al contrario, maggiore forza all’emergente Regione Latinoamericana. Da notare che parliamo di due aree geografiche ben diverse dato che, in appoggio alla tesi inglese – che non intende rinunciare alla propria sovranità sulle isole ne tanto meno sul mare circostante – non si è formata nessuna coalizione di Stati “Occidentali” pronti a spendere dichiarazioni pubbliche in suo favore. Dal versante Argentino, invece, si è schierata, più o meno apertamente, l’intera Regione Latinoamericana confermandone l’unità e la forte solidarietà intraregionale. Dal punto di vista geoeconomico vanno tenuti in considerazione due aspetti cruciali:

– esistono riserve petrolifere sotto il fondale marino che, indifferentemente dalla loro consistenza, rappresentano un importante risorsa in proiezione futura;

– la collocazione geografica delle Falkland permetterebbe, in futuro, una posizione in primissima linea per lo sfruttamento delle risorse artiche una volta accessibili.

Fattori importanti quindi e che potrebbero assicurare, a chi dovesse avere la sovranità su questo territorio, un posto di tutto rilievo nello scacchiere geopolitico del futuro.

Nel 2014 sicuramente ne sapremo di più e soprattutto scopriremo se durante i prossimi Giochi del Commonwealth – tra l’altro previsti proprio nel 2014 in Scozia – ci saranno importanti defezioni dell’ultimo anno, malumori tra i partecipanti o se, per la plurisecolare Corna, tutto rimarrà così come è oggi, in nome della Regina d’Inghilterra.

* Malvinas o Falkland: una sovranità che è destinata a contrapporre il nuovo sistema emergente Indiolatino al vecchio sistema occidentale.

William Bavone è laureato in Economia Aziendale (Università degli Studi del Sannio, Benevento)

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Il detonatore Kurdistan: autonomia e destabilizzazione

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Le truppe statunitensi nel dicembre 2011 lasciano l’Iraq [1] con profonde differenze dal momento in cui lo avevano invaso: se prima vi era un Governo centrale in via di sviluppo, ora sul suolo iracheno troviamo una serrata lotta fra fazioni, un Paese in fase di disgregazione politica e religiosa con un livello di vita di molto inferiore rispetto a pochi anni orsono.

Tale processo di “balcanizzazione” è fondamentale per gli Usa nel tentativo di mantenere il controllo di una zona così importante per l’accesso al cuore del continente eurasiatico (sappiamo di come tale obiettivo sia costante per la strategia angloamericana): troviamo soldati e basi americane in Kuwait, Bahrain, Qatar oltre che negli Emirati Arabi Uniti e in Arabia Saudita (fedeli partner economici degli Usa) e i rapporti con il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) sono ottimi. Il carattere fallimentare della guerra contro Saddam Hussein e la crescente influenza iraniana, portano la strategia atlantica a rinforzare tali rapporti e, dove possibile, a creare “archi di crisi” e guerre intestine per evitare blocchi regionali autonomi dai propri interessi e dalla propria visione geopolitica.

Per quanto riguarda l’Iraq, ciò a cui la volontà statunitense tende, è la costruzione di uno Stato curdo indipendente, che fungerebbe da spina nel fianco allo stesso tempo per Iran, Siria e Turchia, nonché da testa di ponte per Washington nella regione, anche alla luce dei rapporti amichevoli fra curdi e Stati Uniti. L’attenzione che i media occidentali (soft power statunitense) tornano a dare alla questione curda non fa che confermare tale strategia, e gli scontri fra la fazione governativa sciita e quella sunnita, oltre a mettere in ginocchio ogni possibile convivenza unitaria, rende i rappresentanti curdi l’ago della bilancia gettando così solide basi per una prossima tentata indipendenza; non sarebbe la prima volta nella storia che una popolazione con vocazione nazionale (e in particolare proprio i curdi [2]), venga utilizzata dagli attori regionali e globali per mettere in atto strategie geopolitiche più ampie. A causa della posizione centrale della popolazione curda infatti, nella storia più volte tale causa è stata sposata da diverse parti, capaci di cambiare bruscamente obiettivi a seconda dei propri interessi: con la prima guerra mondiale, nella regione, possiamo osservare scontri fra Turchia, Russia e inglesi e già prima della fine del conflitto le potenze vincitrici si spartirono l’area, con Francia e Inghilterra a sud e la Russia zarista al nord. Con il Trattato di Sèvres del 1920 si delineò il progetto, a spese del decaduto impero ottomano, di un Kurdistan indipendente situato appunto sul suolo turco senza che questo potesse creare fastidi all’Iraq britannico e alla Siria francese, così da creare una zona cuscinetto fra Russia e Turchia (ed evitarne una forte alleanza), impedendo un’eventuale unità sul suolo continentale eurasiatico. Solo pochi anni dopo però, con il Trattato di Losanna, la Società delle Nazioni istituzionalizzò la spartizione dei curdi in cinque Stati, così da preservare gli interessi economici e geopolitici di Gran Bretagna e Francia (che porteranno al continuo del conflitto il quale sfocerà nella seconda guerra mondiale [3]); il dominio anglo-francese nell’area, la distruzione dell’impero ottomano a favore di una Turchia occidentalizzata, gli interessi nell’Iran “inglese” e la Siria “francese”, i nascenti interessi statunitensi (e la conseguente divisione dei proventi dell’Iraq Petroleum Co.) sono l’evidenza di come le strategie delle potenze avessero utilizzato la popolazione curda (che aveva vissuto con grande autonomia sotto gli imperi ottomano e persiano) per proseguire il “grande gioco” in Eurasia: oggi le promesse di autonomia espresse da Washington ricalcano da vicino quanto avvenne nei primi anni del 1900.

Un vigoroso moto di indipendenza non farebbe altro che scatenare una guerra regionale proprio con Iran, Siria e Turchia che al proprio interno vedono importanti minoranze curde; potrebbero quindi accendersi in questo contesto i temuti attacchi a Iran e Siria, tanto evocati da Israele, così da creare una situazione generale di guerra comune dalla Libia sino al Pakistan. L’importanza del territorio curdo risiede, inoltre, nelle rivendicazioni che questo fa su diverse aree ricche di petrolio ed è quindi un fattore in più nella strada della ricerca di autonomia; tanto che il Governo centrale ha aspramente criticato la Exxon Mobil (compagnia petrolifera ovviamente statunitense) per aver firmato, prima fra tutte le aziende, un accordo per l’esplorazione e lo sfruttamento delle risorse direttamente con il Governo curdo già nell’ottobre 2011. Nei fatti l’autonomia è già vera e propria indipendenza in vari settori, tanto che nel silenzio dei media il Kurdistan ha oggi un proprio esercito, un servizio di intelligence, un Parlamento, una Magistratura, un Governo e tiene regolarmente elezioni; quasi 20 Paesi hanno stretto relazioni diplomatiche con i curdi, fra questi anche la Turchia. Come ben sanno gli addetti ai lavori, interfacciarsi con lo Stato curdo è ormai una realtà e sono molti per esempio i programmi quadro banditi direttamente con queste istituzioni; inoltre rapporti economici con la regione conoscono un incremento costante e autonomo.

Gli atti di guerriglia e terrorismo dietro i quali, secondo diversi Stati, si celano proprio gruppi curdi (armati e mossi da lontano), evidenziano come tale contesto sia potenzialmente esplosivo e di sicuro matrice di futuri cambiamenti geopolitici. Sarà probabilmente questo, o meglio continuerà ad essere questo, uno degli scenari più caldi dei prossimi anni in quanto evidentemente in cima agli interessi di accerchiamento del cuore dell’Eurasia che sono da sempre la prerogativa angloamericana, con gli Stati Uniti che oggi si sono sostituiti alle potenze imperialiste Francia e Gran Bretagna. Il “grande gioco” continua.

*Matteo Pistilli è redattore di “Eurasia, rivista di studi geopolitici”.

Note:

1) Sul suolo rimarranno comunque migliaia di soldati e addestratori militari “atlantici”, nonché un numero indefinibile di mercenari (contractors).

2) Definire uno Stato curdo, anche semplicemente da un punto di vista geografico, è un’operazione politica: i curdi si dividono fra Turchia, Iran, Iraq, Georgia, Armenia. L’estensione geografica di tale spazio equivale a 500.000 km quadrati.

3)Altri esempi storici non mancano: anche l’Unione Sovietica promosse nel 1945 uno Stato curdo oppure, anni dopo, lo sforzo di Washington di evitare la stabilizzazione della situazione promuovendo gli scontri con l’Iran e il sostegno sempre Usa (che hanno sostituito la Gran Bretagna nell’occupazione dell’Iraq) a Saddam -in seguito incolpato delle violenze sulla popolazione curda, sebbene il Governo di Baghdad avesse concesso grandi gradi di autonomia ai Curdi- ci dice molto sulla natura di tali giochi di potere.

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La “Neuropolitica americana” come possibile chiave interpretativa della politica internazionale ?

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Uno dei più interessanti e innovativi approcci allo studio della politica internazionale degli ultimi anni è di scuola americana; esso unisce la disciplina dell’analisi della politica estera con l’apporto delle neuroscienze, le quali, studiando il cervello umano, ne studiano funzionamento e limiti portando l’individuo, davanti a molteplici scelte, ad optare per un determinato corso d’azione rispetto ad un altro.

Questa scuola solleva interessanti questioni: è possibile studiare gli scenari internazionali, senza partire dalle risposte che la geopolitica correttamente fornisce, attraverso una “lente” differente, ovvero indagando le motivazioni, le percezioni e i possibili errori cognitivi tipici del decision making process americano?

E’ corretto analizzarne esclusivamente le variabili del modello sistemico indagato, il grado di eterogeneità/omogeneità degli attori nelle loro relazioni interstatali, la distribuzione di forza, gli interessi geopolitici e geoeconomici in gioco, oppure focalizzarsi sul comportamento del decisore?

La scoperta fondamentale delle neuroscienze è quella di mostrare come la politica estera sia nient’altro che un insieme di decisioni individuali (o di gruppo) derivabili da input personali e particolari del nostro cervello; sebbene essa fornisca un nuovo punto di vista da cui partire, le ragioni della geopolitica rimangono quelle che meglio interpretano la complessa natura dell’ambiente politico internazionale.

Questa disciplina americana nominata neuropolitica risulta non ancora pronta in tal senso poiché ancora oggetto di studio, mancante di quella valenza scientifica necessaria per assurgere a possibile metodo d’indagine.

Che cos’è la Neuropolitica?

Uno dei più interessanti e innovativi approcci degli ultimi anni allo studio della politica internazionale è, come accennato, di “scuola americana”; essa unisce lo studio dell’analisi della politica estera con l’apporto delle neuroscienze; in particolare questa disciplina ibrida chiamata Neuro-Politics, lungi invero da essere considerata scienza, è simile ad un caleidoscopio con il quale vedere le sfaccettature dell’ambiente internazionale da una diversa prospettiva.

Essa infatti, partendo dallo studio sul processo decisionale quale branca della più generale disciplina analizzante la politica estera, si focalizza primariamente sul decisore politico e sulle sue decisioni, alla luce delle scoperte delle discipline che studiano il funzionamento del cervello umano ricomprese nella grande famiglia delle Neuroscienze.

Quali novità forniscono allo studio della politica internazionale? Perché possono o meno rappresentare un nuova modalità di analisi della suddetta ?

Esse hanno messo in luce sostanzialmente due punti focali: in primis, l’individuo, sia esso decisore politico o uomo qualsiasi, nella vita di tutti i giorni si trova di fronte a una vasta gamma di scelte da fare, che molto spesso addirittura ignora, la cui risposta del cervello umano ad uno stimolo esterno (inteso come sfida), è decisiva per capire perché si decida in un terminato modo e perché si opti per quella determinata scelta rispetto ad un’altra.

In secondo luogo ,ogni decisore è diverso dall’altro poiché plasma le sue scelte in base a percezioni, emozioni, ricordi ; tutte queste variabili decisionali vanno lette alla luce della limitatezza delle capacità cognitive che è il vero e proprio paradigma da cui partire secondo questa interpretazione.

Nello specifico, la scuola americana alla luce di quanto detto, traduce la vita politica internazionale come il susseguirsi di avvenimenti, con riferimento a qualsiasi sistema internazionale di ogni epoca storica , risultanti quali decisioni di leadership.

Lo stallo in seno all’Onu sulla questione siriana a causa del veto russo, i nuovi tagli del governo americano sul budget della difesa che inevitabilmente riconfigureranno e rimoduleranno la propria presenza negli scacchieri regionali-mondiali… essi sono solo alcuni esempi di decisioni le quali, per essere “compresi” ,possono essere analizzati, disvelando il solo complesso meccanismo sottostante e ruotante intorno allo studio neuro-scientifico della politica? Tra poco risponderò a questo quesito.

Questa disciplina di neuropolitics, nata Stati Uniti, sta divenendo oggetto di indagine e di interesse da parte degli “analisti” italiani e non solo.

Essa studia dunque la decisione al contempo come processo e prodotto finale; con il primo termine si intende l’analisi delle variabili influenzanti (di cui sopra accennato) la decisione e interagenti tra loro, con il secondo, più semplicemente, ci si riferisce alla decisione quale prodotto (politico) finale, il quale può essere più meno rilevante ai fini di creare nuovi scenari internazionali o influenzarne altri.

La figura del decision-maker è quella di uomo, dotato di una propria personalità, propri interessi e limitato cognitivamente poiché non dotato di una razionalità atta a permettergli di accedere in toto ad un bagaglio informativo tale da essere soppesato in ogni sua variabile decisionale in gioco: gli errori di percezione o mis-perceptions possono rendere miope la visione del quadro politico di riferimento.

Una domanda che si ricollega a quella precedente sorge spontanea: per comprenderne i complessi scenari politici, è dunque sufficiente analizzare esclusivamente le variabili del modello sistemico indagato, il grado di eterogeneità/omogeneità degli attori nelle loro relazioni interstatali, la distribuzione di forza, gli interessi geo-politici e geo-economici in gioco, oppure occorre studiare primariamente il comportamento del decisore?

Perchè tale disciplina non convince ancora?

Prendendo ad esempio il veto russo sulla questione siriana non basterebbe, allora, sottolinearne le sole ragioni strategico-politiche che sottendono tale decisione per comprendere quanto sta accedendo?

In particolare, tutelare un alleato storico, interlocutore privilegiato nella regione per Mosca, proteggere la base di Tartous, scalo importante (e unico) per la flotta russa nel Mediterraneo ( dove Mosca intende restare ad ogni costo), riaffermare il suo peso all’interno del Consiglio di Sicurezza?

Se dovessimo dare una risposta attraverso la lente della neuropolitica , diremmo che attraverso un nuovo livello d’analisi occorre studiare primariamente la personalità del decisore, la tipologia di leadership esercitata, la capacità d’influenza o meno da parte del group-think quale cerchia di consiglieri politici ,la corretta sintesi delle informazioni in possesso, e il ruolo dei sentimenti quali variabili inficianti il calcolo di razionalità.

Queste sono infatti alcune delle variabili neuro-politiche tipiche di una indagine di scuola americana di nuova generazione; nello specifico Lewin, Lippitt e White ci direbbero che partendo dalla analisi delle diverse tipologie di leadership è possibile comprendere come i decisori formuleranno la propria decisione.

In particolare classificherebbero lo stile russo secondo quello autoritario, in cui il ruolo del leader è preminente e quello del group-think è minimo; egli non delega ma esercita attivamente il proprio potere esponendosi ad una eccessiva quantità di informazioni che potrebbero indurlo all’errore.

In realtà tale risposta non convince perché se vuole essere un punto di partenza dal quale costruire la nostra analisi, essa rischia di sviarci; l’appoggio della Russia alla Siria risulta essere invero prettamente geopolitico: come sopra citato Mosca ritiene Damasco un alleato importante nella regione medio orientale e partner commerciale di non poco conto (si pensi alla vendita delle armi per un ammontare di alcuni miliardi di dollari).

Il fatto stesso di permetterle un accesso ad un mar caldo quale il Mediterraneo ne fa un key player strategico da supportare, sebbene l’Occidente voglia ad ogni costo abbattere il regime di Assad utilizzando motivazioni umanitarie.

La neuropolitica è in continua evoluzione e tutta ancora da indagare; essa non è ancora in grado, come nel caso specifico, di sostituirsi alle ragioni geopolitiche che stanno dietro ad una scelta.

Indubbiamente l’analisi di queste variabili aiutano a comprendere la personalità del decisore e sono molto interessanti per stilarne una sorta di profilo, ma non possono (ancora) rappresentare un punto di vista genuino sulla comprensione dei complessi scenari di politica estera.

Un altro scenario internazionale, che gli analisti americani spiegano come errore di mis-perception decisionale, è la decisione di Bush figlio di muovere “guerra” all’Iraq nel 2003 ove il sentimento di vendetta ha inficiato il calcolo razionale-decisionale.

Questa “politica di vendetta” è stata adottata dallo stesso (come molti autori l’ hanno ribattezzata) attraverso la costruzione di prove sulla presenza di armi di distruzione di massa ( rivelatesi false) al fine di vendicare l’attacco al suolo americano da parte dell’ “Asse del Male”.

La politica unilaterale di Bush, sebbene condita di discorsi retorici di vendetta e contrapposizione tra un Impero del Bene e l’incarnazione del Male, in realtà non può nascondere le ragioni geopolitiche dietro alla scelta di attaccare l’ Iraq; l’importanza del petrolio iraqueno e il ruolo di egemonia che gli Usa volevano preservare nella regione sono, infatti, risposte geopolitiche e non neuropolitiche.

Dove può funzionare?

Se la geopolitica fornisce le spiegazioni che cerchiamo per comprendere le complesse ragioni che si celano dietro ai complessi scenari di politica, alcuni “modelli psicologici” che la neuropolitica ha elaborato, possono fornire un apporto utile se non a spiegare questi scenari in toto, almeno a fornire alcuni validi spunti di riflessione che vanno contro-verificati dalla geopolitica stessa; in pratica essi possono divenire una risorsa in più per integrarne l’analisi.

Secondo questi modelli psicologici, il decisore, in linea generale, tende a semplificare il complesso bagaglio informativo di cui dispone attraverso analogie e modelli precostituiti influenzati da personali percezioni e credenze spesso errate (Bush senior nel 1991 chiamò Saddam Hussein “un altro Hitler” con poca attenzione alle differenze tra le due personalità in questione), escludendo nel suo processo di scelta informazioni dissonanti ed ambigue che non riesce a ricondurre all’impianto decisionale costituito (L’Iran viene dipinto dagli occidentali come il “regno” di un dittatore e guerrafondaio desideroso di dotarsi di un apparato nucleare tale da distruggere Israele, perdendo di vista il ruolo regionale “positivo” che ricopre nella regione caucasica – si pensi all’isolazionismo armeno tra Turchia e Azerbaijan bilanciato da questo Stato- o all’importante ruolo per l’energia mondiale).

In secondo luogo, egli non è neutrale al rischio di perdita che lo affligge in maniera superiore rispetto a un guadagno di pari entità ( il presidente Sadat non accettò mai la perdita del Sinai a favore d’Israele nel 1967 portando alla formulazione di politiche incaute e frettolose sfociate nella guerra del Kippur), e infine è dotato di basse capacità predittivo-probabilistica che lo portano alla costruzione di scorciatoie mentali chiamate “euristiche” ( storicamente emblematica, in tal senso, la politica di appeasement nei confronti della Germania hitleriana: attraverso i continui riconoscimenti delle rivendicazioni tedesche si voleva evitare un nuovo conflitto mondiale) che spesso si rivelano essere null’altro che strategie di over-semplification approssimative.

Queste riflessioni apparentemente corrette, vanno dunque, secondo la mia opinione, ri-verificate alla luce di quanto sopra esposto.

Conclusione: geopolitica o neuropolitica?

Sebbene questo nuovo approccio allo studio della politica internazionale fornisca una chiave di interpretazione affascinante, essa fa parte di un approccio scolastico americano ancora tutto da approfondire a da verificare.

La ragioni geopolitiche sono quelle più aderenti alla realtà dei fatti poiché mostrano il vero comportamento dell’attore statale volto a preservare e/o a promuovere i propri interessi.

La neuropolitica sarebbe dunque null’altro che una nuova definizione di politica; risultato di tutto ciò che è stato (correttamente) definito come politico, rivalutato e riletto alla luce delle scoperte neuroscientifiche; dunque una politica che nella sua analisi parta dal livello individualistico –umano, che ne studi il leader in quanto connotato da credenze, percezioni, personalità ed emozioni proprie, risalendo infine verso il livello sistemico descrittivo di riferimento.

Il processo decisionale neuroscientifico non è in grado di spiegare la realtà internazionale; sembra piuttosto in grado di fornire riflessioni interessanti che vanno via via contro-analizzate e soppesate riconducendole nell’alveo (se possibile) della geopolitica stessa.

Non è possibile ora dire quando e quanto la neuropolitica americana potrà divenire strumento utile di indagine, poiché la disciplina è vasta e complessa e ancora tutta da scoprire. Secondariamente, se essa sembra funzionare meglio nell’analizzare le decisioni quotidiane di un individuo ( come dimostrato da alcuni esperimenti condotti su campioni di volontari) , è ancora tutto da dimostrare se possa o meno divenire parte integrante delle discipline analizzanti il panorama internazionale.

*Vismara Luca Francesco è dottore magistrale in Relazioni Internazionali presso l’Università Statale di Milano

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Seminario: “Il risveglio del Drago. Politica e strategie della rinascita cinese”– Videoregistrazione

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Sabato 18 Febbraio, a Milano, si è svolto davanti ad un folto pubblico  il seminario di Eurasia 2011-2012: “Il risveglio del Drago. Politica e strategie della rinascita cinese”.

Ha aperto il seminario il Console Generale della Repubblica Popolare Cinese, Sig.ra Cai Wen, è poi intervenuto via telefono Andrea Fais, co-autore del libro “Il risveglio del Drago. Politica e strategie della rinascita cinese” , a cui hanno fatto seguito il dott. Marco Costa, la prof. essa Bettina Mottura, docente universitario presso l’ateneo milanese, dell’Istituto Confucio, oltre all’introduzione e alla moderazione del direttore della Rivista, Claudio Mutti.

Di seguito riportiamo i link alla videoregistrazione degli interventi:

PRIMA PARTE:

SECONDA PARTE:

 

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I colloqui Pakistan-Iran-Afghanistan sono ‘un messaggio di sfida’ agli Stati Uniti

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Con i colloqui trilaterali tra i leader di Iran, Afghanistan e Pakistan in corso a Islamabad, una questione che si pone è che ogni parte ha da guadagnarci. L’analista politico Ahmed Quraishi dice che il Pakistan sta inviando un messaggio di sfida agli Stati Uniti.

Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad e il presidente afgano Hamid Karzai sono arrivati in Pakistan per un vertice trilaterale volto ad affrontare come Islamabad dovrebbe facilitare i negoziati tra l’Afghanistan e i taliban. Molti vedono la mossa come una sfida alla volontà degli Stati Uniti da parte di due loro tradizionali alleati – Pakistan e Afghanistan – che stanno ora cercando di includere l’Iran, un avversario dichiarato degli Stati Uniti, nel processo negoziale.

Ahmed Quraishi, presidente del Forum Paknationalists, crede che ogni parte persegua i propri obiettivi.
“Washington considera l’Iran come una sorta di nemico”, ha detto a RT, “e il Pakistan sta mandando il messaggio che la politica pakistana – da un bel po’ di tempo, in realtà – sarà indipendente e che il Pakistan perseguirà i suoi interessi anche se non rientrassero all’interno del più ampio piano strategico degli Stati Uniti per la regione.”

Quraishi ha notato che l’Iran ha previsto la visita soprattutto a causa dei timori crescenti causati dalla retorica guerrafondaia degli Stati Uniti e dei loro alleati. Ha osservato che l’obiettivo principale dell’Iran è evitare di essere circondato dagli alleati di Washington.

“Sono preoccupati per la retorica e i tamburi di guerra: la guerra psicologica, e penso che siano molto interessati a garantirsi che almeno due confinanti – Pakistan e Turchia, non entrino a far parte dell’accerchiamento filo-USA dell’Iran,” ha notato Quraishi. “Il Pakistan continua ad essere l’anello debole, perché ci sono persone all’interno della struttura del potere pakistano che probabilmente, sosterebbero gli Stati Uniti nell’usare il territorio pakistano contro l’Iran.”

Per quanto riguarda l’Afghanistan, Quraishi ha detto che leadership del paese non è pronta a perseguire il modo statunitense di combattere i taliban, e ora è disposta a includere i taliban nella struttura di potere nazionale. Ciò, secondo Quraishi, è l’obiettivo principale di Karzai in Pakistan.

“Incontra i principali leader politici e religiosi pakistani, i leader islamici che tradizionalmente hanno mantenuto legami molto stretti con i taliban afghani e altri gruppi della resistenza afgana”, ha sottolineato. Questa mossa, dice Quraishi, è un grande cambiamento per l’Afghanistan, avendo precedentemente evitato quei gruppi.

L’analista ha detto che non crede che il presidente Karzai stia realmente pensando di combattere i taliban afghani, ma che sta cercando la loro integrazione e l’apertura di colloqui diretti.” “E penso che tutti lo vogliano”, ha aggiunto.

Traduzione: Alessandro Lattanzio
Fonte: Russia Today

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Seminario: “Iran 2012. L’imperialismo verso la prossima guerra? Scenari, cronache, retroscena.” Sabato 3 Marzo 2012 a Brescia

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Gentili lettori,

siamo lieti di invitarvi all’incontro pubblico: “Iran 2012. L’imperialismo verso la prossima guerra? Scenari, cronache, retroscena.” che si terrà a Brescia nella data di Sabato 3 Marzo 2012.

Il seminario si svolgerà dalle 15:30 presso l'”Hotel Ambasciatori”, sito in via Crocifissa di Rosa, 92, nella sala “Cidneo” al sesto piano.

Vi saranno gli interventi di: Simone Santini (autore del libro “Iran 2012. L’imperialismo verso la prossima guerra? Scenari, cronache, retroscena” Edizioni all’insegna del Veltro, 2012), Enrico Galoppini (redattore della rivista “Eurasia“), Jafar Rada (membro dell’Associazione Islamica Imam Mahdi), Claudio Mutti (Direttore della rivista “Eurasia“)

L’organizzazione è a cura di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” e dell'”Associazione Nuove Idee” di Brescia.

L’incontro è valido per il ciclo 2011/2012 dei Seminari di Eurasia.
L’ingresso è libero e gratuito.

Come raggiungere la sala

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Le truppe di Assad sempre più vicine ai mercenari stranieri

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Saeed Naqvi, Sunday Guardian, 19 febbraio 2012

Una caratteristica della crisi siriana, che deve piacere a chi cerca apertamente la cacciata del regime, è che si sta rivelando un percorso lungo. Così lungo, infatti, che il mondo sta cominciando a sviluppare l’amnesia in merito alla questione palestinese. Questo deve essere uno stato di cose abbastanza felice per alcuni. Ciò fornisce certamente sollievo, una digressione che potenzialmente può tenere l’attenzione lontana da temi imbarazzanti, anche se i burattinai improvvisano una crisi dopo l’altra.

Ora ci sono giornalisti, traghettati in Siria da contrabbandieri affidabili, che testimoniano “il terrorismo transfrontaliero” da Turchia, Iraq, Giordania, Libano alla Siria. La risposta “brutale” siriana fa notizia, ma “il terrorismo transfrontaliero” no. L’espressione deve essere raccolta almeno a New Delhi.

I governi a volte operano in segreto e attutiscono le loro risposte. Ma il terrorismo transfrontaliero non fa eco neanche nei media indiani e in coloro che credono di attivare un discorso pubblico. Infuria il dibattito negli Stati Uniti, se assassinare gli scienziati iraniani abbia uno scopo utile. Ma l’intellighenzia, in questa madre della civiltà, non esprime stupore sulla dimensione etica se l’organizzare l’assassinio degli scienziati sia giusto o sbagliato, non c’è in nessuna parte del discorso. Questo stato di cose è un miglioramento della descrizione di Anthony Trollope di un colono della Tasmania che, alla domanda chi avrebbe ucciso prima se avesse visto un serpente e un aborigeno, ha risposto con candore stupefacente, “La questione non dovrebbe sorgere”?

Già, la storia siriana ha avuto molti colpi di scena sconvolgenti. La Lega Araba invia una missione in Siria, ma la sua relazione è nascosta perché il capo “sudanese” della missione è troppo “equilibrato” tra la brutalità di Stato e la violenza dei manifestanti. Che gli operativi di al-Qaida e dei taliban di Libia, Afghanistan e Pakistan abbiano trovato la loro strada per la Siria, viene riferito anche in Occidente. Ma i taliban dal Qatar? Il Qatar è un hub per il dialogo con i taliban, anche se ha iniziato a sdoppiarsi in un centro di reclutamento per le operazioni in Siria? Se è così, queste operazioni hanno la benedizione dalla più alta autorità di al-Qaida, Ayman al-Zawahiri.

In altre parole, Stati Uniti, Europa, Israele, Arabia Saudita, Qatar sono apertamente in compagnia di al-Qaida in Siria. Lanciare una guerra globale contro il terrorismo in Afghanistan e in Pakistan e infilare al-Qaida in nuovi teatri come la Libia e la Siria! Suppongo, la guerra globale al terrore verrà reindirizzata in questi teatri, una volta che l’Afghanistan e il Pakistan saranno stati ripuliti – una sorta di seconda fase di un’operazione in due tempi.

Bana kar mitana
Mita kar banane
(Costruisci, distruggi, costruisci di nuovo)
.

Nel frattempo, il gioco siriano è stato immensamente complicato dalla visita del Ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov a Damasco, insieme al personale d’intelligence russo. La prova fotografica è stata paragonata al di fuori di tutta la massa del dissenso violento in Siria. Evidentemente, Bashar al-Assad ha ricevuto il termine di una quindicina di giorni entro cui “ripulire” tali centri di ribellione, come Homs, non lontano dal confine con il Libano.
Lo spionaggio correlato alla diplomazia sta procedendo in parallelo alle operazioni ad Homs. Ad esempio, i nove pellegrini iraniani catturati dai ribelli mentre viaggiavano da Aleppo ad Hama per il santuario di Zainab, a Damasco. All’incirca nello stesso tempo, l’esercito siriano ha arrestato 49 soldati turchi. Ankara ha chiesto a Teheran di organizzare la loro liberazione.

Il Ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu si precipitava a Mosca per chiedere aiuto. Per facilitare lo scambio l’esercito libero siriano (un camuffamento dei ribelli) ha rilasciato i pellegrini iraniani sul lato turco del confine. I pellegrini hanno fatto ritorno a Teheran.
Una situazione infinitamente più grave è sorta in una zona di Homs, dove mercenari e forze speciali stranieri sono circondati dall’esercito siriano. Piuttosto che bombardare la zona di Baba Amro, la strategia siriana punta a catturare vivi gli stranieri e a ribaltare la situazione nella guerra mediatica occidentale. Un indizio circa la veridicità di questa storia è venuto dal ministro degli esteri francese Alain Juppé, che sta cercando l’aiuto della Russia per creare “corridoi umanitari” con cui consentire l’accesso ai “civili intrappolati dalle violenze”. In effetti, lo sforzo sui “corridoi” include l’idea di una nuova risoluzione del Consiglio di sicurezza, a cui l’occidente sta cercando di legare i russi.

I siriani, nel frattempo, stanno mantenendo i loro occhi sull’orologio e si affrettano lentamente a stringere il cordone sulla località di Baba Amro, presso Homs. Con altre buone notizie per loro, le fonti giordane confermavano l’arresto da parte dell’esercito giordano di sette terroristi che s’infiltravano in Siria.

Saeed Naqvi è un Distinguished Fellow presso la Observer Research Foundation ed è un giornalista.

Fonte: http://www.sunday-guardian.com/analysis/assads-troops-close-in-on-foreign-mercenaries#.T0Ek84m4yS8.facebook

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

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Siria e Iran nel Grande Gioco

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Questa estate un alto funzionario saudita ha detto a John Hannah, ex-capo assistente di Dick Cheney, che fin dall’inizio della sollevazione in Siria, il re ha creduto che il cambiamento di regime sarebbe un grande beneficio per gli interessi sauditi: “Il re sa che oltre il collasso della stessa Repubblica Islamica, nulla indebolirebbe di più l’Iran che perdere la Siria”.

Questo è oggi il “grande gioco” –  perdere la Siria. Ed è così che si gioca: istituire in fretta un consiglio di transizione come unico rappresentante del popolo siriano, indipendentemente dal fatto che abbia delle gambe reali in Siria; alimentare gli insorti armati provenienti dagli stati limitrofi; imporre sanzioni che colpiscano i ceti medi; montare una campagna mediatica per denigrare gli sforzi siriani di riforma, cercare di fomentare divisioni all’interno dell’esercito e dell’elite e, infine, il presidente Assad cadrà – così i suoi fautori insistono.
Europei, statunitensi e alcuni Stati del Golfo vedrebbero, nel “gioco” in Siria, il logico successore del gioco apparentemente riuscito in Libia a plasmare il risveglio arabo verso un paradigma culturale occidentale. In termini di politica regionale, tuttavia, la Siria è strategicamente più importante, e l’Iran lo sa. L’Iran ha detto che reagirà a qualsiasi intervento esterno in Siria.

E non è un “gioco”, come i tanti morti da entrambe le parti attestano. Gli elementi radicali armati utilizzati in Siria come ausiliari per deporre Assad, contrastano con la prospettiva di un qualsiasi risultato che possa emergere all’interno del paradigma occidentale. Questi gruppi possono anche avere obiettivi sanguinosi e per nulla democratici. Ho avvertito questo pericolo in relazione all’Afghanistan degli anni ’80: alcuni dei mujahidin afghani erano realmente radicati nella comunità, suggerivo, ma altri costituivano un grave pericolo per il popolo. Il politico statunitense che all’epoca mise gentilmente il suo braccio intorno alle mie spalle, mi disse di non preoccuparmi: queste erano le persone che “avrebbero preso a calci i sovietici”. Abbiamo scelto di guardare da un’altra parte, perché prendere a calci i sovietici andava bene per le esigenze interne degli USA. Oggi l’Europa guarda dall’altra parte, rifiutando di considerare che in Siria, gli insorti sono per davvero combattenti veterani che infliggono simili perdite alle forze di sicurezza siriane, perché spacciare Assad e affrontare l’Iran, fa gioco, soprattutto in un momento di difficoltà interne.

Fortunatamente, tali tattiche in Siria, a dispetto di forti investimenti, sembrano fallire. La maggior parte delle persone nella regione credono che se la Siria viene spinta ulteriormente nella guerra civile, il risultato sarà la violenza settaria in Libano, Iraq e anche più ampiamente altrove. L’idea che tale conflitto vomiti fuori una stabile, nonché occidentale, democrazia, è fantasiosa nella migliore delle ipotesi, un atto di insensibilità suprema nel peggiore dei casi.

Le origini della operazione per “cacciare Assad” hanno preceduto il risveglio arabo: esse risalgono al fallimento di Israele nella guerra del 2006 per danneggiare seriamente Hezbollah, e alla  valutazione post-conflitto degli Stati Uniti secondo cui la Siria rappresenta il tallone d’Achille di Hezbollah – come vulnerabile via di collegamento tra Hezbollah e l’Iran. Funzionari statunitensi speculavano su cosa si sarebbe potuto fare per bloccare questo corridoio vitale, ma era il principe Bandar dell’Arabia Saudita che li ha sorpresi dicendo che la soluzione era sfruttare le forze islamiche. Gli statunitensi furono incuriositi, ma non si poteva trattare con queste persone. Lasciate fare a me, rispose Bandar. Hannah osservava che “Bandar che lavora senza collegamenti con gli interessi degli Stati Uniti, è chiaramente motivo di preoccupazione. Ma Bandar che lavora come partner … contro il comune nemico iraniano, è una grande risorsa strategica”. Bandar ottenne l’incarico.

La pianificazione ipotetica, tuttavia, divenne un’azione concreta solo quest’anno, con il rovesciamento del presidente egiziano Mubarak . Improvvisamente Israele sembrava vulnerabile, e un indebolimento della Siria, impantanata e in difficoltà, ne aveva accresciuto il fascino strategico. In parallelo, il Qatar ha fatto un passo in avanti. Azmi Bishara, un pan-arabista che si è dimesso dalla Knesset israeliana e si è auto-esiliato a Doha, è stato secondo alcune fonti locali coinvolto in uno schema in cui al-Jazeera non solo avrebbe riferito della rivoluzione, ma ne avrebbe fatto un’istanza regionale – o almeno questo è quello che si credeva a Doha, sulla scia dei moti tunisini ed egiziani. Il Qatar, tuttavia, non stava semplicemente cercando di sfruttare le sofferenze umane per un intervento internazionale, ma ne era anche – come in Libia –  direttamente coinvolto come patrono operativo fondamentale dell’opposizione.

I passi successivi furono coinvolgere il presidente francese Sarkozy – l’arci-promotore del modello del consiglio di transizione di Bengasi, che aveva trasformato la NATO in uno strumento per il cambiamento di regime – nella squadra. Barack Obama seguì contribuendo a persuadere il primo ministro della Turchia, Recep Tayyip Erdogan – già piccato verso Assad – a usare la parte del Consiglio di transizione sul confine con la Siria, e a prestare la sua legittimità alla “resistenza”.  Entrambe questi ultimi componenti, tuttavia, furono contestati dalle rispettive forze di sicurezza, scettiche sull’efficacia del modello del Consiglio di transizione, e che si opposero all’intervento militare. Anche Bandar incontrava delle difficoltà: non ha l’ombrello politico del re, e gli altri della famiglia stanno giocando altre carte islamiche, per fini diversi. Iran, Iraq e Algeria – e, occasionalmente, Egitto – cooperano per ostacolare le manovre del Golfo contro la Siria nella Lega Araba. Il modello del Consiglio di transizione, che in Libia ha mostrato debolezze sfruttando solo una fazione come governo-in-attesa, è più crudamente deficitario in Siria. Il consiglio dell’opposizione siriana, messo insieme da Turchia, Francia e Qatar, è colpito dal fatto che le strutture di sicurezza siriane sono rimaste solide quasi come la roccia per sette mesi – le defezioni sono state trascurabili – e la base di sostegno popolare ad Assad è intatta. Solo un intervento esterno potrebbe cambiare questa equazione, ma per l’opposizione chiederlo sarebbe un suicidio politico, e lo sanno.

L’opposizione interna radunata a Istanbul aveva richiesto una dichiarazione di rifiuto dell’intervento e dell’azione armata esterni, ma il Consiglio nazionale siriano aveva annunciato anche prima dei colloqui intra-opposizione, che aveva raggiunto un accordo – tale era la fretta dei soggetti esterni.

L’opposizione esterna continua a sostenere la sua posizione in favore dell’intervento esterno, e con una buona ragione: l’opposizione interna lo rifiuta. Questo è il difetto del modello –  la maggioranza in Siria si oppone profondamente all’intervento esterno, temendo un conflitto civile. Quindi i siriani affrontano un lungo periodo di rivolte sostenute esternamente, di assedio e attrito internazionale.  Entrambe le parti la pagheranno col sangue.

Ma il vero pericolo, come Hannah stesso ha notato, è che i sauditi possano “ancora una volta accendere la vecchia rete jihadista sunnita e puntare nella direzione generale dell’Iran sciita”, mettendo per prima la Siria nel mirino. In realtà, questo è esattamente ciò che sta accadendo, ma l’occidente, come ieri in Afghanistan, preferisce non vedere – fino a quando il dramma fa gioco per il pubblico occidentale.

Come Foreign Affairs ha riferito il mese scorso, l’Arabia ed i suoi alleati del Golfo stanno sparando i radicali salafiti (fondamentalisti sunniti), non solo per indebolire l’Iran, ma per fare ciò che vedono necessario per sopravvivere – interrompere e dirottare il risveglio che minaccia la monarchia assoluta. Questo sta accadendo in Siria, Libia, Egitto, Libano, Yemen e Iraq.

Questo orientamento letteralista e islamicamente assertivo dell’Islam può essere generalmente considerato come impolitico e flessibile, ma la storia è tutt’altro che confortante. Se si dice abbastanza spesso a delle persone, che possono decidere su tutto e gli gettate addosso secchi di soldi, non stupitevi della loro metamorfosi – ancora una volta – in qualcosa di molto politico.  Potrebbero essere necessari alcuni mesi, ma i frutti di questo nuovo tentativo di usare le forze radicali per fini occidentali, ancora una volta, sarà controproducente. Michael Scheuer, ex capo dell’unità bin Ladin della CIA, ha recentemente avvertito che la risposta di Hillary Clinton al risveglio arabo, impiantando paradigmi occidentali con la forza, se necessario, nel vuoto dei regimi decaduti, sarà vista come una “guerra culturale contro l’Islam”, e seminerà i semi di un ulteriore ciclo di radicalizzazione.

Uno dei tristi paradossi è la sottovalutazione dei sunniti moderati, che ora si trovano intrappolati tra l’incudine di essere visti come uno strumento dell’occidente, e il martello dei radicali salafiti sunniti, che attendono l’opportunità di eliminarli e di smantellarne lo stato. Che strano mondo: Europa e Stati Uniti pensano che vada bene “usare” proprio quegli islamisti (tra cui al-Qaida) che assolutamente non credono nella democrazia di tipo occidentale, al fine di realizzarla. Ma allora, perché non basta guardare dall’altra parte e trarre beneficio unendosi alla pubblica cacciata di Assad?

FONTE: http://libyaagainstsuperpowermedia.com/2012/02/16/syria-and-iran-the-great-game/

Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://sitoaurora.altervista.org/home.htm
http://aurorasito.wordpress.com

 

 

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Intervista a Gianandrea Gaiani sulla crisi diplomatica italo-indiana

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Il nostro redattore Stefano Vernole ha intervistato per “Eurasia” Gianandrea Gaiani*.

Le domande dell’intervistatore sono in grassetto.

Le chiedo innanzitutto un suo parere su come realmente si sarebbero svolti i fatti: chi materialmente ha ucciso i due pescatori indiani? E’ plausibile la versione di Nuova Delhi, che ne attribuisce la responsabilità ai due marò italiani?

La verità non è ancora ben definita, non è ancora ben chiara, quindi è difficile poter dare delle risposte complete a questa domanda, però io guardo i riscontri oggettivi: questi pescatori indiani hanno lamentato di essere stati colpiti da raffiche di armi automatiche a due miglia e mezzo dalla costa indiana, dal porto di Kochi, quindi più o meno all’altezza dell’ancoraggio che c’è davanti al porto e che viene usato dalle navi che vi entrano. La nave italiana, la Enrica Lexia, si trovava a oltre trenta miglia dalle coste indiane, aveva subito un avvicinamento ostile che poteva far presupporre un’azione pirata quattro ore prima, forse anche di più, intorno a mezzogiorno e mezza, in acque internazionali, al largo quindi; come hanno detto i nostri, questo attacco si è risolto con qualche raffica in mare che ha fatto allontanare il peschereccio. Invece l’attacco di cui parlano i pescatori, che avrebbe provocato i due morti, è avvenuto nelle acque indiane, a due miglia e mezzo, e non trentatré, dalla costa, e soprattutto è avvenuto verso sera, quasi al tramonto; quindi non combacia il luogo e non combacia il posto.

Cosa c’è invece di ambiguo nella posizione indiana? Tantissime cose, ad esempio il fatto che, guarda caso, l’ International Maritime Bureau (IMB) ha reso noto di aver avuto una segnalazione di tentato attacco pirata proprio in quel posto, a due miglia e mezzo al largo del porto di Kochi, da una petroliera greca, la Olympic Flair , che ha dato l’allarme all’IMB, al centro di soccorso marittimo di Mumbai, e alla Guardia costiera indiana. Allora non si capisce per quale ragione la nave che è stata coinvolta in un supposto attacco, nel luogo dove i pescatori dicono di aver subito queste raffiche che hanno ucciso due pescatori, viene lasciata tranquillamente andare per la sua strada, mentre invece viene invitata a presentarsi nel porto di Kochi la nave italiana che aveva anche lei comunicato un tentato attacco, ma in un luogo diverso, in acque internazionali e diverse ore prima. Qui non c’è un errore o un misunderstanding, qui c’è una malafede, confermata dal fatto che gli indiani si sono rifiutati finora di effettuare autopsie ed esami balistici dei proiettili trovati sulla barca, sul peschereccio e sui corpi dei due cadaveri. Questo crea più di un motivo per dubitare della buona fede degli indiani. Perché tutto questo, sul piano delle procedure di indagini, non viene fatto in modo professionale? Il motivo, come ho anche scritto sul “Sole 24 Ore”, può essere, a mio parere, uno solo: l’India, che si vuole presentare come una grande potenza, che è uno dei paesi emergenti, che vuole svolgere un ruolo di potenza navale nell’Oceano Indiano ed è in prima fila nel combattere la pirateria somala, vuole nascondere la pirateria domestica, che ha in casa. E’ vero infatti che nel subcontinente indiano sono frequenti gli attacchi ai mercantili, anche se sono attacchi diversi da quelli della pirateria somala, non sono organizzati, non si sequestrano navi ed equipaggio per chiedere riscatti; è una pirateria, quella indiana, più da cialtroni, di pescatori che di notte salgono a bordo delle navi alla fonda nel largo dei porti, razziano valori e contanti e se ne vanno. Questo tipo di pirateria è molto frequente lungo le coste del Bangladesh, ma ci sono in media almeno una decina di casi all’anno denunciati, più forse altri non denunciati, al largo dei porti dell’India; pertanto attribuire questa azione agli italiani serve a coprire probabilmente una realtà che l’India vuol nascondere, e cioè che anche lei ha i suoi pirati, anche se sono pirati raffazzonati che attaccano le navi alla fonda dentro le acque territoriali.

Se appare abbastanza evidente l’ingenuità della Marina italiana che ha consentito il fermo dei nostri due militari da parte della polizia indiana, ritiene che il Governo italiano, tanto esaltato dai mass media per la sua presunta autorevolezza in campo internazionale, si sia mosso tempestivamente e con la dovuta efficacia? Non era subito evidente la pericolosità di questa crisi diplomatica con l’India? Se dovesse protrarsi, ritiene possibili anche ripercussioni economiche per le nostre aziende che operano in India?

Andiamo con ordine. Io credo che la Marina abbia subito questa vicenda. Il comandante della nave mercantile non risponde alla Marina militare mentre i nuclei militari a bordo dei mercantili hanno una loro catena di comando, rispondendo alla base italiana che c’è a Gibuti, che è quella che gestisce questi team imbarcati sui mercantili, la quale risponde alla Difesa, al Comando della Marina a Roma, al COI, Comando Operativo di vertice Interforze. I marines italiani “San Marco” a bordo, non sono agli ordini del comandante della nave mercantile, il quale mantiene il comando della sua nave. Quindi quando il comandante della nave “Enrica Lexia” ha ricevuto la richiesta dalla guardia costiera indiana per entrare nel porto di Kochi per fornire dei chiarimenti, è lui che ha deciso di entrarci, facendo un errore madornale. Quindi il problema è l’ingenuità di fondo dell’armatore, ma soprattutto un vuoto di potere, un vuoto esecutivo del Governo italiano e del Ministero degli Esteri, perché nel momento in cui abbiamo deciso di imbarcare nuclei armati sopra navi mercantili per proteggerli da aggressori esterni, da pirati, bisognava mettere in atto delle procedure per cui una nave mercantile che viene attaccata in acque internazionali non si fa invitare da nessun paese ad entrare nelle sue acque territoriali per fornire chiarimenti. Il diritto internazionale parla chiaro: se una nave, di qualunque nazione, in questo caso italiana, viene attaccata o ha un incidente in acque internazionali, vale il diritto di bandiera, e cioè l’inchiesta la fa la legge italiana, non la fa la legge del paese più vicino con le sue coste. Questa è una legge che è precisa, internazionale e che il nostro governo, la Farnesina, avrebbe dovuto precisare ai mercantili che imbarcano scorte militari – io mi auguro lo abbiano fatto – o magari invece, solo ingenuamente, il comandante della nave ha ceduto alle richieste indiane. Ci dovrebbero essere delle procedure precise in questo senso e la Marina le ha subite, perché nel momento in cui la nave è entrata in quel porto indiano e la polizia è salita a bordo, addirittura qualcuno ha detto armi in pugno, di fatto il fallimento è stato della Farnesina. Il nostro ambasciatore in India avrebbe dovuto provare ad impedire tutto questo, perché la nave italiana è territorio italiano, perché un militare non può essere processato o interrogato dalla giustizia civile di un paese straniero. Gli unici che possono processare od inquisire i militari sono le autorità dello stato stesso del militare o i tribunali internazionali dell’ONU qualora si ravvisino reati o accuse di crimini contro l’umanità o crimini di guerra.

Per cui il comportamento indiano è totalmente arbitrario, non c’è nessuna legge che preveda che un nostro militare debba rispondere ad un giudice indiano o di qualunque altro paese, né che possa essere detenuto. Anche se per ora sono solo ospiti in un bungalow e non dentro ad un carcere, potrebbero presto cambiare le cose. L’errore qui è stato dell’Italia, della diplomazia italiana, del Ministero degli Esteri.

Per quanto riguarda il Governo, qui ci sono due problemi. Uno è quello pratico che abbiamo visto adesso, cioè la totale incapacità del nostro Governo di far valere il nostro diritto. Il secondo problema è mediatico. Gli unici che hanno parlato ai media internazionali sono stati gli indiani, per almeno due o tre giorni. Questo ha consentito che tutta la stampa mondiale desse un ampio risalto alla tesi indiana, alle opinioni e alla valutazioni indiane che, come abbiamo visto, hanno nascosto un comportamento non solo ambiguo per quanto riguarda il problema della petroliera greca che, probabilmente, è la nave coinvolta nell’incidente. Un comportamento sfacciatamente illecito nei confronti dell’Italia e dei diritti degli italiani e soprattutto dei militari.

Uno dei motivi per cui l’Italia sta mantenendo un atteggiamento morbido con l’India sono probabilmente i rapporti economici. E’ vero che noi abbiamo tanti affari con l’India ma anche l’India ha tanti affari con noi, ad esempio l’India ha bisogno della nostra tecnologia per costruire la sua portaerei. E’ anche vero che ci sono tantissimi lavoratori indiani che lavorano in Italia e che la gran parte delle navi mercantili che battono bandiera italiana hanno a bordo marinai indiani. Quindi è vero che l’atteggiamento morbido che ha l’Italia verso l’India, che sta compiendo un sopruso, può essere anche determinato dal giro di affari che abbiamo con quel paese, però credo che queste considerazioni economiche, per un Governo che decidesse di usare più coraggio e di salvare l’onore della Patria, debbano essere un’arma a doppio taglio, nel senso che anche l’India ha interessi a mantenere rapporti con noi. Non siamo solo noi ad essere interessati a fare business con loro, ma c’è anche un interesse indiano ad acquisire nostre tecnologie e anche nostri investimenti, di avere nostre imprese laggiù; quindi credo che l’aspetto del business dovrebbe essere un’arma da utilizzare in maniera quantomeno paritaria. Non solo un’arma con la quale l’India ci può imporre di “calare le braghe” ma anche un’arma che potremmo usare per indurli a cambiare atteggiamento.

Credo che purtroppo adesso partiamo da una situazione in salita, in grande difficoltà, C’è una possibilità, e la notizia è di qualche ora fa, rappresentata dall’invio del sottosegretario Staffan De Mistura, che è un uomo di grande esperienza internazionale e che potrebbe forse cambiare le cose.

Le ultime dichiarazioni del sottosegretario agli esteri indiano, Preneet Kaur, dimostrano ancora una volta che, di fronte ad un tentativo italiano di ammorbidire i toni, di trovare un’intesa, c’è una risposta indiana molto dura, e questo è anche un po’ il frutto del fatto che l’Italia non ha mostrato una grande determinazione nel voler risolvere la crisi, anche alzando i toni.

I nostri soldati, ricordiamolo, rischiano di essere processati in una situazione senza precedenti, in un paese che per altro prevede la pena di morte; noi italiani andiamo a fare pressioni sugli USA perché applicano la pena di morte e poi lasciamo che i nostri militari vengano interrogati e forse processati da un paese che la applica.
Il rischio più importante sul piano militare, è che tra i soldati italiani – e ricordiamo che questi due marò sono due soldati in missione, non erano là in vacanza – questa situazione porti la gran parte di loro a pensare, in maniera giustificata, per non dire giusta, che il loro lavoro e la loro tutela sono sacrificabili. Che li porti a sentirsi abbandonati da uno Stato che invece gli ha mandati in quella missione e che quindi ha il dovere di tutelarli. Se questo dovesse succedere, è un rischio pericolosissimo perché di fatto vai a demotivare e a far sentire figli di nessuno coloro che difendono l’Italia e gli italiani. Questo credo sia alla fine di tutto il danno peggiore che l’Italia, con il suo atteggiamento “calabraghista”, corre. Abbiamo tanti militari impegnati all’estero e sarebbe un pessimo segnale se pensassero di essere sacrificabili per due affari o per due contratti di export o per ragioni di opportunità diplomatica.

Non ritiene surreale che la Marina militare italiana debba essere impiegata per fare da scorta a navi private? Questa triste vicende non potrebbe essere l’occasione per portare all’attenzione pubblica il problema della pirateria, in particolare dell’occupazione straniera della Somalia, che inevitabilmente genera questo tipo di conseguenze?

La Somalia non mi pare che sia occupata, magari lo fosse! Se la Somalia fosse occupata da dei paesi che mantengono un regime di occupazione non ci sarebbero i pirati. Purtroppo la Somalia è terra di nessuno, è in mano ai signori della guerra, ad un finto governo che non controlla forse neppure gli uomini che dice di avere ai suoi ordini, è in mano a milizie islamiste che sono tra l’altro anche jihadiste per loro definizione, ha eserciti stranieri come quello del Kenya o dell’Etiopia che occupano alcune regioni ma senza riuscire a controllarle. Io credo che sia il caos somalo che ha determinato la pirateria, ma al di là questo io credo che il problema della pirateria in Somalia sarebbe risolvibile in 48 ore: invece di spendere un paio di miliardi di euro all’anno per navi da guerra che stanno laggiù per far finta di scortare navi mercantili e a far finta di contrastare i pirati, contro i 160 milioni di dollari che i pirati incassano dai riscatti, faremmo prima a dare direttamente in tasca ai pirati 160 milioni di dollari perché la smettano di attaccare le navi mercantili. Almeno spenderemmo meno. La mia è ovviamente una battuta.

Ma credo che il problema serio sia che le flotte internazionali che sono là si limitano a fare contrasto in mare ai pirati quando basterebbero 48 ore per spazzare via con le armi qualunque tortuga di pirati lungo la costa. Del resto il diritto internazionale lo consente, una risoluzione dell’Onu di alcuni anni fa prevedeva anche l’impiego di forze militari internazionali a terra contro i pirati, quindi attacchi sulla costa. Basterebbe la volontà per spazzarli via a cannonate dai mari e dalle coste. Però nessuno lo fa, schiacciati come siamo da logiche politically correct. Il problema dei pirati anzi lo foraggiamo, basti pensare che i pirati quando vengono catturati, siccome nessuno li vuole processare, spesso vengono poi anche liberati dopo essere stati nutriti. Insomma, la gestione della guerra, chiamiamola così, contro i pirati somali, è una vergogna per l’intero mondo civile perché ci stiamo facendo prendere in giro forse da 4-5 mila somali che sequestrano, spesso uccidendo, usando violenza a dei civili; perché i marinai imbarcati sui mercantili sono dei civili, ricordiamolo.

Detto questo, che riguarda un po’ il preambolo alla domanda che mi ha fatto, io credo che l’impiego della marina, dei marinai del San Marco per proteggere i mercantili sia una misura utile anche se non esclusiva, nel senso che tutti i paesi hanno dovuto affrontare il problema di proteggere i mercantili perché le flotte da guerra non sono in grado di proteggerli tutti. La gran parte dei paesi hanno optato per l’imbarco di guardie private, di security contractors, società private, ex militari di solito, che fanno questo mestiere.
La Francia ad esempio imbarca dei suoi soldati sui suoi mercantili. L’Italia ha scelto una legge che consente entrambe le cose, ma finora gli unici ad essere impiegati sono i fanti di Marina, perché il regolamento che dovrebbe accompagnare la legge per consentire l’imbarco di guardie private non è stato ancora messo a punto. E’ anche emerso che c’è una forte resistenza nella Marina a consentire che questo lavoro venga affidato a dei privati, cioè che gli armatori possano affidarsi anche a delle guardie private. E’ una gestione che la Marina cerca di avere per sé.

L’impiego di contractors privati, o di militari armati come nel caso francese, sui mercantili è un sistema che ha risolto il problema nel senso che tutte le navi che hanno a bordo personale di scorta militare o civile non sono mai state sequestrate e quando c’è stato qualche tentativo di attacco i pirati hanno subito cambiato idea appena hanno visto che dalla nave gli sparavano addosso dei professionisti che sapevano sparare e che spesso sapevano centrare il bersaglio.

Quello delle scorte è un sistema di difesa passiva che protegge le navi ma non risolve ovviamente il problema della pirateria, non elimina i pirati, non li insegue, non gli dà la caccia, protegge la singola nave. E’ un sistema efficace che ha un costo per gli armatori, competitivo rispetto alle polizze assicurative che devono pagare per proteggersi il carico, la nave e l’equipaggio dal transito in acque controllate dai pirati. Tutto questo va bene finché queste navi mercantili mantengono la loro sovranità nazionale, rimangono in acque internazionali o ormeggiano in paesi dove c’è un accordo in base al quale i nostri militari possono scendere e aspettare la nave successiva.

I militari italiani hanno questa base, per questo tipo di attività, a Gibuti, poi scendono dalle navi alle Seychelles, oppure nello Sri Lanka oppure in Oman, a seconda delle rotte che percorrono le navi che entrano o escono dal Mar Rosso, e poi salgono sulle navi che fanno il percorso opposto. Nel momento in cui, come è accaduto per la “Enrica Lexia”, una nave viene convinta da un altro stato, viene invitata ad entrare nelle sue acque internazionali per subire addirittura un processo, un’ azione penale, a questo punto è chiaro che ci si trova in una situazione difficilmente gestibile perché abbiamo non solo i marinai ma addirittura i militari finiti in una situazione ingestibile e che è illecita sul piano internazionale.
Finisco con una domanda: se fossero stati altri soldati, non italiani, ma francesi, inglesi, americani, – in tal caso ci sarebbero già due portaerei e una mezza flotta davanti al porto di Kochi – , l’India avrebbe avuto lo stesso atteggiamento irrispettoso ed irriverente in violazione di qualunque legge internazionale che ha avuto in questo caso con gli italiani?

 

* Gianandrea Gaiani ha seguito sul campo tutte le missioni militari italiane. Dirige Analisi Difesa, collabora con i quotidiani Il Sole 24 Ore, Il Foglio e Libero ed è opinionista del Giornale Radio RAI e Radio Capital. Ha scritto “Iraq Afghanistan: guerre di pace italiane

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The struggle of Jean Thiriart

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The last thought I have about Jean Thiriart is a letter that he wrote to me some months before he died: he was searching for a place in the Appenins, where he could have some trekking experience for two weeks. Almost seventy years old, he was full of inner strength: he didn’t parachute since some years before, but he travelled on his aliscafe in the Northern Sea.

In the 70s, as a young activist in “Young Europe”, the organization he leaded, I met him several times. I knew him in Parma in 1964, near a monument that immediately charmed his “Eurafrican” sensibility: it was the monument of Vittorio Bottego, a famous traveler in Juba area. Then I met him in some meetings of “Young Europe” and in a camping on the Alps. In 1967, just before the Zionist aggression against Egypt and Syria, I was in a crowded conference that he had in Bologna, where he explained why Europe had to support the Arabian world against Zionism. In 1968, I participated to a meeting organized by “Young Europe” in Ferrara, where Thiriart completely developed the anti-imperialist line: “Here in Europe, the only anti-American pivot is and will be a European left-wing nationalism […] What I mean is that a popular-oriented nationalism will be necessary for Europe […] a European national-communism would cause a great chain-reaction in terms of enthusiasm […] Guevara said that many Vietnams are necessary, and he was right. We need to transform Palestine into a new Vietnam”. This one was the last speech that I listened to.

Jean-François Thiriart was born in Bruxelles on March 22 1922 in a liberal-oriented family which had come from Lieges. During his youth he was a member of the Jeune Garde Socialiste Unifiée and in the Socialiste Anti-Fasciste Union. During a not short period he cooperated with professor Kessamier, president of the philosophical society Fichte Bund, originated from the national-bolshevist movement; then, with some other far-left elements supporting the alliance between Belgium and the national-socialist Reich, he became a member of the association Amis du Grand Reich Allemand. Because of this reason, he was condemned to death by the Belgian dealers of the Anglo-American forces in 1943: the English radio putted his name in the proscription list that was communicated to the résistance with all the instructions. After the “liberation”, he was condemned through an article of the Belgian Penal Law System, modified by the Belgian dealers of the Atlantists. He remained in jail for some years and, when he was free, the judge decided to forbid him to write.

In 1960, during the decolonization of Congo, Thiriart participated to the foundation of the Comité d’Action et de Défense des Belges d’Afrique, then evolved into the Mouvement d’Action Civique. On March 4th 1962, as a member of this movement, Thiriart met many members of other political European groups, in Venice; the conclusion of these meetings was a common declaration, in which they decided to make common efforts to create a “European National Party, built on the idea of the European Unity, able to fight the American enslavement of Western Europe and to support the reunification with the Eastern nations, from Poland to Bulgaria passing through Hungary”.

However, the project of the European Party failed after a short time, especially because of the micro-nationalist tendencies expressed by Italian and German members of the Venice Manifesto.

The lesson that Thiriart learned from this failure is that the European Party cannot be created by an alliance of micro-national movements, but it must be an European common organization since the beginning. So, in 1963, “Young Europe” was born; it was a movement strongly organized and active in Belgium, Nederland, France, Switzerland, Austria, Germany, Italy, Spain, Portugal and England. The political plan of “Young Europe” is explained inside the European Nation Manifesto, which begins so: “Between the Soviet block and the US block, our role is aimed to the building of a great motherland: a united, powerful and communitarian Europe […] from Brest to Bucharest”. The choice was for a Europe strongly united: “‘Federal Europe’ or ‘Europe of the Nations’ are both conceptions hiding lack of honesty and the inability of the people who support them. […] We condemn micro-nationalisms which keep European inhabitants divided”.

Europe must choose a strong armed neutrality and he must conquer its own atomic capacity; it must “abandon the UN circus” and support Latin America, who “fights for its unity and independence”. The Manifesto tried to find an alternative choice equally distant from the dominant social systems in the two Europes, claiming the “superiority of the worker over the capitalist” and the “superiority of man over the sworm”: “we want a dynamic community with the participation to the work of all men who compose it”. A new concept of organic representation was opposed to parliamentary democracy: “a political Senate, the Senate of European Nation built on the European provinces and composed of the highest personalities in the scientific outlook, in work, in the arts and literature; a syndical House that represents the interests of all the producers of Europe, finally free from the financial tyranny and from the stranger policy”. The Manifesto ended in this way: “We refuse ‘Europe in theory’. We refuse legal Europe. We condemn Strasbourg’s Europe ‘cause of her crime of treason. […] Or we will have a nation or we won’t have the independence. Against this legal Europe, we represent real Europe, Europe of the peoples, our Europe. We are the European Nation”.

After creating a school for political education of the members (that, from 1966 to 1968, published every month a magazine called L’Europe Communautaire), “Young Europe” tried to create a European Communitarian Syndicate and, in 1967, a university association (Università Europea), which was particularly strong in Italy. From 1963 to 1966 a new French magazine was published (Jeune Europe), with a weekly frequency; among the journals in the other countries, there was the Italian one called Europa Combattente, published every month.

From 1966 to 1968 La Nation Européenne was released, while La Nazione Europea was still published even in 1969, edited by the author of this article (one last release was published by Pino Balzano in Naples in 1970). La Nation Européenne, weekly magazine with a big format and, in some releases, composed of almost fifty pages, had important dealers: the political scientist Christian Perroux, the Algerian essayer Malek Bennabi, the deputy Francis Palmero, the Syrian Ambassador Selim el-Yafi, the Iraqi Ambassador Nather el-Omari, the leaders of the Algerian National Liberation Front Chérif Belkachem, Si Larbi and Djamil Mendimred, the president of the OLP Ahmed Choukeiri, the leader of the Vietcong mission in Algiers Tran Hoai Nam, the leader of the Black Panthers Stokeley Carmichael, the founder leader of the Centri d’Azione Agraria the prince Sforza Ruspoli, the writers Pierre Gripari and Anne-Marie Cabrini. Among the permanent reporters there were the professor Souad el-Charkawi (in Cairo) and Gilles Munier (in Algiers).

In the issue of February 1969, there was a long interview by Jean Thiriart with general Juan D. Peron, who admitted that he constantly read La Nation Européenne and completely agreed with its ideals. From his Spanish refuge in Madrid, the former president of Argentine declared that Castro and Guevara were developing the struggle for an independent Latin America, started many years before by the justicialist movement: “Castro – Peron said – is a promoter of the liberation. He had to ask help to an imperialism because the other one menaced to destroy him. But the Cubans’ aim is the liberation of the American Latin peoples. They have no other intention, but that one of the building of the continental countries. Che Guevara is a symbol of this fight. He was a great hero, because he served a great idea, until he became just this idea. He is the man of an ideal”.

Concerning the liberation of Europe, Thiriart projected to build some European Revolutionary Brigades to start the armed struggle against US invader. In 1966, he had a contact with Chinese Foreign Affairs Ministry Zhou Enlai in Bucharest, and he asked him to support the constitution of a political and military structure in Europe, to fight against the common enemy. In 1967, Thiriart was busy in Algiers: “It’s possible, it’s a must to consider a parallel action and hope the military formation of a kind of European revolutionary Reichswehr in Algeria. Nowadays, the governments of Belgium, Holland, England, Germany and Italy are in a different way the satellites of Washington; so, we, national-Europeans, European revolutionaries, we must go to Africa to form the cadres of a future political-military structure that, after serving in the Mediterranean Sea and in the Near Est, could fight in Europe to defeat the quislings of Washington. Delenda est Carthago”.

In the autumn of 1967, Gérard Bordes, headmaster of La Nation Européenne, went to Algeria to meet some members of the executive secretariat of National Liberation Front and Council for the Revolution. In April 1968, Bordes came back to Algeri with a Mémorandum à l’intention du gouvernement de la République Algérienne signed by himself and Thiriart, in which some proposals were contained: “European revolutionary patriots support the formation of special fighters for the future struggle against Israel; technical training of the future action aimed to a struggle against the Americans in Europe; building of an anti-American and anti-zionist information service for a simultaneous utilization in the Arabian countries and in Europe”.

The dialogue with Algeria had no results, so Thiriart started some talks with the Arabian countries of the Middle East. In fact, on June 3rd 1968, a militant of “Young Europe”, Roger Coudroy, fell in a battle against the Zionist army, while he was trying to enter into the occupied Palestine with a group of al-Fatah.

In the Autumn of 1968, Thiriart was invited by the governments of Iraq and Egypt, and by the Ba’ath Party. In Egypt he participated to the meeting of the Arabian Socialist Union, the Egyptian party of government; he was welcomed by several ministries and met the president Nasser. In Iraq he met some political personalities, among whom some leaders of the PLO, and was interviewed by some newspapers and mass media.

Anyway, the first aim of his travel was the trial to be supported in the creation of the European Brigades, which should participate to the national liberation struggle of Palestine and then should become the principal structure of a national liberation army in Europe. The Iraqi government denied its help, under Soviet pressure, so Thiriart’s aim failed. Disappointed by this failure, with no more economic means to support a high-level political struggle, Thiriart decided to stop his political activity.

From 1969 to 1981, Thiriart completely invested his time to his professional and syndical activity in the field of optometry, in which he obtained important promotions: he was president of the European Society of Optometry, of the Belgium National Union of Optometrists and Opticians, of Centre of Studies and Optical Sciences and he was a counselor in several commissions of the European Economic Community. Although this, in 1975 he was interviewed by Michel Schneider for the magazine Les Cahiers du Centre de Documentation Politique Universitaire of Aix-en-Provence and helped Yannick Sauveur to write his university final research about “Jean Thiriart and the European national-communitarianism” (Paris University, 1978). Another research has been published by Jean Beelen about the Mouvment d’Action Civique at the Free University of Bruxelles, six years before.

In 1981, a terrorist attack by Zionist criminals against his office in Bruxelles was the decisive input for Thiriart to restart political activity. He kept in touch again with the former dealer of La Nation Européenne, the Spanish historian Bernardo Gil Mugarza, who, during a long interview (108 questions), gave him the chance to newly and better explain his political thought. So a new book could take form: it was a book that Thiriart wanted to publish in Spanish and German languages, but it is still unpublished.

In the early 80s, Thiriart worked to a book that was never finished: The Euro-Soviet Empire from Vladivostok to Dublin. The plan of this work was composed of fifteen chapters, every one of which was divided into a lot of paragraphs. As the title of this book shows, the opinion of Thiriart about Soviet Union had completely changed. Left away the old motto “Neither Washington, nor Moscow”, Thiriart assumed a new idea that we could resume in this formula: “With Moscow, against Washington”. Thirteen years before, in truth, Thiriart had expressed his satisfaction about the Soviet military intervention in Prague, denouncing the Zionist plots in the so called “Prague Spring”, in the article Prague, l’URSS et l’Europe (“La Nation Européenne”, n. 29, November 1968), and he had started to define an “attention strategy” about the Soviet Union.

“A Western Europe free from US influence – he wrote – would permit to the Soviet Union to assume a role almost antagonist to the USA. A Western Europe allied, or a Western Europe aggregated to the USSR would be the end of the American imperialism […] If Russians want to separate Europeans from America – and they necessarily have to work for this aim in the long-term – it’s necessary they offer us the chance to create a European political organization against the American golden slavery. If they fear this political organization, the better way to solve this fear consists in the integration with it”.

In August 1992 Thiriart went to Moscow with Michel Schneider, headmaster of the magazine Nationalisme et République. They were welcomed by Aleksandr Dugin, who had already encountered Alain De Benoist and Robert Steuckers (in March), and had interviewed the author of this article for the Moscow TV (in June), after a meeting with the “red-brown” opposition.

The activity of Thiriart in Moscow – where there were also Carlo Terracciano and Marco Battarra as members of the European Liberation Front – was very intense. He did conferences, interviews, participated to a round table with Prokhanov, Ligacev, Dugin and Sultanov in the headquarter of the review Den, that published an article by Thiriart under the title “Europe to Vladivostok”; he had a meeting with Gennady Zyuganov; and another meeting with several members of the “red-brown” opposition, like Nikolai Pavlov and Sergej Baburin; he had a discussion with the philosopher and leader of the Islamic Renaissance Party Gaidar Jemal; he participated to a rally of Arabian students in the streets of Moscow.

On November 23rd, three months his coming-back to Belgium, Thiriart was stroked by a cardiac crisis.

Published in 1964 in French language, Thiriart’s book An Empire of 400 millions of people: Europe, was translated into other six languages. The Italian translation was made by Massimo Costanzo (at that time, dealer of Europa Combattente), who had introduced the work with these words: “The book by Thiriart is destined to receive a great interest because of its precision and its accuracy. But where this accuracy comes from? From a very simple point: the Author has used an essentially political language, far from the smokes of ideologies and from abstract constructions. After a careful reading, you can find even some ideological elements inside the book, but these ones emerge from the political thesis, and not vice-versa, like it was in the national-European field until nowadays”.

The reader of this second Italian edition probably will agree with all what Massimo Costanzo wrote forty years ago. The reader will realize that this book, maybe the most famous one among all the books by Thiriart, is an actual book, able to preview a lot of factors, even if it’s naturally included in the historical situation in which it was written. It was able to preview, because it anticipated the collapse of the Soviet political system about ten years before the “euro-communism”; it’s at step with time, because the description of the US hegemony in Europe is nowadays a real fact.

In my library, I conserve a copy from the first edition of this book (“édité à Bruxelles, par Jean Thiriart, en Mai 1964”). The dedication that the Author wrote inside it contains an exhortation that I extend to young readers of today: “Votre jeunesse est belle. Elle a devant elle un Empire à bâtir”. Unlike Luttwak and Toni Negri, Thiriart well knew that Empire is the right contrary of imperialism and that the United States are not Rome, but Carthago.

(Transl. by A. Fais)

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Claudio Moffa: pagheremo embargo a Iran con aumento prezzo petrolio (audio)

Da Lawrence d’Arabia al bluff della Primavera araba: intervista con Franco Cardini

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A cura di George Best

La presenza del professor Franco Cardini al Politecnico di Torino è un ottimo motivo per oltrepassare la soglia di quello che fino a pochi mesi fa è stato il regno dell’attuale ministro montiano Francesco Profumo, ex rettore del secondo ateneo subalpino. Ma cosa ci fa un tipo poco conformista come Cardini nella tana dei tecnocrati in loden verde? Parla di Lawrence d’Arabia (di cui ha scritto una biografia), di rapporti con la “quarta sponda” del Mediterraneo, di relazioni con la cultura arabo-islamica, di storia, di rivolte e di sogni. Niente spread? Né debito pubblico, crisi dell’euro o riforma dell’articolo 18? Okay, allora vale la pena di penetrare nell’antro dei tecnocrati filo-bancari e di stare ad ascoltare il saggio professore fiorentino. Anzi, magari di fargli anche un paio di domande.

Ma chi era davvero questo Lawrence: un eroe, come ce lo ha presentato Hollywood, oppure una spia inglese, o ancora un traditore, come sostengono gli arabi?

«Come sempre accade il cinema banalizza, però a volte è utile. Che nella guerra civile americana i nordisti non fossero quei campioni di tolleranza e democrazia che ci hanno presentato nei libri di storia, molti l’hanno scoperto vedendo “Via col vento”. Anche nel caso di Lawrence Hollywood ha un po’ ritoccato la sua figura, oltre a migliorarla da un punto di vista estetico: il vero Lawrence era molto meno bello di Peter O’Toole, sembrava un cammello… Però lo ha reso famoso e lo ha descritto in modo abbastanza fedele. Non è vero che sia stato un traditore della causa araba: ha svolto fino in fondo il suo ruolo di agente segreto, servendo il suo Paese, però ha anche aderito in buona fede alla ribellione delle tribù arabe e alla fine possiamo dire che è rimasto vittima dei suoi sogni».

C’è persino chi lo considera una specie di Che Guevara ante litteram.

«Anche questo ci può stare. Non era uno sprovveduto, conosceva la natura intrinsecamente imperialista del suo governo, ma era un idealista e sperava davvero di poter contribuire alla nascita di uno Stato arabo unito e moderno, magari all’interno del Commonwealth. Alla fine si è rivelato un avventuriero ottocentesco e se dobbiamo fargli un appunto è di esser stato, caso mai, troppo poco realista».

Ha ancora senso parlare di Lawrence d’Arabia, a quasi cent’anni dalla sua impresa e a 77 dalla sua morte misteriosa?

«Perché no? Anche dopo un secolo i rapporti fra l’Europa e il vicino Oriente sono rimasti poco chiari, tutto per colpa della cattiva pace di Versailles, che fra le tante cose negative ci ha regalato anche un’area a sud del Mediterraneo ingovernabile. I risultati della politica demenziale di Francia e Gran Bretagna dopo la Prima guerra mondiale li vediamo ancor oggi».

Ritorna di moda la teoria dello «scontro di civiltà»?

«Al contrario. Dal mio punto di vista, invece, si ripresenta l’occasione per riallacciare un dialogo con l’altra sponda del Mediterraneo, soprattutto con il mondo arabo. È il momento di domandarci se esistono punti di contatto e valori condivisi, oppure se dobbiamo rassegnarci alla reciproca volontà di sopraffazione. Io sostengo che il Mediterraneo è come un grosso lago e che tra gli abitanti delle due sponde ci sono più affinità che non fra un siciliano e uno svedese. Ma io direi anche fra un milanese e uno svedese».

Le «primavere arabe» faciliteranno questo dialogo?

«Le “primavere arabe” sono una fregatura. O per meglio dire, sono un’etichetta fasulla adottata dai nostri mass-media per descrivere un fenomeno che stentano a comprendere. Certo, tunisini, libici ed egiziani hanno voluto abbattere i loro tiranni, ottusi e corrotti, ma solo un ingenuo poteva pensare che lo facessero in nome della liberal-democrazia occidentale. Il solito vizio di applicare a tutto categorie e modelli occidentali, salvo poi stupirsi se alle elezioni vincono i partiti legati al fondamentalismo islamico. E allora, davanti alla complessità, si reagisce con solito il riflesso condizionato, la sindrome della lavagna: di qua i buoni, di là i cattivi. Di qui gli studenti filo-occidentali, di là i cattivi sunniti e gli ancor più cattivi salafiti. Fra l’altro non si è ancora capito che queste ribellioni hanno abbattuto governi molto più filo-occidentali di quelli che li hanno seguiti».

Ci saranno altre rivolte nel mondo islamico?

«Ci sono state, ma in molti casi sono state soffocate e in Occidente non si è detto nulla. Sui nostri mass-media si parla solo di Siria, con informazioni non soltanto frammentarie, ma il più delle volte anonime e provenienti dalla cosiddetta opposizione, cui si dà credito assoluto. Invece non ci si è mai occupati delle ribellioni represse in Algeria, Yemen e Bahrein, dove l’Arabia Saudita, alleata dei governi occidentali, ha avuto un peso fondamentale».

Nelle ultime settimane l’attenzione si è spostata sulle tensioni Israele-Iran…

«Già, ma certe cose sui giornali non si possono scrivere. Ad esempio che a dar fastidio in realtà non è che Teheran si possa costruire una bomba atomica, ipotesi piuttosto improbabile, ma che sia diventato il terzo fornitore di petrolio alla Cina. Così come non si dice che gli Stati Uniti e Israele stanno cercando di far salire la tensione nell’area del Golfo Persico usando la solita vecchia tattica: quando si vuole aggredire un Paese lo si logora e lo si esaspera con manovre di vario tipo – diplomatiche, economiche, militari – fino a provocarne una reazione. Così si ha l’alibi per fargli guerra. Gli Usa lo fanno da tempo, cominciarono nel 1894 con Cuba, quando era ancora una colonia spagnola, e poi hanno proseguito nel corso del Novecento. La loro intenzione è di provocare la chiusura dello Stretto di Hormuz, per avere il pretesto di intervenire. Ma forse non si rendono conto che l’Iran non è un piccolo Paese come l’Iraq e l’Afghanistan. E soprattutto che dietro a Teheran stanno la Russia e la Cina, qui si rischia davvero la Terza guerra mondiale».

* Franco Cardini fa parte del Comitato Scientifico di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”.

FONTE:http://www.barbadillo.it/da-lawrence-darabia-al-bluff-della-primavera-araba-intervista-con-franco-cardini

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